Il pane e la rosa. Antologia della poesia napoletana

(maggio 2005)Il pane e la rosa. Antologia della poesia napoletana dal 1500 al 2000,  di Achille Serrao, Ed: Cofine, Roma, pp. 208, euro 15,00

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IL PANE E LA ROSA. Antologia della poesia napoletana dal 1500 al 2000, presenta biografie e testi di 29 poeti, suddivisi per epoche cronologiche: dal 1500 con Velardiniello al 1600 con Cortese, Basile, Sgruttendio, Perrucci, al 1700 con Oliva, Lombardo, Capasso, Pagano, de’ Liguori, Piccinni. Quattro capitoli sono dedicati al 1800 con i predigiacomiani Sacco, D’Arienzo, Capurro, Bracco, con Salvatore Di Giacomo e con Russo, Murolo, Galdieri, Nicolardi. Viviani fa da cerniera tra il 1800 e il 1900, rappresentato da Bovio, E. A. Mario, De Filippo. Nell’ultimo capitolo, introdotti da Luigi Bonaffini, figurano i “neodialettali” Pignatelli, Serrao, Sovente, Di Natale, Bàino.

Il libro è stato presentato il 14 giugno 2005 nella sala del Carroccio in Campidoglio ed il 1° luglio nella sala del Consiglio comunale di Ischitella (FG).

 

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L’AUTORE                    

ACHILLE SERRAO, nato a Roma nel 1936, è poeta, scrittore e critico. È direttore della rivista Periferie e del Centro di documentazione della poesia dialettale «Vincenzo Scarpellino».
Ha pubblicato libri di narrativa (Sacro e profano, Scene dei guasti, Cammeo, Retropalco), di poesia in lingua (Coordinata polare, Destinato alla giostra, Lista d’attesa, L’altrove il senso), in dialetto (Mal’aria, ’O ssupierchio, ’A canniatura, Cecatèlla, Semmènta vèrde, Cantalèsia), e di saggistica (su Luzi e Caproni e Via terra. Antologia di poesia neodialettale).
Nel 2004 è stata pubblicata da Edizioni Cofine, a cura di Cosma Siani, Achille Serrao, poeta e narratore, una raccolta degli scritti critici sulle opere di Serrao con cronologia della vita e delle opere e bibliografia dei testi e della critica..

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DAL LIBRO                  

Dall’introduzione dell’autore: (…) Il nostro lavoro non ha pretese di strenua esaustività. Tanto più che si è andato componendo costretto in assegnati inderogabili limiti tipografici che hanno imposto talvolta, ma raramente, esclusioni, se non dolorose, certo indesiderate, specialmente di poeti operativi fra Sette/Ottocento e Otto/Novecento. Mancano alla chiamata antologica, per esempio (ma la loro presenza avrebbe alterato davvero o compromesso perfino il progetto di assemblaggio?): il Marchese di Caccavone, Giulio Genoino e, ancora: Diego Petriccione, Luca Postiglione, Aniello Costagliola, Pasquale Cinquegrana e Raffaele Chiurazzi. Si tratta di assenze, a ben riflettere, che comunque non avrebbero conferito alla antologia una confirmatoria di autorevolezza tale da giustificarne il rimpianto.
Per quanto concerne il cinquantennio seguito al secondo conflitto mondiale, trova adeguata collocazione nello spazio concesso la poesia di Eduardo De Filippo chiamata a svolgere  un compito, per così dire, di “mestizia”: chiudere un’epoca di fervore creativo poetico e canzonettistico, durata fino alla morte di Salvatore Di Giacomo (1934), e aprirne un’altra, epigonica, di forte regresso, in cui a dominare sono i “due vizi principali della poesia dialettale: il bozzettismo di maniera e l’elogio acritico della terra nativa (con le varie napoletanità annesse e connesse)”. Dopo De Filippo, e in qualche modo malgrado lui (perché per Eduardo poeta si sono spese espressioni elogiative non commisurate affatto alla “normatività” e normalità dell’impegno), il cinquantennio post bellico registra per lo più operazioni inautentiche, figliate dal magistero digiacomiano o da un verismo d’accatto che niente ha a che vedere con il prestigioso operare di un Russo. Buona poesia potrà rintracciarsi forse, e occasionalmente, nei testi di alcune canzoni (si vedano: “Tammurriata nera” di E. Nicolardi o, ancor più, “Munasterio ’e Santa Chiara” di Michele Galdieri) o in qualche composizione versicolare estrapolata dalla pur diligente scrittura di Pasquale Ruocco (1895-1976) e Alfredo Gargiulo (1902-1985). Non certo in quella di Maria Luisa D’Aquino (1908-1992), citata spesso come unico caso di poeta al femminile in un universo inventivo dominato da poeti uomini. E benché si possa concordare in qualche modo sulla accesa “femminilità” che intride i suoi versi, si confermano in costei i limiti di un ricalco di modi espressivi ereditati dalla grande tradizione ottocentesca.Ma una fuggevole osservazione può in ogni caso essere sollecitata da quella unicità: perché sono (tragicamente) assenti le donne dal contesto culturale di cui ci stiamo occupando e perciò da questa antologia? L’interrogativo e le sue motivazioni sono di competenza del sociologo della letteratura. In questa sede ci si può consentire solo qualche ipotesi superficiale e per niente affatto risolutiva: per esempio, che l’assenza femminile sia derivata dal ruolo della donna nella società rurale attraversata dal fenomeno poesia – non solo dialettale – ruolo assolto, nella stragrande maggioranza dei casi, in ambito familiare. E in forma esclusiva. O, ancora, che il costrittivo impiego e impegno domestico abbia prodotto distrazione  ad altri scopi (“maschili”, in prevalenza) dei mezzi economici necessari per la acculturazione della donna, con conseguente sottrazione a costei di indispensabili fonti conoscitive e supporti culturali per applicazioni letterarie o comunque artistiche. 

