La poesia romanesca di Corazzini, Bravi, Pettrich e C.A. Zanazzo

Un saggio di Rosangela Zoppi

ui di seguito pubblichiamo un intervento-saggio presentato da Rosangela Zoppi alla Biblioteca Vallicelliana,nel quadro degli incontri sulla poesia dialettale promossi da Lidia Gargiulo, su quattro poeti romaneschi poco noti. E cioè: Armando Bravi, Sergio Corazzini, Carlo Pettrich e Carlo Alberto Zanazzo.

I primi due, nati a Roma a fine Ottocento e morti prematuramente a inizio Novecento, hanno fatto un uso del dialetto dal registro basso e popolaresco, ma con alcune profonde differenze tra loro. I secondi due hanno invece contribuito, insieme a Mario dell’Arco, di cui erano coevi, al rinnovamento della poesia romanesca sia nei contenuti sia nella forma.

Dicevamo che i primi due poeti hanno fatto un uso del dialetto dal registro basso, popolaresco. Dobbiamo però aggiungere che Armando Bravi, a causa della esiguità degli studi compiuti, usa il dialetto perché è il solo strumento che possiede per esprimere tutta la sua sensibilità esasperata dal morbo dell’etisìa che lo sta minando. Sergio Corazzini invece elegge l’italiano a strumento di espressione elevata, raggiungendo i vertici che sappiamo, e rèlega il dialetto a divertissement, a mezzo per distrarsi, per esorcizzare il male che lo sta minando (che è lo stesso di Bravi), per dare requie al corpo sofferente.

Di Corazzini si deve anche mettere in rilievo come il romanesco, dialetto in cui compì il suo apprendistato poetico e a lui così familiare perché lo sentiva parlare nel popolare rione S. Eustachio, dov’era nato e dove viveva, connòti alcune delle sue scelte lessicali in lingua. Citiamo, ad esempio: ugna per unghia (L’anelito vano), torzo per torso (Tu…), oprì per aprì (La tipografia abbandonata), rame per rami (Sentiero). Romanesco è inoltre il monottongamento di in o, (còre per cuore e nòvo per nuovo); romanesco è l’uso dell’apocope con caduta della vocale finale: “per mi’ amore” o “le su’ ale” (La Madonna e il suo lampioncello).

Nato a Roma nel 1886, Sergio Corazzini frequentò le scuole elementari e medie, fino alla quarta ginnasio, a Spoleto; poi, interrotti gli studi per il dissesto finanziario del padre, tornò a Roma e si impiegò presso la Prussiana Compagnia di Assicurazioni con sede al Corso. Insidiato prestissimo dalla tisi, morbo che aveva già colpito gran parte dei suoi familiari, Sergio fu ricoverato nel sanatorio di Nettuno e morì a Roma nel 1907, all’età di ventuno anni.

Proprio nella vita popolaresca del suo rione di S. Eustachio Sergio colse i primi ingenui temi poetici, svolti per lo più nella forma chiusa del sonetto, in cui, secondo i canoni della poesia romanesca, il testo poetico è cosparso di ironia e malizia, o in quella dello stornello, in cui la voce di Corazzini si fa tenera e delicata e dove ottiene risultati migliori.

Diverse sue poesie in dialetto vennero pubblicate su periodici come Marforio, Rugantino e Capitan Fracassa (che, pur non essendo periodico dialettale pubblicava poesie in romanesco; ricordiamo, ad esempio, che su questo periodico Pascarella e Trilussa videro pubblicate le loro prime poesie).

Nella sezione Poesie sparse del volume su Corazzini edito da Einaudi e intitolato Poesie edite e inedite sono state incluse dieci composizioni in dialetto (9 sonetti + 5 riuniti insieme a formare un unico testo) e una composizione di vario metro intitolata Romanzo sconosciuto). In Appendice allo stesso volume sono stati inseriti anche due delicatissimi stornelli.

I
A te passione!
Quanno le stelle pareno ner cèlo
l’occhi lucenti de chi dico io,

ne le notti serene
che la luna soride e nun cià un velo,
sento sempre cantà. Canzone piene

de dorcezze che Dio
sta a sentì come me e le benedice!
E la canzona dice:

O stelle, stelle,
che a la terra mannate frezze gialle,
fate luce a la bella fra le belle.

II
Rosette belle,
rose de maggio bianche, rosse e gialle,
che cor profumo incantate le stelle…

Come la nonna
a li bambini fa la ninna-nanna
baciannoje la testa o nera o bionna,

così stasera,
tra er profumo de voi che m’innamora,
ve vojo ariccontà ‘na storia vera.

C’era ‘na vorta
‘na rosetta, ma come fusse carta,
s’accostò troppo ar foco, e lì c’è morta!

Tutto l’odore,
ch’annisconneva tra le foje rare,
se l’è perso morenno, pòro fiore!

