La “Poetìa” di Corrado Zanol

di Andrea Giampietro

La produzione poetica di Corrado Zanol rappresenta un unicum nel panorama della poesia trentina, essendo egli il primo a pubblicare versi nel dialetto del suo paese, Capriana, nella Val di Fiemme. Nella sua ultima raccolta, Poetìa (stampata in proprio nel 2022 e corredata dei disegni di Sabrina, figlia del poeta), il prefatore Elio Fox, che con Zanol condivide l’appartenenza al Cenacolo Trentino di poesia dialettale, precisa: «quello usato da Corrado, è certo alla base fiammazzo [dialetto della Val di Fiemme], ma con una base fonemica e di lessico che lo distingue, con l’uso di diversi lemmi autoctoni, non so se usati solo da Corrado (che è un appassionato della ricerca) o se corrono per il paese, ma sono un atto distintivo. Potrebbe considerarsi, questo dialetto, la sintesi delle due confluenze, quella – come detto – autoctona e quella della valle madre. Prima di Corrado quel dialetto nessuno l’aveva mai scritto».

Ma se vogliamo parlare di “anomalia” dialettale, non paiono certo anomale le poesie che compongono questa raccolta il cui titolo, nato da un gioco linguistico tra “poesia” e “tìa”, che in dialetto è un legno resinoso ricavato dal pino silvestre (prediletto in passato per accendere il fuoco), rivela già una sfida al presente, un gioco che mette al confronto la sacralità del vivere quotidiano e l’estraneità di un mondo sempre più sordo al richiamo della natura e della tradizione. È una saggezza contadina e profondamente cristiana che fa parlare l’autore, in poesie che sanno di parabola evangelica, come La agram (La gramigna): «No ’ndaquà la agram / ve suplico, cavàla / sbregàghe le rais / e pò netà tuta la campagna! / La agram, la agram / tant ciàpa, tant magna! («Non annaffiate la gramigna / vi supplico, estirpatela / strappate le radici / e poi, pulite tutta la campagna! / La gramigna, la gramigna / tanto prende, tanto mangia!»).

Ma è soprattutto l’afflato religioso, che non scade mai in dogmatismo né s’insterilisce in disquisizioni teologiche, a segnare la poetica di Zanol. La sua fede è schietta, semplice e rigorosa (come il suo linguaggio), e, coerentemente con l’altra fede di cui è portatore (quella contadina, appunto), si esprime più nelle opere che nelle orazioni.  

Oggetti consueti della vita rurale di un tempo, come il caldaio e il setaccio, diventano simboli del lavoro interiore del poeta, del conflitto tra la vitalità del mondo delle idee e la rozzezza di quello visibile. Proprio in Caldére (Caldaie): «Me piàs tamisar / le sbolfrade de vapór / che da sta caldéra / se lèva su vèrs el celór. / Véder el cuèrcio levarse / dessigual che ’l vèn fòra. / Brovar… brovar / fin a farlo nar / tut quant par sóra! / Pò… / strofegà ’l fòch dei mè penséri / smorzà anca tuti i fulminanti / petar sto brovà / ’ntél albi de la vita / en pàst a le pite, a le pégore / a ai ruganti» («Mi piace osservare / le vampate di vapore / che da questo grande paiolo di rame / si alzano verso il soffitto. / Vedere il coperchio alzarsi / a mano a mano che fuoriesce. / Bollire… bollire / fino a farlo / traboccare completamente! / Poi… / soffocato il fuoco dei miei pensieri / spento anche tutti i fiammiferi / buttare questo bollito / dentro il trogolo della vita / in pasto alle galline, alle pecore / ed ai maiali»).

I pensieri che vengono bolliti nel caldaio fino a farlo tracimare, per poi essere rovesciati in pasto a galline, pecore e maiali, subiscono una lavorazione più scrupolosa nel setaccio di una consapevolezza che perfora la mente. In La cèrnita (La scelta): «Grado i mè penséri / i trago ’nté ’n crivèl. / Passa demò i pù spizzi / quei da la ponta de cortèl. / Parole come uce / che spónge / e laga màce rósse su la pèl / e na gran spizza / che dal pian del cao / la passa de ìnt / vèrs el cervèl» («Vaglio i miei pensieri / li butto in un setaccio. / Passano solamente i più appuntiti / quelli dalla punta di coltello. / Parole come aghi / che pungono / e lasciano macchie rosse sulla pelle / e un gran prurito / che dalla sommità del capo / passa all’interno / verso il cervello»).

Se neanche il mondo ideale può dare conforto, è alla natura che Zanol si affida per un rinnovamento che giovi all’umanità. Così come fa, in Soménze nòve (Sementi nuove), le vecchia Eugenia, contadina dell’alta Valfloriana, che si ostina a coltivare l’insalata: «I scólobia / ’nte na bozzàta / en slip de speranza / par tentar de ’mbastir / na nòva vita… lori» («Agitano / in una boccetta / uno schizzo di speranza / per tentare di abbozzare / una nuova vita… loro»).

