Nell’organizzazione testuale de Il capogiro del compasso (Edizioni Novecento 2021, a cura di Renato Pennisi) Salvatore Orofino mette in atto un’azione drammatica convergente in un orizzonte di segni diretti a un’asciutta narrazione dei sentimenti e dei ricordi come carte buttate non su di un tavolo da gioco (malgrado il titolo della prima sezione, Poker), ma su di un letto anatomico ove l’io si presenta dissezionato e osservato a freddo, e così le emozioni, cristallizzate in una sorta di presa d’atto che mai cede al lirismo, e che in ogni composizione abbracciano il principio del disordine perfetto. Il dettato presenta un andare riflessivo apparentemente pacato, senza sobbalzi non fosse per le ripetizioni di intere strofe prelevate e inserite da un testo all’altro, e cambi repentini dei tempi verbali delle storie in questa ruota unica e annerita, cerchio che ritorna e si chiude, ed in quel limite ho addosso il tempo degli incontri, delle amicizie e degli amori presenti e perduti Dove finiscono i nostri anni, le persiane, l’adolescenza.
I nomi propri di persona o anche il generico “lei” o “quella” (ragazza che/voleva fare la commessa), rievocano occasioni lontane e recenti frattanto che si prova a raccontare in una serie di fermo-immagine dell’avvenuto distacco da tutto ciò che è stato sotto il nostro sguardo, e non lo è più, perché finito il tempo in cui ho vissuto gli occhi/ e viceversa. Inevitabilità e disincanto e senso di vuoto, di mancanza quando e se Ognuno è in un incontro già morto, scrive Orofino; strofa esemplare, chiave di lettura di una poesia “graffiante, irrequieta, mai pacificata, in un continuo ribaltare di dissonanze, tensioni interiori” (dal risvolto di copertina), sotto la patina di un controllatissimo distacco emotivo peraltro espresso in versi apodittici, come, tra gli altri, Mi faceva spavento l’emozione, /un posto dove si passa e basta. Dunque l’organo di senso della vista, lo sguardo a perdita d’occhio (che tutto e nulla abbraccia), i miei sguardi riciclati; e ancora: senza direzione, registra con desolata e spiazzante precisione il passaggio in un luogo di benda insieme al poco che rimane, e non per sempre; così il compasso gira e chiude e apre la più paradigmatica e archetipica figura geometrica (il cerchio) e volumetrica (la sfera), la prima peraltro origine di alcuni modi di dire esemplificativi la ricerca faticosa di un equilibrio da raggiungere (quadratura del cerchio), quando non denotante l’angoscia di essere/ sentirsi accerchiati, assediati e avere la consapevolezza che la locuzione “chiudere il cerchio” non è mera tranquillizzante soluzione alla solitudine dell’uomo in esso inscritto, ostaggio del tempo. Asciutta, quasi ruvida la scrittura di Salvatore Orofino è dunque un itinerario radicato nella coscienza, e nei gesti e nelle azioni, nello sguardo ove transita un dejà-vu, quanto intorno alle parole della poesia per dire del disordine svuotato, un deficit su cui soffermarsi per tentarne la lucida e in fin dei conti disperata analisi.
Nota biobibliografica
Nato a Caltagirone (Catania) nel 1958, Antonio Orofino è di professione bancario. Ha pubblicato sulla Rivista di Letteratura Via Lattea (n.7- gennaio/giugno 1991) alcune poesie inedite, poi confluite nel libro Mesi (introduzione di Loretto Rafanelli, I Quaderni del Battello Ebbro, 1994).