Però un minuto
prima d’incennerisse m’ha mannato
un bacio invece de chiedémme aiuto.

Citerei anche uno dei pochi sonetti scritti da Corazzini, per mettere in risalto la differenza tra i due registri di cui parlavamo: quello tenero e delicato dello stornello e quello ironico e malizioso del sonetto.

Pe la morte de la socera
(Parla un bottegaro un po’ frescone)

Un’ora prima de schiattà me dette
un cazzottone, fìo, sott’ar barbozzo,
che ce dev’èsse ancora er lividozzo,
perché la sora Nanna Lèvemmette
m’aveva visto giù da Pippo er Bozzo
a beve con un antro du’ fojette!
E baccajò, finché nun se n’annette
a letto senza voce più ‘nder gozzo!

Ma Dio castiga! Doppo un’ora sola
je venne un accidente che, fratello,
schiattò debbotto senza fà parola!

Chiusi er negozzio subbito a la lesta;
ma ‘n ce lassai attaccato quer cartello
indó c’è scritto: Chiuso quann’è festa?

Nel 1905 moriva a Roma, due anni prima di Corazzini e minato dallo stesso morbo dell’etisia, che lo aveva fatto peregrinare da un sanatorio all’altro compresi quelli di Anzio e Nettuno, Armando Bravi, giovane venticinquenne le cui notizie biografiche sono scarsissime; si sa soltanto che fu addetto al banco di vendita di un forno del rione di Trastevere.

Grazie alla generosità di alcuni amici, che lo avevano tanto amato, vide la luce, nello stesso anno della sua morte, un piccolo opuscolo dei suoi versi romaneschi, intitolato Raccolta di poesie in dialetto romanesco di Armando Bravi. La raccolta, dedicata alla madre Adelaide, comprende una trentina di composizioni, tra sonetti e sestine, ed è tutta incentrata sul male che aveva colpito il giovane poeta e che non gli dava requie, tanto da fargli desiderare la morte. Il canto primo, il più puro e istintivo, è proprio quello dedicato alla madre, un canto in cui egli si abbandona a quell’amore che non ha fine.

Con la rassegnazione del credente Armando rivolge espressioni amorevoli e fervide ai parenti, agli amici, ai compagni di lavoro e alla sorella Olga. Dalla semplicità dei suoi versi, non perfetti e non ricercati, echeggiano sospiri e singulti, che toccano profondamente il nostro cuore. Non mancano neppure i versi per la fanciulla amata, in cui l’amore diventa null’altro che un ricordo.

Del sanatorio Umberto I descrive la corsia, gli ammalati, gli infermieri, le suore, il medico sempre allegro, la passeggiata nel giardino. Solo la notte gli fa paura, e le grida di chi soffre. Notte, pe carità, nun vienì mai, / Sei fatta apposta pe facce penà; / sto lamento de tosse che tu ciài, / armeno questo, nun ce lo portà..
Nei momenti di speranza il poeta trova la forza di inneggiare alla primavera, alle rose, agli amori, agli uccelli che gorgheggiano, al mare che è quieto come un lago.
Di questa raccolta di Armando Bravi vorrei leggervi l’ultima poesia intitolata La cascata de le foje:

Ecco l’inverno e cascheno le foje,
le foje triste, gialle, irriggidite.
Riecco la staggione de le noie
che abbatte ogn’anno tante e tante vite.
Ecco l’inverno freddo e desolato,
che smorza la bellezza der creato.

Mo cascheno le foje, mo li fiori
aresteno stecchiti su la pianta,
svanisce la fragranza de l’odori,
lui solo, er crisantemo, lui mo canta,
lui nasce adesso pe portà un conforto
su le tombe gelate de chi è morto.

Cascheno co le foje puro quelli
che er male già l’aveva condannati
e cascheno contenti, poverelli,
fra le braccia de chi l’ha tanto amati.
Destinaccio! La morte mo li coje
adesso… a la cascata de le foje!

La vita è un sogno… sì, sogno d’affanni
e però io la lasso assai contento,
benché ‘nder fiore, mo, a venticinqu’anni,
senza nemmanco er minimo lamento
e ringrazzianno chi me s’ariccoje
quanno che gialle cascheno le foje!

 

Passiamo ora ad altri due autori di cui mi preme parlarvi: Carlo Pettrich e Carlo Alberto Zanazzo, figlio, quest’ultimo di Giggi Zanazzo. Con loro la poesia romanesca compie i suoi bravi tentativi per spastoiarsi dalle vecchie forme metriche.

Pettrich e Zanazzo avvertono, insieme a Mario dell’Arco, l’esigenza di rinnovare il dialetto nella forma e di optare per contenuti di carattere universalistico, non più parodico, polemico, bozzettistico, mimetico di una certa realtà sociale.

