La bellezza effimera di Roberto Pagan

Appunti su 'Le Belle ore del Duca', di Anna Elisa De Gregorio
Ogni volta che la bellezza si propone alla nostra porta non è facile accoglierla tutta e subito perché la bellezza è bruciante e non conosce discrezione. E noi rischiamo di restarne folgorati. Questo è quanto avrà pensato anche Roberto Pagan, che, dopo aver ricevuto in dono un libriccino di miniature medioevali (quelle memorabili de Les très riches heures du duc de Berry), lo ha messo da una parte in attesa che decantasse la “troppa” emozione. E, un giorno, è bastata la scintilla di poche parole di Baudelaire a innescare la miccia: le miniature del duca sono ritornate “presenti”  e, nel giro di qualche ora, il poeta Pagan (la mia lingua parlò come per se stessa mossa) ha ripagato il debito restituendo in poesia dodici altrettanto perfetti componimenti con in più un prologo a mo’ di interesse maturato.
 
Quando ci domandano che cos’è la bellezza, bisognerebbe raccontare questa piccola storia o un’altra delle tantissime simili che ogni giorno accadono agli umani.
 
Che dire di più di questo minuscolo libro di versi sui mesi dell’anno dal titolo Le Belle ore del Duca, edizioni Cofine 2012, di Roberto Pagan, versi meditati e scritti davanti ad altrettante miniature del libro “d’ore” e “d’oro”, di lapislazzuli e di altre preziosità dei fratelli Limbourg, arrivate dal mondo favoloso, tra Francia e Fiandre, del tardo medioevo? Mondo in cui noi lettori ci troviamo trasportati dalla perfetta macchina del tempo che è la poesia. Tempo circolare quello dei poeti, come dice Antonio Prete nel Trattato della lontananza, che ci fa sfiorare l’eternità, ma solo sfiorare…
 
‹‹Che mai può essere, oggi, un libro d’ore se non un pretesto per alcune riflessioni o divagazioni sul tema del tempo, sulle stagioni della storia e della nostra vita individuale, una ricerca di se stessi sul filo dei motivi immutabili della vita e della morte, e insomma una corsa dietro a quel fantasma che sempre ci sfugge, la nostra identità…››.  Questo scrive nella sua nota di congedo Pagan, e, in effetti, leggendo le dodici stanze o, potremmo dire, “frottole” perché la polisemia di questa parola è molto evocativa, vediamo che non tanto di poesia ecfrastica si tratta, ma piuttosto di poesia sapienziale, filosofica con un andamento dolente, autunnale, pur con qualche sprazzo di azzurro.
 
Cominciamo da Gennaio a sfogliare questa “corona dei mesi”(come non pensare a Folgore da San Gimignano?) e vediamo alla nostra sinistra, sormontata da una lunetta azzurra, una tavola imbandita (due minuscoli cani e la salière du pavillon in convivenza perfetta con i colorati manicaretti), il duca magnifico e gli altri invitati per lo scambio tradizionale dei doni. Sappiamo che i cento dettagli sono la parte incantata della miniatura, ma ci spostiamo alla nostra destra per leggere ciò che Pagan ci racconta di questo capolavoro con il suo occhio singolare e metafisico: ‹‹Davanti al caminetto col turbante/ di pelo e in veste azzurra il Duca/ riceve gli ospiti in polpe bicolori, effimeri/ dai calzari a punta, prodigo/lui di sé, del tempo che gli è dato/ come se tornasse capodanno/ eterno, così vani/ l’orgoglio l’opulenza/ terrena il circondarsi/ d’armigeri e sergenti e bianchi/ levrieri sinuosi/ è in alto il carro/ del sole ma trascorre/ rapido e l’ora è dunque/ un’ora, amico,/ di stolida superbia››. Pagan non mette un punto finale alla lirica perché tutto prosegue, in un flusso continuo, nelle pagine successive dove troviamo già in attesa Febbraio e poi gli altri mesi pronti a sostituirsi al precedente, trascorso in un batter di ciglia o di parola poetica. 
 

Lasciamo davvero a malincuore questo libro d’ore con una crudele caccia al cinghiale davanti a un fantasmatico, bianco, castello di Vincennes nel Dicembre dei fratelli Limbourg (non a caso l’ultimo per loro e per il duca, perché morirono l’anno dopo tutti di peste), legato insieme con il Dicembre di Pagan: ‹‹Non valgono i nostri castelli/ i nostri obelischi più alti del cielo/ a farci diversi dai cani/ È rissa la vita canaglia/ è rossa malpelo/ e il grido attanaglia/ canea nella quiete/ squarciata/ in questa foresta del mondo// Radura è solo il silenzio/ che ricompone la sera:/ si è fatto tardi, è comparsa/ ancora una volta la luna// Spegniamo lampade fioche/ è l’ora di chiudere/ i conti con questa ferocia/ dei vecchi millenni:/ domani/ apriamo finestre d’azzurro/ che circoli l’aria/ di un secolo nuovo››. Gli ultimi tre versi ci accompagnino in questo scorcio di anno vecchio e siano viatico per il prossimo. La speranza mai ci abbandoni, raccomanda il poeta. 

Anna Elisa De Gregorio

22 novembre 2012