Davide Cortese “Tenebrezza” G. Perrone Ed. Roma, 2023
Due tra le precedenti raccolte di Davide Cortese che ho gustato, Darkana e Zebù bambino, anticipano i temi di “Tenebrezza” che, già nel titolo – tenerezza, tenebra, ebbrezza – sembra una sorta di “accusa di essere vivo” e inquieto. Ritroviamo qui anche il demonio, non più bambino senza la coscienza del male (Zebù) ma adulto: nei confronti del poeta, assume la duplice funzione di maestro e aiutante di bottega “Ragazzo di bottega del demonio /è il poeta /che col segreto artiglio di un verso /fa del demonio /il suo ragazzo di bottega.” Può bastare un verso, l’artiglio di un verso, per catturare e asservire Belzebù, così come è sufficiente un coriandolo rosso, leggero e inconsistente, ma del colore d’ una goccia di sangue, per restituire all’Autore il tempo della leggerezza e della follia; anche se – forse- la vita “ruba/ una alla volta/ tutte le stelle dell’Orsa Maggiore” che sono astri-simbolo, richiamo del pensiero e delle emozioni e – nei miti d’ogni cultura – ragioni della vita e dei rapporti tra gli uomini e con le divinità.
Davide Cortese si definisce più volte “un inquieto” e questa è l’impressione che si ricava leggendo le sue poesie: direi che dietro il suo sorriso estremamente gentile e comunicativo la sua natura isolana – roccia e mare, sole e tempesta- “bordeggia” tra ruggiti spendenti e preziosi, e magma adolescenziale.
Emerge in “Tenebrezza” una poesia filosofica o meglio una filosofia poetica nel senso più puro, non Theorìa o Logica, ma dialogo interiore che riflette l’interrogarsi sul mondo, sulle sue oscurità e le sue luci: l’amore per il sapere degli antichi pensatori ellenici. Le immagini rapiscono e portano là dove vuole l’Autore, dentro la natura che è ciclo di conoscenza e pervade ogni essere vivente. Non c’è pietra che non possa spiccare il volo “come talvolta faccio io/ stringendo un ombrello di papavero” e il mare è “il ventriloquo della conchiglia”: la logica di causa ed effetto non viene negata, ma sublimata in un pensiero divergente che spesso latita nel millennio dei superconduttori e dei software.
La poesia è allora veramente “lingua in tre dimensioni, parola capace di traforare la piattezza dei segni” (P. Lagazzi, Forme della Leggerezza, RCS, 2010); proprio questo fa Davide Cortese quando scrive “Disfare una barchetta di carta/ per scrivere sul foglio marezzato/ versi che hanno sete d’avventura:/ Rileggere parole migranti/che salpano per sempre lontano/ muovendo con la mano un addio”. E poiché nella natura è il senso e la sostanza della nostra complessità, non occorre com-plicarla per essere profondi, semmai es-plicarla, come inconsapevolmente fanno i bambini, i più vicini alla voce della natura nei suoi cicli e nelle sue ragioni; ecco che “Tutto ciò che di più saggio abbiamo detto,/noi lo abbiamo detto da bambini” nell’età in cui “la gloria” era “l’umile tappeto/ davanti al tempio sfavillante/ della nostra gioia.”
La poesia di Davide Cortese è sogno e concretezza, dolore e gioia, luce e tenebra, amore e morte, contrasti non affastellati per suscitare ammirazione, ma composti in un insieme dove nessuno prevale sull’altro nel tempo senza tempo della poesia “Per le strade del tempo vivere/ le conseguenze di parole dette in sogno”.
L’inquietudine di uomo e quella di poeta in lui divengono osmosi esistenziale e creativa, sono la terra fertile che lo ha nutrito, che lo ha spinto e lo spinge ad andare e tornare, ad abbandonarsi all’amore che dice e che soffre, che lo sfama e lo disseta. “Mi soqquadra/ il tuo sguardo./ Dice un blu/ che cielo dopo cielo/ è stato azzurro/ e bianco nuvola/ per tornare blu/ fino a me./ E i miei occhi nero rondine/ ti volano dentro”.
La radice sepolta nella terra
conosce il fiore del ciliegio che freme al vento.
E il vento a cui il tempo chiese
di zebrare la sabbia del deserto
conosce l’artiglio dell’onda
che ghermisce un oro del sole.
Il sole conosce la pietra
celata nella buia miniera.
Sa che ha dentro un profumo di mela
e che può spiccare il volo
come talvolta faccio io
stringendo un ombrello di papavero.
In ogni mia vena scorre la storia
di come il mare divenne infine
il ventriloquo della conchiglia
Mi basta il sole, adesso
e saper vivo il tuo respiro
pensare che da qualche parte
scintilla il tuo sorriso
e c’è a vagabondare nell’aria
un atomo della tua luce.
Sei un pensiero felice.
Tu non farci caso se ti amo.
La vita ti ruba
una alla volta
tutte le stelle dell’Orsa Maggiore
poi ti lascia
nella tasca del cappotto
un coriandolo rosso
che da solo
ti rende indietro
un carnevale perduto
Sulle foglie verdi, il sole
scrive lettere d’amore per la terra.
Quando sull’ultima delle foglie,
ormai scura,
il sole si è firmato
col suo nome di fuoco,
solo allora il vento
consegna le lettere alla terra.
E lei le legge, le legge ancora
e le fa sue,
lei le fa terra.
Maurizio Rossi 2/5/2023