La cruedda di Luciani tra nostalgia e sorriso, tra popolare e colto, tra lingua e dialetto

La recensione di Roberto Pagan

Vincenzo Luciani, pugliese del Gargano, studi in Umbria, un lungo soggiorno – tra politica e sindacalismo – a Torino. Approdato a Roma nel ’75, si fa pubblicista e giornalista, ed editore in proprio, si ritrova una vena di filologo e dialettologo (parecchie rassegne e antologie al suo attivo), dirige, con Achille Serrao, la rivista “Periferie” col proposito di riscattare autori e culture emarginate. Ha inventato e gestito per dieci stagioni il Premio di poesia dialettale “Ischitella-Città di P. Giannone”. In proprio è anche poeta, vero e genuino, benché finora assai discreto – si è fatto un punto d’onore di dare alla luce una raccolta ogni dieci anni – e comunque, a forza di bazzicare i poeti, è cresciuto di molto, si direbbe, nel frattempo. Ne è prova l’ultima corposa silloge,“La cruedda” (Edizioni Cofine, 2012), in dialetto ischitellano. È giusto sapere che la “cruedda” è una cesta tradizionale, adatta – come dicono i versi della poesia eponima – agli usi più svariati: per il pane o la biancheria, ma anche per la dote della sposa e come culla.(Na vota jéve cònnele, mò chiene / d’a dote de na zite, / mò addurose de pane). Insomma, per il poeta nostalgico, un mito essenziale delle origini e delle radici, una cornucopia di fantasia.  Ancora oggi, per quella civetteria dell’understatement cui si accennava, Luciani si autodefinisce pojete d’u ’nfrajurne (poeta dei giorni feriali), che affrunde nd’u tram …che affrunde nd’u tran / tran d’a vita …appare a ttande / e peje de tande (che incontri nel tram ..e nel tran / tran della vita … un poeta come un altro, uguale o peggiore degli altri). E se fosse, in qualche caso, migliore di tanti altri?

 
Il suo dono più evidente sembra quello di saper mediare: tra nostalgia e sorriso, tra popolare e colto, tra lingua e dialetto. Essendo poi il suo dialetto ischitellano, arioso e pregnante, uno strumento dominato con piglio sicuro e senza eccedere mai nel pittoresco di maniera. Con garbo, ma tutto sostanza e, apparentemente, poche pretese. Così, schivando con l’astuzia dell’ironia il patetico sempre in agguato, un attimo almeno prima che spunti la lacrima, il nostro poeta rianima, con felice misura, un mondo corale: che era il mondo di ieri, povero in canna ma ricco di suoni e colori e di quelle parole “saporite” ch’egli va, appunto, cercando: Ji vaje ascianne i parole saprite / parole che ce squàgghjene nt’a vocche / cume fraule …(che si squagliano in bocca / come fragole). Quando il mare era mare e anche l’aria meno inquinata e più cordiali forse i rapporti col prossimo. La pietas di Luciani si prodiga a resuscitare fin dove è possibile la parte migliore di quel passato, ma non vuole nemmeno imbalsamarlo. Così la sua poesia di oggi è quella di un intellettuale pensoso che trova nelle cadenze del dialetto la forma di una comunicazione capace di resistere sì sulla carta, ma sembra ancora più adatta all’oralità: conscia nella sua immediatezza di ricuperare persino il pubblico guastato dalla “moderna” incultura, più perniciosa dell’antica ignoranza. Non c’è spazio, nei suoi versi, per l’idillio e il rimpianto. Nessuno dimentica il sangue e il sudore dei padri: la miseria non è certo cosa da rimpiangere o idealizzare. Ma ciascuno dentro di sé può misurare, nei momenti di maggiore lucidità, quanto quel supposto progresso sia stato scontato con l’abbandono troppo precipitoso delle radici.
 
Se questo è lo sfondo, la “Cruedda” di Luciani spesso vive nel confronto tra quel passato e questo presente. Giganteggia come un emblema la figura del padre, provato dall’esistenza, fatto spilorcio di baci (accuscì carruchiane de vasce), che non avrebbe fatto al figlio una carezza se non di notte, spiando che dormisse, (sckitte allascurde pàteme u faceve / spijanne che durmeve): lui che per necessità, non certo per turismo, si era girato mezzo mondo, e sapeva più cose che non  il figlio istruito: è lui che gli ha insegnato a lasciare la zappa e che tutto il mondo è paese (jisse che m’ha mbarate / a lassà sta a zappe e che / tutte e munne jè pajese) (in Na terre che nun tene addore). Lo stesso ammonimento che ancora brucia in Annalfabete: …Vingè! / E nun jenne facenne accume a mme: / a zappe pese sette chile e mezze (Vincenzo! / Non fare come me, / la zappa pesa sette chili e mezzo).
 
Sono lacrime e sorrisi insieme. Come quando ricorda il padre umiliato persino da Padre Pio per via dei calzoncini del fratellino Antonio, così corti che i cugghjungidde / nentedemene ascèvene dafore (i coglioncini / nientedimeno uscivano fuori). E quello che doveva essere santo lo richiamò: “ Chi è il padre / di questo ragazzo?”. Patro Pio ti odio –  ancora adesso non gliela può perdonare: –  …Che càppere de sante / je une ca nun capisce / ch’a puvertà pure i cavezune astregne (che la povertà restringe pure i pantaloni).
 
