Ogni testo è un’opera a sé, è vero e dovrebbe funzionare autonomamente, nel senso che ciò che ignoriamo dell’autore, e dell’orizzonte poetico che gli è proprio e che gli viene dalle opere precedenti, non dovrebbe valere più di tanto in fondo nel dire del libro la cui forza è o dovrebbe essere tutta nel comunicare e trasmettere di per sé motivi e ragioni umane non trasmettibili- e non estinguibili- se non in quel dato processo e in quella data forma. Ovviamente è pure vero, e soprattutto in alcuni autori, che una conoscenza non parziale di una scrittura nella visione piena delle sue direttrici, nell’origine e nel dispiegamento delle sue risonanze e dei suoi interrogativi, meglio ci aiuta, aiuta il lettore in quella comprensione d’insieme che muovendo da quel mondo lo coinvolge e lo conferma e lo disattende anche nel disarcionamento che comunque avviene, c’è nel confronto che viene dall’incontro.
È il caso di Roberto Maggiani, autore prolifico e poliedrico soprattutto in relazione a un pensiero poetante e a un sentire umano mai quieto, mai domo alle proprie certezze e che nella cucitura delle proprie indagini, nella sua struttura, che gli viene in accordo anche dalla sua natura di scienziato tra ammassi di stelle e ricerche d’altrui presenze nel cosmo, racconta in fin dei conti dell’uomo tenerezze e dolenze di cuore, e carne nel bordo di vitale labilità che lo determina e lo abita.
Bellezza, allora, che proprio sul crinale di una mortalità che in questa poesia si espande per logiche d’amore e prossimità, cura diremmo per attenzione reciproca degli elementi, s’aggioia nel verso di più e diversi volti, e voci a dire di noi nel tempo incarnazioni e passaggi d’anima. Trasfigurazioni in Roberto sempre vegliate e accompagnate, come detto, in rimando costante a quell’universo in cui tra sistemi e galassie il nostro pianeta si sa, o per meglio dire, si pensa solo nei suoi eterni movimenti.
Così c’è una traccia in “Spazio espanso”, l’opera che precede quest’ultima fatica, che è rivelatoria all’interno di tutta la sua riflessione in cui l’uomo è sempre tenuto a mente e riportato nella grazia del suo stato di creatura. “La vita è un ingegno molecolare ben calcolato/ sul bordo di un abisso arretrato”, sottolinea infatti sostenendoci poi in tutto il testo a ricordarci però che principalmente è nella paura il rischio della perdita e nell’annullamento nell’abisso, a fronte di un’ intelligenza biologica e creaturale appunto di uomini “con istruzioni antichissime/ dalla fabbrica dei viventi” all’interno di un Universo in cui non “c’è altro che vogliamo ammirare/ se non la sua bellezza”.
Bellezza che è nella luce che esalta la natura delle cose e che non si somma, come dal titolo, ma nel tutto comprehende , nei giochi di sovrapposizione a partire dai suoi elementi più piccoli. Bellezza che è conoscenza, ed affidamento anche in quel viaggio nella Cosmonità, (secondo il neologismo appositamente coniato in riferimento ad una comunità cosmica ove aspettative e interrogazioni umane possono trovare arricchimento) che è anche un viaggio verso Dio. Dio, come vedremo, evidentemente tramite e snodo d’approdo di questo bel lavoro appena uscito per la Italic di Ancona. Seppure qui, ma solo apparentemente perché tutto ritorna nelle dinamiche di una poesia che mai perde di vista il proprio sguardo di fondo, tutto avviene, accade da terra nella dimensionalità delle occasioni di cui il verso si nutre nel respiro e nei profili che gli si affacciano intorno.
Occasioni, sì, in un riferimento caro a Montale, che scaturiscono principalmente da alcuni soggiorni, da alcuni viaggi che hanno il loro luogo principe nell’isola portoghese di Porto Santo nell’Oceano Atlantico ed in cui da subito tra abbassamenti e rialzamenti di maree, nelle vibrazioni di un sole tra ricami di cosmo e magnetismo terrestre, nel cuore di giochi e fatiche di terra ed uomini in indissolubile legame, si leva quell’osservazione contemplativa che è alla base in Maggiani e che da sempre nello sguardo è educazione allo spirito, nella docilità di una bellezza ovunque traccia d’umile obbedienza al disegno che la trascende.
Equilibrio, certo, fragile però per l’uomo, sovente in una linea di galleggiamento instabile entro quella “distesa azzurra/ in cui tutto sprofonda”, una gravità di sé (in un’ accezione spaziale più che inconscia in questa poesia) in cui davvero allora il concetto stesso di bellezza ruota tutta attorno ad una resistenza che è fatica come dicevamo e superamento delle insidie e che qui nel riconoscimento ha la riuscita immagine del cuore che è come un’isola (ciò che splendendo fuoriesce sul mare), “una cima che emerge/ da altezze nascoste tradite dal blu”, in una nudità che è forza per semplicità e fede in se stessa.
