La poesia in dialetto siciliano, una partita giunta ai tempi supplementari?

Intervista a Mario Grasso, a cura di Giuseppe Cinà

 

L’uso del dialetto siciliano sembra destinato a concludersi con il venir meno della generazione di adulti e anziani che ancora e sempre meno lo parlano. I giovani che lo parlano appartengono quasi esclusivamente a strati sociali con basso livello di istruzione. Lo parlano per necessità e lo abbandonano man mano che crescono nella scala sociale. Quelli che lo frequentano ‘per scelta’ sembrano tanti, ma è solo perché sono coloro che lo declinano entro le molteplici forme dell’arte e dunque lo rendono più visibile. I poeti dialettali non riescono più ad usarlo come il loro naturale strumento di comunicazione, perché tanto naturale non è più in quanto con esso si comunica sempre meno. Alla loro opera si aggiunge così una azione di militanza, di battaglia per contrastare la perdita del patrimonio della lingua popolare di cui sono per la loro parte portatori. Ma quali sono i termini di questa battaglia? O meglio, in quali modi si sta realizzando questa ‘fine del dialetto’? C’è modo di rallentarla? Su questo tema abbiamo posto alcune domande a Mario Grasso, direttore di Prova d’Autore, critico letterario e autore di una vasta opera di narrativa, teatro e saggistica, nonché egli stesso autore di poesia dialettale. Le sue risposte non lasciano spazio a nessuna speranza, contrariamente ai pochi che ancora ne nutrono (compreso lo scrivente).

 

La poesia dialettale sta declinando inesorabilmente. Vecchi e nuovi fattori congiurano verso questo esito. Come si caratterizza questo fenomeno in Sicilia?

Non vorrei apparire pessimista ma rispondo con l’esperienza delle mie frequentazioni attuali di tanti giovani, neolaureati in discipline umanistiche e anche scientifiche, per i quali il dialetto della loro terra è una lingua mai presa in considerazione. Zero interesse. Mi riservo, se avrò tempo e salute di procedere a una “indagine” il cui esito dò già per scontato alla luce della mia esperienza.

Nonostante questo declino, persiste la rilevanza dei fenomeni di sopravvivenza del dialetto in varie forme e ambiti. Basti pensare al cinema e al teatro, alla canzone e allo slang giovanile, e soprattutto all’ancora vasto uso del dialetto negli strati popolari. Che rilevanza lei attribuisce a questi fenomeni?

Siamo a fenomeni circoscritti e di scarso rilievo statistico. Appena si lascia la borgata isolata, il “paese”, e si frequentano i corsi universitari, il dialetto viene soppresso, mancherebbe la collega o l’amico con cui scambiare chiacchiere come nella borgata isolata, nel piccolo paese fuori mano rispetto ai centri così detti cittadini. Direi di rivolgere un pensiero alla estinzione del greco dei grandi tragediografi, per non dire del latino superato dal trionfo del volgare e ridicolizzato infine dal Folengo e dalla scuola veneta. I dialetti hanno fatto il loro tempo, adesso sono già “espressioni di dialetto tardo”, in chi le maltratta nei salotti o altrove sicilianizzando le parole della lingua di comunicazione nazionale con qualche ridicolo cambio di desinenza. Si conoscono pochissimi vocaboli del dire in dialetto e si ignora del tutto come scriverlo. Inoltre, (questo è un mio punto di vista di cui si potranno leggere maggiori precisazioni nel libro di Giuseppina Sciortino Campanili siciliani, viaggio con Mario Grasso nella Trinacria di ogni testa è tribunale, dei dialetti, soprannomi, proverbi e isole linguistiche, ed. Prova d’Autore, 2021), il discorso bisognerebbe affrontarlo da altro punto di vista. Anzitutto elogiando la libera creatività di ogni poeta che può servirsi di mistilinguismi e di qualsiasi trasgressione, o invenzione. Ma c’è una seconda fondamentale valutazione da fare, quella della storia di ogni parola, rassegnandoci a capire che l’epoca dei dialetti è finita per sempre e quanto troviamo pubblicato in siciliano fa parte di una produzione che manca di padronanza del vocabolario siciliano. Quando si scrive polvere è perché si ignora la disponibilità della voce dialettale pruvulazzu, che non è usata con l’accezione di polverone come può sembrare e come dimostra il fatto che in siciliano la donna di casa dice: Ci levu u pruvulazzu di supra i mobbili. Non solo, ma nel dire pruuli o pruvuli si può confondere con l’accezione assegnata a indicare la polvere da sparo. Insomma, si perde la memoria della lingua. Persino la fine del latino non è avvenuta con una agonia lenta, dal “Latino tardo” al volgare, alla lingua italiana, con grande discredito verso l’autorità di Pietro Bembo che aveva pontificato la svalutazione del volgare e di tutto ciò che era stata scritto in quel volgare da cui invece ha preso consistenza l’italiano. Eppure il latino era forte di una letteratura a cui noi attingiamo e su cui continueremo a studiare. L’italiano sarebbe un’evoluzione del latino? Perché no, ma è un’altra lingua, con una sua storia che comincia proprio con la storia di ogni significante. Poi, ognuno sarà libero di pensare e dire la sua, come per il mio caso di traduttore in siciliano dell’edizione integrale del Pinocchio di Collodi.

