Io non sono il mio sintomo di Renzia D’Incà

Recensione di Maria Lenti

 

Poeta e narratrice, saggista e autrice per il teatro, Renzia D’Incà è di nuovo in libreria con poesie dal titolo subito enigmatico e intrigante, così come la poesia eponima:  «Io non sono il mio Sintomo / sono il mio Stile, il che mi rende irresistibilmente SS // seduttiva adorabile odiosamata stronza / tanto io vado per la mia strada-adieu / e chi mi ama non i segua alé // conosco un uomo di me / assai più danneggiato / ma ahimè parlar non posso / del peccatore-e neanche del peccato» (p. 69). 

Un dentro e un fuori non combacianti? L’apparenza e la sostanza? Il desiderio e il suo riscontro? Il pensiero e l’agire? Potrei continuare con gli interrogativi divergenti o confluenti, in ultima analisi, in constatazione o in altra domanda: sono io in questo tempo, oppure chi è con me nei giorni di questo tempo?  Posto che quell’io ci/mi riguarda come accade sempre nel pensiero che raccoglie la propria linfa da una linfa anteriore e posteriore al formarsi di essa: la poesia, si sa, è conoscenza, ma è anche reinvenzione, spostamento da sé, ritorno nel sé della vita reincartata dall’esperienza, ridata poi in pensieri. Nel caso in versi. 

  Così, nell’andamento snodato anche in citazioni, supportato qua e là dai “fantasmi” di viaggiatori, i propri simili, precari di un quotidiano andare, da tempi verbali al passato (mentre prevale il presente indicativo), da assonanze e rime (il montaliano Bufera ha l’efficace “annera”), da strofe di tre versi brevi, da soluzioni stilistiche non usuali,  Io non sono il sintomo rende un andamento dei giorni odierni accidentato, deflesso, difficile da dire perché difficile e doloroso è doverci stare: ciò nonostante amato nel suo esserci e desiderato in cambiamento.

  Una poesia, questa di Renzia D’Incà, da centellinare per sentirne il “fiato”, “il respiro vitale”, per vedere come dalla diversità linguistica (per tutte la poesia In una zona rotta dal silenzio, pp. 78-80)  esca la visione di un mondo squinternato, ma ancora con la richiesta, magari tacita, di essere rimesso in differenti quinterni vivibili, ritrovabili con la memoria di un bene già prefigurato o di un simbolico da inventare. E valgono anche, per quest’ultimo aspetto, i richiami a Stendhal, Vasari, Schubert, a Ermete Trismegisto (in exergo), la citazione di Fabrizio De Andrè.. 

  Coniugato, questo mondo, con la malinconia propria di chi lo vorrebbe diverso dall’inesorabile precipitato massmediale, di chi lo vive però mai fuori dalla speranza, di chi sa essere, il deserto, una terra possibile di vita altra dall’usuale: « …tu dentro mortifera voliera / mentre io volo ancora, papi / come cincia allegra con le cincie / che scacciano la polpa dell’albero…», (p. 44). Con qualche illusione che fa intravedere, scrive Ottavio Ossani in clausola alla sua prefazione, «…una felicità composta, leggera, nascosta.», (p. 8).  

Renzia D’Incà, Io non sono il mio sintomo, I Quaderni del Bardo Edizioni, 2024