I poeti del Duca. Echi poetici di un’antica gloria

Un excursus sulla poesia contemporanea a Ferrara. La recensione di Alessio Casalicchio
Lodevole opera di divulgazione poetica è l’antologia I poeti del duca: Excursus sulla poesia contemporanea a Ferrara a cura di Matteo Bianchi, edita da Kolibris, patrocinata dal Comune, dalla Provincia di Ferrara e dalla Camera di Commercio col marchio di qualità «Ferrara – Terra & Acqua». Il curatore, degno figlio della città estense, si dedica con amorevole cura alle voci poetiche che negli ultimi anni hanno riempito i silenzi della città pentagona, andando oltre la logica localistica, e dando molto spazio a coloro che, non nativi di Ferrara, hanno deciso per svariati motivi di stabilirvisi e di svolgere lì la loro attività lirica. «Venticinque voci» ci dice Bianchi nella ricca prefazione «per diffondere tra la gente la poe­sia di Ferrara. Poeti di un Duca che altro non è se non l’ombra metafisica di un passato aureo, una tradizione umanista che, dai fasti dell’età estense, ha lasciato segni tangibili». Si tratta di voci sparse, ciascuna col proprio timbro, con la propria intensità, messe insieme e legate da un unico destino: fare poesia ancora, nonostante tutto, avvertendo, come aristocratici decaduti, quasi fossero degli odierni barnabotti (ma qui andiamo a finire su Venezia, grande rivale che mai riuscì a conquistare Ferrara, precisa fieramente Bianchi), il sentimento di bellezza, di alte lettere, di «felicità lontane» – per dirla col D’Annunzio di Ferrara (Città del silenzio) – che impregnarono la città dei duchi e che oggi lasciano ancora un’eco tra i vicoli, gli angiporti, gli eterni monumenti della città. I poeti che Bianchi mette abilmente assieme condividono le stesse esperienze, le stesse vite, nuotano nei marosi del postmoderno, ciascuno con il proprio stile, i propri rimedi, i propri medicamenti. Essi, nella loro solitudine, non sono soli, essi sanno di appartenere, perché «inappartenenza è impotenza», suggerisce Bianchi memore del Montale di Dicono che la mia. Le solitudini, messe assieme, non sono più tali, o almeno, non sono più solo solitudini, perché l’in-dividuo smarrisce quell’ingombrante prefisso in– e diventa con-divisibile, spartibile, si mette in relazione con gli altri, si compensa, trova una comunione d’intenti con coloro che come lui scrivono le proprie pene in versi; nel coro dei soli non esiste isolamento: l’isola diventa un arcipelago, e l’arcipelago non teme i marosi quanto la sperduta isoletta obliata dal mondo. Un esempio emblematico di questo è l’intreccio in versi messo in atto da Jean Robaey e Filippo Secchieri, che nella loro corrispondenza lirica, concretizzatasi proprio in queste pagine dopo la scomparsa dello stesso Filippo, hanno trovato la via poetica a loro più congeniale.