L’autore insiste sulla necessità di offrire alle nuove generazioni degli esempi di moralità e d’impegno civile, senza i quali non si potrebbe aspirare ad alcun progresso. Introducendo la poesia È bastà en amen (È bastato un attimo), dedicata alla tragedia del Carmis (quando nel 1998 un aereo militare statunitense tranciò il cavo di una funivia portando alla morte le venti persone che vi viaggiavano), egli mette in guardia i suoi figli, inducendoli a ricercare la Verità attraverso le sue fonti e a rifiutare una Giustizia che vuole solo accomodare la coscienza di chi giudica: «È bastà en amen / par robarghe la Vita / en amen / par cambiar tonalità! / Da vintiquatro ani / mi cerco le nòte / par enviar via na canzon / che ’nvide a la speranza. / Da vintiquatro ani! / E no l’ai ancór gatade» («È bastato un attimo / per privarli della Vita / un attimo / per cambiare tonalità! / Da ventiquattro anni / io cerco le note / per iniziare una canzone / che inviti alla speranza. / Da ventiquattro anni! / E non le ho ancora trovate»).

In Tèra nòva (Terra nuova), questi figli sono invitati dal padre ad arare il campo, a scavare i solchi entro i quali potrà svolgersi una vita retta, proiettata all’avvenire, votata alla ricerca del Vero: «Arà fónt fiòi / parché par sóra / sta tèra l’èi malada / ma demò dói dedi sót / gh’è la Speranza» («Arate profondo figli / perché in superficie / questa terra è malata / ma solo due dita sotto / c’è la Speranza»).

Una poesia particolarmente evocativa è quella dedicata al nonno, “el Ricardo Pipa”, intitolata I tàleri (I talleri). Così come nell’antichità veniva affidato ai morti un soldo perché Caronte traghettasse le loro anime oltre l’Acheronte, Zanol si ritrova alla nascita col suo gruzzolo di denaro, con le sue responsabilità di uomo da governare: «Ài ciapà anca mi / quan che son vegnù al mondo / en pugn de tàleri! / Valghe an dopo i m’à dit: / “Adès vai, tóca a ti!”. / E mi, stremì come na gàgia / me són envià, co ’l mè fagòt / par la mè strada» («Ho ricevuto anch’io / quando sono venuto al mondo / una manciata di talleri! / Qualche anno dopo mi hanno detto: / Adesso vai, tocca a te! / Ed io, spaventato come una gazza / mi sono avviato con il mio fagotto / per la mia strada»).

Lungo questo cammino, su sua stessa ammissione, l’autore finisce talvolta “fuori dal seminato”, sempre per eccesso d’amore: «G’ài cigà a la luna, / spegiàda ’nté na pignàta / de quel róss, de Isera / e, òrbo come ’n flich, / embesuchì dal màssa amor / me són gatà co ’l cul par tèra» («Ho urlato alla luna / specchiata in una pignatta / di quel rosso, di Isera (vino Marzemino) / e, cieco come un fringuello / rintronato dal troppo amore / mi sono ritrovato con il sedere per terra»).

Tuttavia riesce in quello che si era prefissato: trovare un lavoro (quello semplice, dignitoso di chi “porta a casa la pagnotta”) e dedicarsi interamente alla famiglia. Nonostante i traguardi raggiunti, le perplessità di chi, raggiunta la maturità, si guarda indietro, non mancano di turbare la coscienza: «Ancòi, che me par de èsser madur, / ògni mendeché me vègn en mént / quel che ’l m’à dit mè nòn, en pónt de mòrt: / “Fat, fat?.. Fat gnènt!”» («Oggi, che mi sembra di essere maturo / ogni tanto mi viene in mente / quello che mi ha detto mio nonno, in procinto di morire: / “Fatto, fatto?… Fatto niente!”»).

Questo vagabondaggio esistenziale che si veste di saggezza e di malinconia, di sconforto e di speranza, ravvivandosi ciclicamente nel confronto con la natura, richiama l’opera di un grande poeta trentino, Marco Pola: «El zièl sora la testa, / la tera soto i pèi. / Liberi de pensar quel che volèn, / de lassar qualche segn che ne ricorda / o de fenir ’n gnent / come ’n sofi de vent / che passa ’ntra le fòie / dei alberi / senza sbregarne una».

La stessa fede ambientalistica, lo stesso gusto sensuale per la natura viva e concreta (in Capiterà l’autun, Capiterà l’autunno, un palo di larice e un filo di ferro attorcigliato vivono in simbiosi mentre l’uva prospera e si colora) li ritroviamo in un altro suo importante corregionale, Renzo Francescotti, che tuttavia si affida a un’elaborazione più articolata del verso e a un ritmo più “andaluso”, decisamente lorchiano (si pensi alla sua «Canzon amara, / cantada disperada»).

Ma al di là della lingua adottata, la poesia di Corrado Zanol può benissimo valicare il Trentino perché se il ricorso al dialetto risulta un’esigenza per le sue peculiarità ritmiche e fonetiche, oltre che per gli accenti emotivi che certo più dell’italiano esso riesce ad esprimere, la scelta dei temi trattati e la sensibilità con cui l’autore li rende in canto poetico (quel “parlar s’cet”, parlare schietto, ereditato dalla sua gente) hanno un carattere universale, buono per ogni latitudine.