Coscienza che in queste pagine, non cadendo mai nella trappola della facile ed edenica cartolina, si incide nella pietra e nella carne della “precarietà della rete che ci sostiene” proprio a partire dai riflessi di quello stesso Universo che potendo disintegrarsi (“La paura”) appare piuttosto qui sostenuto, e riaffermato nella consapevolezza necessaria del tuffo, nel timore del “blu che si allinea allo sguardo” (“Il sole si muove veloce sull’oro della sabbia”). Ed allora è qui, nel rovesciamento di specchi di un Cosmo che non ci appare più come da una navicella nel silenzio di spazi interstellari ma dall’impronta di luce dei suoi rivoli terrestri, che si muove lo scarto di un’arte che sa nella veglia e nella spoliazione paziente di sé il riconoscimento di una sintonia- e di una sinfonia- di forme ed elementi nel nascosto divenire di una continua origine in realtà più che nella direzione dell’incontro, del rimbaudiano mare che si mischia al cielo, tutta già nell’Unità perenne che mai ci disattende nel verbo stesso dei suoi richiami.
Richiami nelle cui entrate e nelle cui uscite anima e figura umana si percepiscono care nella dolenza e nella meraviglia dell’immersione e dove, nel mistero delle feritoie, anche la stessa apparizione all’alba di Venere, “come un’esplosione silenziosa di luce”, è segno della presenza certa della terra nel cosmo (“L’argento lunare”). E poi Venere, ecco.. il cui nome caro aiuta a spingerci nel pieno di una riflessione ricca anche per urgenza e dovizia di una sensualità diremmo greca, classica nell’ammirazione raffinata dei lineamenti e dei corpi, degli echi di carne nella nudità che ci fa uguali a cui l’anima risponde nel fremito di desiderio e reciproco possesso nel cardine armonico di una terra stessa che nell’ansimare delle unioni non può che farsi altare di quel cielo di cui per fecondità si sa promessa (“I genitali lì appesi sono semi da piantare”, tra gli altri, in “Ritratto”).
Discorso d’amore che è primario in Roberto e che all’interno della sua poetica è chiaramente svelato e sciolto nel seno di una interrogazione irrinunciabile e che in “Caduta”, testo-amuleto dal quale si fa accompagnare nelle raccolte, è confessione più che pudica di un qualcosa di inesprimibile proprio per le risultanze e le aspirazioni, a proposito di fecondità, che ci definiscono. E possono condizionarci, anche, e per cui dunque nel compimento con l’altro, l’unione di due più che somma è dunque sempre quel tronco, quel terzo che nell’Universo ci espande e lo espande (“L’universo che ci conviene”) secondo un’intelligenza di slancio che ha piuttosto il suo motore in quel cuore di carne senza il quale lo stesso spirito pagherebbe per eccesso di fantastico (“Il corpo”).
Cuore con il quale si crede, come avverte San Paolo, e muscolo non involontario allora oltre il visibile, nel rilascio della parte razionale di sé in cui per fede nell’apertura al mondo si rivela, e lo rivela a illuminare le spezzate unità, a disoffuscarle anche nel grembo di un Dio e di una continua creazione che ci sa, ci attende e ci ama finalmente a vincerci tra i riflessi scomposti di una realtà di cui in definitiva, come il cagnolino Becket in “Regni”, poco sappiamo. Così, dunque, è in questo bordo che sempre ci risucchia e da cui per Bellezza siamo investiti e chiamati, il motivo dichiarato di una poetica nell’apprendimento umano a non perdersi restando immersi nel soffio vitale di un Dio evocato e inteso fin nella sua presenza abituale tra e nei colori e forme delle cose, fino ad esserci come l’ “albero/ che nella sua totale presenza / si assenta nell’abitudine/ dello sguardo” ma pure pronto a sorprenderci, a presentarsi sulla “soglia di una porta/ sempre aperta sul patio” nel segno di un’alleanza che non si piega alle rovine di verità non dette in cui nel consumo del mondo l’uomo arriva a negare il proprio stesso destino (“La verità nascosta si paga”) ed a cui piuttosto, in conclusione, questi versi si oppongono proprio nel riconoscimento di forza dell’Essere nel suo popolo che in pietra e carne da qui ne raffigura e sostiene la gloria dei cieli nelle forme e nelle “terre nuove dei santi” della Cattedrale d’Amiens. Da qui, ancora, dove “l’arte è il reale” nell’alleanza del Tempio come Corpo mistico del Cristo inchiodato sul marmo ed ai cui piedi con Roberto- non più soli- ci fermiamo.
Roberto Maggiani, La bellezza non si somma, Italic edizioni, Ancona 2014.
Gian Piero Stefanoni