Il primo della lista dell’antologia è Angelo Andreotti, che di primo acchito vi appare legato a doppio filo, quasi ossessionato, alla poetica degli spettri elettromagnetici, angosciato dalla scomparsa della luce, dal buio nel quale si celano fantasmi ancestrali, presagi di morte, ma che sa riconoscere la stretta, intima, connessione che vige tra la luce e il suo contrario, in una necessità di continuo scambio: «Ma è / la luce; / viene / e sporge le labbra / soffiando aurorale sui lumi. / Dolcemente li spegne in / penombra / lasciando appena un abbozzo di luna» (II) oppure «L’ultima luce / sulla cima di un albero si appende, / ma già non è / e cade / da quel filo di orizzonte, / e cadendo è raccolta da dolcezza / mossa dall’onda scura della sera. / E l’infittirsi / dell’ombra? / E il buio?» (IV). Violento e pacato, fulmineo e reiterativo, colpisce Claudio Gamberoni, imprevedibile, alle prese con ardite battaglie contro il tempo selvaggio che fugge e ritorna quando non lo si vorrebbe, e i mostri annidati nelle stive della memoria umana: «anch’io / anch’io sono! / anch’io sono un a s s a s s i n o / quante volte / quante volte proteso nel dopo / nel domani / nel poi / ho ucciso? / ho ucciso il presente / e l’anima mia ho / mortificata» (Anch’io sono) oppure «è lei, / la memoria. / questa lupa famelica / che il presente sbrana / e in brandelli di passato riduce / quel futuro cercando / che poi in lei resta soltanto / lontano ricordo» (È lei, la memoria). C’è poi Matteo Pazzi, che non è più solo una promessa: padovano di nascita, si dimostra forse il più ferrarese di tutti per poetica e stile, buon discepolo del primo Govoni (quello del 1903-1918, per seguire Mengaldo) con le sue elencazioni crepuscolari poi tenute e portate all’estremo dal giovane De Pisis. Con i suoi versi-frase ricchi di icastiche metafore e schietti paradossi, Pazzi ci dice molto della vita di un giovane uomo nei difficili, a tratti desolanti, anni duemiladieci: «Ad un tratto ti svegli e dici: – la mia generazione leggera come un pettirosso di una tonnellata – il coito interrotto di una globalità senza occhi – questi giorni mettono in scena la scelta di chi non ha destino – la presenza poco fashion di una donna sola con tre figli piccoli da sfamare – la libertà è una proprietà sempre più ad esclusivo consumo di chi può permettersela – la mosca impigliata nella ragnatela assaggia la solidarietà del ragno – la decadenza delle spie così famose all’epoca della guerra fredda» (citata da Bianchi in prefazione) e poi, con apertura sereniana, per poi virare subito sull’inventario govoniano: «le 8 del mattino, il traffico / auto in colonna / il lavandino del bagno intasato / una multa per / divieto di sosta / il cammino di una candela bendata / questo giro-giro-tondo / il manicomio di un / tappeto muto come un pesce / la canonica telefonata muta» (Inventario). E c’è anche l’altro Pazzi, il più noto Roberto, maestro dei giovani poeti ferraresi, anche lui visitato sovente dall’angoscia esistenzialistica ci dà la dichiarazione di un’appartenenza postmoderna «Di tutte le cose che potevo fare / ho sempre scelto una sola, / monco di troppe vite non fatte / tu sei il Niente che mi ha scelto. / E ti appartengo sempre» (Il mio niente) e continua a fare i conti con la tremenda eresia dell’essere poeta, non una vocazione ma un destino, perché è il poeta che è destinato a parlare con le ombre: «Non ero nato per vivere nell’ombra, / ho dovuto subirla, / ma di quali doni ricompensa / splendere nell’oscurità!» (L’eretico). Il poeta impara ad amare l’oscurità, a trarne profitto, a rubare al buio i suoi segreti. Eleonora Rossi invece indugia su una poetica essenziale, evocativa, dal verso brachilogico ma non avaro di sentimento e di femminile ansia di libertà «puntami / di spilli / le ali / ma io / ancora / volerò / mettimi / dietro a / un vetro / e vedrai / di / me solo / quello che / vorrai tu» oppure «Respira / anima amica / lacera la veste / del pianto / sbrana le nuvole / viola / hai pugni tesi / e gambe forti / per correre / controvento» (Controvento). Poi c’è spazio, in questa antologia che si ama di più nel mentre in cui la si sfoglia, anche per Roberto Dall’Olio, sempre attento ai flussi e agli impeti della Storia, della Politica, viste dalla parte dei più deboli, dei più fragili, dei sommersi, avrebbe detto Levi: « da alcuni anni un filare di olivi / sul viale del Liceo / ricorda / gli studenti e il preside / israeliti / deportati e dispersi / nella Shoah / venticinque chiome / in memoria / dello sterminio / venticinque chiome / sferzate / dagli inverni padani / cui gelano / foglie / tronchi / rami» (Non sono tornati, Alla memoria delle vittime del Liceo “Ariosto” nella Shoah). Va dato il merito a Matteo Bianchi, giovane poeta ferrarese coraggioso e tenace, di avere consentito, con questa raccolta, una splendida panoramica della poesia estense contemporanea, buona per il lettore di oggi, ancora di più per quello di domani, con il suo essere efficace prontuario del sentimento poetico ferrarese di questi tempi bizzarri e angosciosi. 

Alessio Casalicchio