Troviamo citati entrambi i poeti in Poesia dialettale del Novecento, la storica antologia curata da Mario dell’Arco e Pierpaolo Pasolini, edita nel 1952, in cui Pasolini accenna a Carlo de Giggi, cioè Carlo Alberto Zanazzo, e si sofferma su Carlo Pettrich, per un suo “irritato, sensuale uso del dialetto”.

Se molte sono le affinità tra i due poeti (velata mestizia, essenzialità del linguaggio, rinnovamento della metrica e della grafia dialettale), il dato più significativo di divergenza è rintracciabile nel quantitativo linguistico romanesco: ancora forte in Zanazzo, più debole, con tracce di lessico piccolo-borghese in Pettrich.

In entrambi notiamo poi il dolore dell’essere incompresi e avversati per aver tentato di rinnovare la poesia romanesca. Anche dell’Arco soffrì per questo, ma abbandonò la professione per portare avanti quelle istanze d’innovazione che riteneva indispensabili e che gli permisero di avere ragione dei suoi detrattori. Pettrich e Zanazzo, invece, occupati in un’attività lavorativa che poco tempo concedeva loro, non riuscirono a portare a compimento quel lavoro di rinnovamento al momento opportuno.

Carlo Pettrich (Roma, 1903-1979) si dedicò alla pittura e cominciò a scrivere versi dal 1921. Fondò con Quacquarini il periodico Madama Lucrezia. Funzionario e poi direttore di banca, visse in diverse città italiane ma fu Milano la città che lo spinse a rifugiarsi nella poesia in dialetto, per sublimare la solitudine e la nostalgia del perduto, e cioè la sua amata città natale. La poesia di Pettrich è caratterizzata da una velata malinconia; egli pubblicò una sola raccolta di versi in dialetto: Cimase, con una approfondita introduzione di Arnaldo Bocelli, che vede la poesia di Pettrich incerta tra due versanti: quello della tradizione belliana, che continua con Zanazzo e Pascarella, e quello che da Trilussa e Jandolo, Santini, Lombardi giunge ai più giovani. Il primo versante che esprime una poesia narrativa, epica, con linguaggio greve e metrica chiusa; l’altro che esprime una poesia più intimistica, lirica, a tratti crepuscolare, in cui si avvertono i legami con la coeva letteratura nazionale. Espressionistica definisce Pasolini la poesia di Pettrich per violenza sia degli italianismi sia del romanesco. L’uso che egli fa di arcaismi e neologismi apre la strada a Mauro Marè.

Una poesia (da Cimase)

All’ora mia ch’ogni apparenza perde
colore e trema e er silenzio è un ricettacolo
d’echi sospesi, ho galoppato senza
loco pe decifrà sospiri d’erbe,
canzone d’acque, segreti de serpe,
dialetti de farfalle maghe.
Certe sere manutengole d’estate
aspettavo la giostra de le lucciole
pe annà in cerca de ninfe ne li boschi
(e quanti agosti ruzzicati da quello
che còre e sesso tremarono uguale).
M’imbirbiva un profumo carnale
ne le fratte e che smania in quel’intrico
de foje e spine, le labbra gocciose
de sangue e frenesie, provà un pericolo
ingordo a le viscere, spreme
rosolio de sise a le more, baci
d’amore su le vene de l’acace.
La voce tua cantava ne la voce
mia grezza matterie de cigni.
Poi s’infittì la voja che c’imbestia
pe la vendetta de li sogni maligni.

Carlo Alberto Zanazzo (Roma, 1901-1975), amico di Pettrich, fu, come lui, dirigente di banca e visse in diverse città rientrando poi definitivamente a Roma. Inizialmente poeta in lingua, Zanazzo scelse il dialetto come mezzo di espressione a lui più congeniale. La sua prima raccolta poetica Assaggio, è del 1946 ed è ancora molto acerba, totalmente immersa nel gretto ambiente dialettale romano. Le due raccolte che seguirono però, e cioè Miòdine e Bellidenti, segnarono una svolta decisiva nel suo iter poetico. Ciò che colpisce in Zanazzo è soprattutto la novità dei temi e la laboriosa ricerca linguistica. “Singolare poesia”, scrive Giancarlo Vigorelli su La Fiera Letteraria, “che ha nel sangue un fondo popolare schietto, rozzo persino, de còre”.

Via de la Penitenza (Da Miòdine)

Cacciata via a spintoni
da le sfuriate d’un ventaccio ghiaccio
che strappeno la pelle
e allustreno le stelle e li lampioni,
la gente passa
sempre più rada.
Chi è quer poveraccio
che s’è persa la strada
e va avanti a la ceca, a testa bassa,
e sbandiera uno straccio pe cappotto
ch’er vento j’intorcina a li carzoni?
È er poeta de tutte l’illusioni,
che s’è pentito. E pesa assai er fagotto
de li peccati sui.
Ma dove, e quanno, e come
lui lo scaricherà, se nun ce penza
Cristo a guidallo, adesso che pe lui
tutte quante le strade ciànno un nome:
via de la Penitenza?