Grazia Scuderi, C’era n’isula

Recensione e scelta di poesie di Sebastiano Aglieco

A leggere questo libro di Grazia Scuderi, mi sovviene una fantasia elaborata qualche anno fa a proposito dell’Odissea: e cioè che, messi provvisoriamente in secondo piano gli episodi riguardanti la coralità degli accadimenti – i popoli, gli eserciti – il tutto infine si concentri intorno alla solitudine di un io disperso, spogliato della sua regalità sociale, destinato, modernamente, a non ritrovarsi mai più.

Così, in questo densissimo quaderno di Grazia Scuderi scritto nella parlata del catanese, i nessi del grande poema si concentrano intorno a cinque figure, punti cardinali di un gioco dell’infanzia – i quattro cantoni – in cui al centro c’è l’isola, la terra che congiunge e disperde, che costringe, per necessità destinale, al movimento incessante, alla presa e alla fuga. Tutti i personaggi, a turno, sono destinati a raggiungere il centro, ma tutti se ne allontanano, presi dal vortice delle passioni, delle partenze e dei ritorni, della vendetta e della legge, del sogno degli dei e della realtà degli uomini.

E dunque: Ulisse, la moglie Penelope, il padre Laerte, la madre Anticlea, il figlio Telemaco. A ciascuno di questi personaggi famigliari è dedicata una sezione; ma è il figlio la figura più drammatica, colui che non desidera né terra né mare, ma solo i rami contorti che disegnano un bosco oscuro dentro il quale si è smarrita la figura del padre. Lo stesso bosco di cui è fatto il letto della regina e madre: entrambi sperduti, dunque, come in una selva dantesca.

In questo racconto che traccia i risvolti di una trama paradossalmente in perdita, sempre sfilacciata – niente e Nessuno giunge alla parola FINE -, Telemaco dà senso a una “mala educazione” tracciata con la spada del padre e con lo sfilacciamento, letteralmente, da parte della madre, della trama degli affetti più intimi. L’Odissea, insomma, si configura come il poema di una perdita dei valori, un drammatico passaggio dalla terra degli eroi a quella dell’uomo defraudato, disperso, battuto da un destino al quale desidera sottrarsi con le armi di una voluntas ribelle: il vero peccato contro gli dei.

Di tutta la vicenda, Grazia Scuderi sembra dunque voler cogliere il senso privato della riflessione attraverso una parola necessariamente intima – il dialetto – spogliato, non gridato, proprio perché pronunciato nelle stanze più interne della propria psiche. Lo si coglie in particolare laddove le parole di Penelope assumono, in certi passaggi, la dolcezza della cantilena, di un verso delicatamente rimato, evocativo degli affetti più personali.

Nessuno, certo, che non sia nato nell’isola, credo possa cogliere la profonda simbiosi – ma nella sfera dell’irrazionale, non della cognizione – tra mito e cosa evocata, sfarfallamento dello sguardo costretto a vedere sempre una doppia immagine, un ricordo plurimo. Si tratta di un particolare stato d’animo che costringe a sentire il luogo come respiro, trasognata immagine dell’altro che non si capisce, non può essere spiegata.

Ecco, allora, il senso del doppio passaggio: “C’ERA N’ISULA: Suli ri mari / petri / je terra abbruciata”; e l’isola del mito nella geografia del presente: “A ‘TRIZZA’: Non su scogghi / ma lanci niuri / ca sbagghianu mira / scavanu l’accua”.

Così l’isola di Grazia Scuderi non è citazione dal mare magnum della sua vasta letteratura, ma microcontesto, persino culla – e questa volta nel presente – dell’archetipo che sempre si dà. Terra da scrivere con la lettera maiuscola come luogo dell’approdo e del ritorno, dalla quale probabilmente non ci siamo mai allontanati.

Grazia Scuderi, C’era n’isula, Edizioni Cofine. Prefazione di Anna Maria Curci. Posfazione di Vincenzo Luciani

Sebastiano Aglieco

(da https://daunospaziobiancoblog.wordpress.com/)

ULISSE

Non c’è vincita

ca ti porta unni voi.

Non poi cumminciri u ventu

a ciusciari.

No poi attaccari

pi non fallu abbulari.

N’abbasta chiuriri l’occhi

pi non vidiri.

Lassa a sorti

chiddu ca putevi fari

je chiddu c’ha fattu.

ULISSE

Non c’è vittoria / che ti porti dove vuoi. / Non puoi convincere il vento / a soffiare. / Non lo puoi legare / per non farlo volare. / Non basta chiudere gli occhi / per non vedere. / Lascia il destino / quello che potevi fare / e quello che hai fatto.

*

PENELOPE

L’amuri non pigghia paroli

ma sulu suspiri.

Jè ciuri d’mmernu

je nuvuli d’astati.

Filari,

je scusiri

‘nto stissu minutu.

Siminari linu

scantannusi re ciauli.

Girarisi ‘nto lettu

‘nta niru ri rami

ascutannu

u lignu parrari.

PENELOPE

L’amore non raccoglie parole / ma solo sospiri. / E’ fiori d’inverno / e nuvole d’estate. / Filare / e scucire / nello stesso istante. / Seminare lino / avendo paure delle gazze. / Girarsi nel letto / dentro un nido di rami / ascoltando / il legno parlare.

*

LAERTE

Non pisunu l’anni,

pisunu i robbi

chini ri pruulazzu

pi quantu hana jutu jennu.

Pisunu i paroli

quannu trasunu ‘nta aricchi.

Cu li vecchi non c’è varagnu.

Quartari ciaccati

je tempu persu.

Cuntastorii

o suli, je o fucularu.

Stuppa ne capiddi

fulinii ‘nte manu.

Ma u sangu arresta u stissu

russu aranatu.

LAERTE

Non pesano gli anni / pesano i vestiti / pieni di polvere / per quanto sono andati in giro. / Pesano le parole / quando entrano nelle orecchie. / Con i vecchi non c’è guadagno. / Anfore piene di crepe / e tempo perso. / Cantastorie / al sole, e al focolare. / Stoppa nei capelli / ragnatele nelle mani. / Ma il sangue è lo stesso / rosso melograno.

*

ANTICLEA

Taliu

sti n’zinghi

ro tempu

scavati re lacrimi.

L’occhi s’asciuganu

aspittannu.

Talilu

u mari

c’atarrubbau

je n’ascuta

u me lamentu.

N’arrispunni u ventu

quannu c’addumannu.

Scinniu

a sira

ca ti porta

‘nto sonnu.

ANTICLEA

Guardo / i segni / del tempo / scavati dalle lacrime. / Gli occhi si sono asciugati / aspettando. / Guardo / il mare / che ti ha rubato / e non ascolta / il mio lamento. / Non risponde il vento / quando gli domando. / E’ scesa / la sera / che ti porta / in sogno.

*

TELEMACO

Nascii o scuru

e jè u scuru

ca acculura a me vita.

Non cercu u mare

je mancu a terra.

Cercu i rami ‘ntucciuniati

c’addisegnunu

u voscu

comu u cori

ro patri

ca non canusciu.

TELEMACO

Sono nato al buio / ed è il buio / che colora la mia vita. / Non cerco il mare / e neanche la terra. / Cerco i rami contorti / che disegnano / il bosco / come il cuore / del padre / che non conosco.