Al di là della tenuta del dialetto e dei vari ambiti in cui ciò avviene, come si trasforma oggi da un punto di vista linguistico?

A questo proposito dobbiamo mettere nel conto il linguaggio che quotidianamente ci viene inculcato dai mass-media, televisione in testa. Non parlerei di tenuta ma di morte naturale. Forse parlare di impoverimento è già una blandizie. Il dialetto tra qualche decennio potrebbe sopravvivere come le lingue classiche. La siciliana mancanza di Koiné ci ricorda i dialetti dorici e Jonici del greco classico. La differenza sta nel fatto che la sua estinzione oggi viaggia con il jet, ieri a dorso di mulo. Non mi sento di parlare di confronti. Né delle semplificazioni delle comunicazioni informatiche. Salvo a tornare a un improbabile dialetto tardo, come è stato per il latino medioevale. La Storia dei linguaggi si ripete.

Non possiamo parlare del dialetto di oggi senza uno sguardo retrospettivo. Quale è l’eredità del dialetto rinnovato dai poeti che hanno lavorato con la sordina fascista tra le due guerre e poi hanno dato vita alla fioritura della poesia neo-dialettale?

Il fascismo non poteva incoraggiare i dialetti. Come ogni regime autoritario era l’unità delle pecore in unico stazzo cui si tendeva, dalla imposizione del pronome personale “Voi” al ridicolizzare e disprezzare le parlate locali. Personalmente, per quanto riguarda vecchi e neo dialetti ho qualche riserva da esprimere, quando una lingua entra in crisi si parla di neo. In realtà basta frequentare la disciplina che si occupa di “Storia delle parole”, per spiegarsi certi fenomeni. Insomma: il perno resta la conoscenza di un vasto vocabolario e di frequentarlo. Certo il fascismo ha accelerato a favore della fine dei dialetti, probabilmente sarebbero rimasti più solidi per qualche decennio in più. Adesso la nostra lingua di comunicazione nazionale si predispone a divenire uno dei dialetti d’Europa. La legge dei grandi numeri lo annunciava già fin dalla fine del secolo scorso.

Dal punto di vista della critica letteraria pensa che la poesia siciliana abbia sofferto di un qualche condizionamento che ne ha limitato il riconoscimento (fatto salvo naturalmente il fenomeno Buttitta), o che la sua minore visibilità nel contesto nazionale – per esempio a confronto del gruppo dei poeti romagnoli del secondo ‘900 – sia da ascrivere a fattori ad essa intrinseci?

Secondo me è stata la forza trainante del successo e della popolarità di Tonino Guerra a creare una vera e propria “Scuola”. Quella di Sant’Arcangelo di Romagna va considerata come una storia a parte, con un suo ispiratore apripista. Fenomeno che non si è manifestato tra Aspra e Bagheria, i luoghi di Ignazio Buttitta. Certo, qualche limitazione i siciliani la hanno scontata, ma non esageriamo, se poi mettiamo nel conto che lo stesso Buttitta deve molto alle Feste dell’Unità e al PCI dei suoi anni. Che se poi la Sicilia paga in isolamento generale lo dimostrano i commentatori mattinieri dei titoli e dei contenuti dei giornali. Comunque non penso ci siano state esagerazioni, la normalità della consueta emarginazione un po’ per tutto. Non voglio apparire polemico.

Grazie anche all’apporto di De Mauro l’idea che i dialetti dovessero trovare nella scuola il luogo di elezione per un loro rilancio, benché concretizzatasi poi in numerose leggi e iniziative regionali, non ha trovato di fatto un adeguato sviluppo. Quale pensa che sia, a questo proposito, la situazione in Sicilia?

Lei mi invita a sciorinare una storia del ridicolo. E non solo del ridicolo. Anche per questo argomento entrano nella danza le Università siciliane. Ma preferisco, almeno per questa volta, fermarmi a quanto ho detto. Certi argomenti meritano tutto un discorso a parte, un saggio, con relativi Cfr. Tutto è sotto gli occhi di tutti. SUPERFICIALITÀ!!  Allora chiediamoci: perché i dialetti non sono entrati nelle scuole? Ci vuole pure e necessariamente chi spieghi all’adolescente delle Medie o al giovane dei Licei che la voce dialettale “paru” gode di una polisemia che dalla prima persona del verbo “pariri” (apparire), “Iu cci paru fissa”, continua da aggettivo con “Paru di scarpi” (paio di scarpe), con l’avverbio “Chistu parra paru senza sapìri chiddu ca dici” (Costui parla spesso senza sapere quello che dice) e si sbizzarrisce quando iterativo assume il significato di colmo, intero “U munnuparu-paru è fattu di gnuranti. Un esempio banalissimo ma illuminante sulla vastità dell’opera formativa che occorrerebbe approntare, a scuola e all’università, per la quale non abbiamo più risorse, né umane né materiali.