Un padre così, morto com’era vissuto, lasciandosi scappare solo un’invocazione: Madonna ‘a Libbera / vìneme a pigghje! Perciò è giusto che la Madonna l’accumbagne ‘e jardine / de portahalle e de cumune / senza confine (l’accompagni ai giardini / di aranci e di limoni / senza confine). Perché era da quei giardini di Rodi dov’era nato che il padre portava le arance (i portahalle): le arance che saziavano l’inverno gelato e affamato (che saziàvane u mmerne / chiatrate e allangate). Come non ricordare la madre che piangeva e malediceva la povertà, ma sbucciando una bella arancia asciugava le lacrime? Nel naso l’odore / delle zagare che stordiva / del giardino di mare davanti a Rodi (Ntu nase u addore / d’i sciure che sturdeve / d’u jardine de mare nnanze a Rode). Qualche impennata dei toni lirici; ma subito dopo il grottesco, magari mescolato al patetico: Vulije de murtatelle, un Proust casereccio, ma assai incisivo. Le carte oleate con la mortadella, da mettere sulle fette imburrate: la madre le portava da Foggia, quando ci andava per la visita di controllo. Tanto da augurarsi che non guarisse troppo! Aveva un profumo, quella mortadella,  de neve stipate / che trasceva ndi frosce / nt’u cerevedde (di neve stipata / che entrava nelle narici / nel cervello).
 
E poi il nonno, i parenti, gli amici, le macchiette del paese. A volte brevissimi strambotti, o epigrammi dal sapore di apologhi, acuminati dall’ironia e dallo spirito d’osservazione. Come Zé Fulecette. “Quando andrò al mare, so che guarderò al balcone di mia zia Felicetta. Anche lei se n’è andata. E pensare che cantava:”vivere / senza malingonia”. Oppure Zezì, la zia Vincenza. “Vorrebbe farle una telefonata  Solo per dirle magari: ti voglio bene. Ma non lo fa, perché una sola frase affettuosa gli parrebbe smanceria : …tu mo vide u cerevedde / nturtunute che tenghe, / sficcà d’o core “zezì te vogghje bbene” / me pare, pure si nun gnè, vumecarie. Un  viziaccio, questo  pudore degli affetti, che pare proprio ereditato dal padre, carruchiane de vasce, e, peggio, dal nonno, che pure si chiamava Vincenzo come lui, che certo gli voleva bene, ma invece di baci e carezze, berciava: Va’ vidde dove a ji a ssunà …frèchete a tte e ghjisse / pàtete! (Vedi dove andare a suonare. Fottiti te e tuo padre! ). Vuoi mettere invece i papanonne de mo’: i nonni di oggigiorno, sempre appresso i nipoti … a bocca aperta come intontiti, che spingono vanitosi le carrozzine (sempre appresse ‘e nepute ,/ cundende, a vocche aperte, nzalanute / e vòttene smarfiuse i carruzzine)”. Tutto cambia. Ma sarà poi vero che tutte cagne? – dice un’altra pagina. “ Mio nonno strascicava i piedi. Pure mio padre, in ultimo, lo faceva. E je l’istesse / na zica ziche i pide strascecheje …Mio padre si tormentava le unghie. E mo ji pure, a tempe perze, / na ziche hé ncumenzate …Va a sapere se lo faceva anche mio nonno”. Argutissimi appunti, di una saggezza popolana che a volte può essere più sofisticata di quanto crediamo. A volte giocati sul paradosso, come in U ride e u chiagne, il riso e il pianto: “Abbiamo parlato di morti./ E abbiamo riso / tanto. Tanto / abbiamo riso / che sono / spuntate / le lacrime”. Umorismo amaro, certamente, ma capace di cogliere con finezza la labilità dei nostri moti psicologici.
 
Lo stesso oscillare di sentimenti, ma con empito corale, nella immaginosa evocazione di una festa notturna, in  A ccettode (la bisboccia). Una sorta di baccanale nella Foresta Umbra, che sembra coinvolgere insieme uomini e piante, animali e insetti. “Godiamoci la frescura, arrostiamo il capretto, a sorso a sorso beviamo il vino paesano. Canzoni d’amore cantiamo alla luna. Domani dovremo separarci sgracenate e spatriate da la sorte, / sciuscie de vente ‘e spiche de grane: sgranati e spartiti dalla sorte / soffio di vento tra spighe di grano”. Dal fortissimo delle sonorità dispiegate al pianissimo malinconico del congedo. Ma nella memoria del lettore resterà impresso soprattutto il vorticare fiabesco dei nomi bizzarri e quasi ebbri assaporati dal dialetto: u spripìnguele (il pipistrello), u scurfigghione (il geco), i frummiche (le formiche), li vermelucente (le lucciole). A confermare il valore insostituibile di una scelta espressiva.
 
Vincenzo Luciani, La cruedda, Ed. Cofine, Roma, 2012
 
(Da “Capoverso. Rivista di scritture poetiche”, n. 26, Luglio-Dicembre 2013)
 
Roberto Pagan