Per quanto riguarda gli anni correnti, nell’ultimo capitolo di questa rassegna Luigi Bonaffini introduce alcuni poeti cosiddetti “neodialettali”. Non entriamo nel merito del termine “neodialettalità”, caratterizzante un nuovo modus operandi in poesia, che il lettore pertinace potrà trovare esplicitato, come oggetto di contemporaneo non concluso dibattito, in altri lavori esegetici.2 Basterà qui cogliere e sottolineare il “salto” operativo rappresentato dalla schiera (non foltissima in area napoletana e tuttavia molto vitale) dei poeti “nuovi”. Tale schiera taglia corto con numerosissimi “luoghi comuni” della tradizione e veicola il dialetto nel senso di una europeizzazione dei linguaggi periferici, nonostante l’imperante inglese e la globalizzazione anche politico-economica in corso: inarrestabile anacronismo di cui la storia della poesia dell’ultimo trentennio si è fatta carico, rendendolo visibile, fra alcune altre che meriterebbero di certo una presenza in questa sede, nelle opere di Mariano Bàino, Michele Sovente, Tommaso Pignatelli, Achille Serrao e Salvatore Di Natale. 
(…)

Il percorso tracciato individua almeno tre linee alle quali si ascrive l’intera operatività dialettale. La prima, certamente la più frequentata, può definirsi “lirico-sentimentale”; la seconda è la linea “realistico-narrativa”, la terza, più marcatamente attinente alle recenti operazioni poetiche, è quella che con termine abbastanza generico viene definita “sperimentale”. Tutta la produzione poetica esaminata mostra i tratti dell’uno o dell’altro versante, o di due insieme combinatamente, nell’opera di uno stesso autore: si pensi a Di Giacomo, ai suoi esordi veristi e poi alla rastremazione linguistico-metafisica, di cui si fa artefice, dove tuttavia non mancano momenti realistico-narrativi; e  si pensi a Ferdinando Russo, “cronista”- realista di una vita, che non si sottrae al puro sentimento e non può fare a meno di sciogliere la durezza del dettato congeniale in una quasi evanescente elegia, in canzoni come “Scètate”; o si pensi, infine, all’opera di tanti poeti contemporanei (nell’area che ci riguarda: Mariano Bàino e Tommaso Pignatelli, per esempio) che piegano il dialetto napoletano a necessità d’esperimento linguistico senza evadere del tutto richieste di tipo lirico o realistico. 
L’indice del volume farà chiunque avvertito dello sviluppo della poesia napoletana, e delle preferite esperienze testimoniali di scrittura, nei secoli considerati. Ma lascia in ombra la storia di una disciplina che si è svolta in parallelo al verso – la canzone – e l’importanza che ha sempre rivestito, anche attraverso i propri strumenti di diffusione, per la conoscenza della poesia. Quale veicolo abbia rappresentato la canzone, in questo senso, è intuitivo. Meno intuibile è che molti testi destinati alla musica siano stati, e ancor oggi siano, “gemme” per niente affatto di minor valore, per struttura, densità e intensità espressiva, rispetto alle poesie strictu sensu.Nel Cinquecento, a comporre villanelle alla napolitana, sorta di canzoni agresti e polifoniche, è Velardiniello (a lui è attribuita la “Voccuccia de no pierzeco apreturo”, comparsa a stampa nel 1537) e tutta una schiera di musici-cantori dai nomi pittoreschi (Sbruffapappa e Junno ’o cecato, per ricordarne qualcuno). Le “villanelle” e il madrigale occupano spazio creativo per circa un secolo; a metà Seicento seguono le arie dell’opera buffa, poi le “calasciunate” settecentesche e infine le cosiddette canzoni d’autore dell’Ottocento, secolo in cui si registra un fiorire di canto senza eguali nella cultura specifica europea e probabilmente mondiale, almeno quanto a notorietà. Vi domina, come è noto, la figura di studioso e la creatività di Salvatore Di Giacomo, grazie al quale la canzone “si eleva per virtù del suo ingegno a opera originalissima di poesia” (B.Croce).Un compiuto, informatissimo libro, che delinea debitamente la storia del comporre poetico musicale, il lettore individuerà in S. Palomba, La canzone napoletana, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2003.Tutte queste le ragioni, ribadite in numerosi passi critici della presente rassegna, per cui appaiono antologizzate molte poesie per musica con lo stesso riconoscimento e con pari dignità di un testo poetico destinato alla scrittura.