La cruedda’, nuova raccolta poetica in dialetto garganico di Vincenzo Luciani

Una recensione di Maria Lanciotti

Sul sito della rivista Controluce è apparso la recensione di Maria Lanciotti che qui di seguito riportiamo

"Sono mesi che mi rigiro tra le mani ‘La cruedda’ di Vincenzo Luciani, Edizioni Cofine 2012, e sempre l’opera presenta nuovi aspetti e varietà di temi. Leggo e rileggo quest’ultima raccolta poetica in dialetto ischitellano, una ‘lingua’ che mentre ti culla ti schiaffeggia, e resto impigliata

nelle trame di un ‘racconto’ che è vita e leggenda, testimonianza e riflessione. La ‘cruedda’– come viene spiegato nella quarta di copertina – è un oggetto umile e indispensabile realizzato dagli ischitellani di un tempo con materiali poveri e che si prestava a diversi utilizzi. Una tipica cesta che poteva contenere pane, panni o bambini in fasce, e conservare in sé gli speciali odori di tutto ciò che di volta in volta accoglieva e che diventavano nel tempo una sola inebriante essenza.

Alla cruedda della sua infanzia e delle sue forti esperienze attinge a pieno cuore Vincenzo Luciani, ‘poeta migrante’ senza terra sotto i piedi e tanto cielo a fargli strada. Torino, Roma, Ischitella del Gargano i luoghi geografici e dell’anima cui resta emozionalmente legato, ma non incatenato, cruedda di memorie inesauribili e forse indicibili, se non fosse per la lingua antica che si fa verso vivo e scioglie in canto ciò che sarebbe altrimenti inestricabile.

Ed ecco che tutto rivive. Nomi, fatti, luoghi, situazioni, percezioni: ‘Ji vaje ascianne i parole saprite/ parole che ce squàgghjene nt’a vocche/ cume fraule u voske…’ (Vado cercando parole saporose/ parole che si squagliano in bocca/ come fragole di bosco…), e ci si perde con il poeta ‘nei boschi abbandonati’ per ritrovare il succo di un vissuto spesso aspro ma sempre ricco di alimenti originari: ‘Fèmene scketeddane/ so’ turnate a nzertà pagghje de grane/ angenedute da dd’acque e da i mane’ (Donne ischitellane/ sono ritornate a intrecciare paglia di grano/ ammorbidita dall’acqua e dalle mani).

Non è una poesia consolatoria o mitigativa, quella di Luciani, ma una poesia di verità che non può esimersi dalla denuncia di fronte a palesi ingiustizie sociali e totale mancanza di carità, da qualunque parte esse arrivino: ‘Patro Pio ti odio,/ ji t’odio e t’odierò fise a che cambe,/ e ‘mparavise più. Signore perdòneme,/ ji taje assecutà/ e t’aje ‘ntumacà fise ch’a pàteme/ tu nun l’ha ‘ddumannà: "Memì, perdoneme" (Padre Pio ti odio./ Ti odio e ti odierò fino a che campo/ e in Paradiso poi, Signore perdonami,/ io ti inseguirò/ e ti tormenterò finché a mio padre/ tu non gli chiederai: "Mimì, perdonami". C’è una fede in questa poesia straziante e rabbiosa che smuove le montagne. Un’invettiva che colpisce direttamente chi un giorno irrimediabilmente ferì l’orgoglio di un padre e annichilì i suoi figli – ("… e tutto questo/ per quel calzoncino/ di mio fratello Antonio, corto,/ ma così corto che/ i coglioncini/ nientedimeno uscivano fuori") –, a cui il poeta si rivolge da credente rispettoso dell’insegnamento evangelico: "Che cappero di santo/ è uno che non capisce/ che la povertà restringe pure i pantaloni".

Una poesia, quella di Luciani, impietosa e autentica. Ogni parola un tiro messo a segno, come da insegnamento crudo della vita. Da ‘Annalfabete’ (Analfabeta): ‘Nun jèvene parole jèvene prete./ T’accugghjèvene nfronte…’ (Non erano parole erano pietre./ Ti colpivano in fronte…). Una poesia affiatata che scruta senza reticenze la condizione umana e l’implicita sofferenza, che sa farsi anche finemente ironica, o velata di rimpianto, o irta di una lucida consapevolezza che non tenta vie illusorie. Da ‘Jè ‘nnùtele che ffuje’ (È inutile fuggire): ‘Jè ‘nnùtele che accragne,/ jè ‘nnùtele che sparagne:/ u sciate tue ce accurte/ i dinte tue ce còtelene/ u pede ce stràscine/ a hamme ce sbalèie…’ (È inutile che accumuli,/ è inutile che risparmi:/ il fiato tuo si accorcia/ i denti si sconnettono/ il piede si trascina/ la gamba si sconnette…).

Il libro, diviso in tre sezioni – ‘A grotte u Tasse’, ‘I portahalle’, ‘A ville’ – chiude con una intervista a Vincenzo Luciani di Anna Maria Farabbi, in cui l’Autore si racconta come poeta e come editore (Cofine Srl), e come uomo in cammino che si pone sempre un traguardo, da raggiungere magari a tappe e non da solo.

Vincenzo Luciani, nato nel ’46 a Ischitella nel Gargano, emigrato da ragazzo in Umbria e poi a Torino, vive a Roma. Fondatore dell’Associazione e della rivista Periferie, dirige il mensile Abitare A. e il Centro documentazione della poesia dialettale ‘V. Scarpellino’. Appassionato cultore dei dialetti d’Italia, ha svolto e tuttora svolge, affiancato da uno staff di prestigio, un particolare lavoro di recupero dei 121 dialetti del Lazio. Ha pubblicato – oltre a numerosi testi di ricerca, alcuni dei quali come coautore – le raccolte poetiche, in lingua e in vernacolo, ‘Il paese e Torino’ (1985), ‘I frutte cirve’ (1996), ‘Frutte cirve e ammature’ (2001), ‘Tor Tre Teste ed altre poesie’ (2005). "

di Maria Lanciotti