Giuseppe Zoppelli Il cardellino accecato. La poesia reclusa nei luoghi dell’orrore e della costrizione

Recensione di Nelvia Di Monte

Sono davvero tanti gli argomenti trattati in quest’opera voluminosa perché innumerevoli sono le circostanze in cui le persone hanno dovuto ricorrere alla poesia per conservare la propria umanità, di cui Zoppeli intende rendere qui una documentata testimonianza. Si inizia da avvenimenti storici del passato (campi di sterminio, gulag, ghetti, prigioni) per giungere ad avvenimenti attuali in paesi dove la repressione colpisce duramente ogni opposizione politica. «Meditate che questo è stato»  diceva un verso di Primo Levi, ‘e ancora è’ si dovrebbe aggiungere con amarezza, senza tuttavia perdere la fiducia nella possibilità di resistere al male, come dimostrato dai molti esempi riportati.

Nella Premessa Zoppelli pone le coordinate di questa sua ricerca storico-letteraria (e antropologica) nel rapporto tra etica e letteratura quale emerge nei luoghi della costrizione, dove “l’uso e ri-uso” del testo poetico consente di “andare alla radice del fare poetico, alla sua necessità e alla sua resistenza”. E viene spiegata la metafora del titolo. Si accecavano i cardellini per affinarne il canto, se il potere invece cerca di togliere voce a poeti, giornalisti, intellettuali, oppositori richiudendoli nei luoghi dell’orrore, la poesia (letta, recitata a memoria, scritta) svolge il “suo compito etico: da una parte – in negativo – di preservare un poco di umanità […] e, dall’altra – in positivo – di educare all’umano (alla libertà e alla dignità e, una volta si sarebbe detto, alla nobiltà di spirito)”. 

I molti capitoli sono suddivisi in sei parti (più la Conclusione), in una trattazione fortemente unitaria, ma ogni capitolo ha una sua autonomia tematica e questo dà modo di scegliere un proprio ordine di lettura. In un’opera dai contenuti spesso ardui da affrontare nella loro realistica verità, vanno riconosciute all’autore delle tecniche espositive particolarmente efficaci: innanzi tutto lo stile narrativo con cui sono presentate le circostanze (di luoghi, tempi, cause) imposte alle persone coinvolte e le loro esperienze vissute, utilizzando citazioni di diari, racconti, poesie, a cui si aggiunge un ricchissimo apparato di note che offrono ulteriori notizie ed elementi di approfondimento. Sono costanti i riferimenti a opere di importanti critici letterari, filosofi, storici e studiosi in vari ambiti per indagare da più prospettive sia tematiche inerenti la poesia, sia le drammatiche vicende affrontate da individui vittime di oppressioni e dittature. In questo modo un’opera saggistica rende il suo fine teorico non una mera astrazione, ma il filo conduttore di un’appassionata – ed emotivamente coinvolgente – ricerca su cosa significhi ‘umanità’ e sul compito più importante della parola poetica, la necessità di integrare  il ‘vero storico’ con il ‘vero poetico’ perché (afferma Ruth Kluger) «Chi vuole comprendere i sentimenti e i pensieri degli altri, ha bisogno di interpretazioni dell’accadere. L’accadere da solo non basta». 

La vastità di autori e citazioni riportate (mai in modo accademico e sempre coerenti con la finalità divulgativa dell’opera) è frutto di un lavoro di studio e ricerca durato anni, in grado di presentare una encomiabile quantità e qualità di testi, dai decenni più cupi del ’900 fino ai nostri giorni:  accanto ad autori famosi, con la stessa attenzione e cura sono presentate vicende di persone comuni, perché quanto hanno lasciato con le loro parole aiuta a creare un senso di umana fiducia che contrasta il pessimismo diffuso dalla onnipresente e dilagante ‘banalità del male’. Lungo ogni capitolo Zoppelli fa emergere una domanda sulle modalità del restare umani, e una possibile risposta giunge da parte dei tanti che a questo principio cercarono restare fedeli nonostante tutto. 

Nei capitoli della Parte prima, confutando l’interdetto di Adorno (che non si possa scrivere poesia dopo Auschwitz), sono riportate molte argomentazioni per sottolineare che la poesia è un “atto di resistenza alla barbarie e alla disumanizzazione di ieri e di oggi perché, sia chiaro, la realtà – la nostra realtà – ci parla ogni giorno di Auschwitz”. Perciò, accanto ad autori del passato (Levi, Celan, Mandel’stam, Grossman, Milosz…), troviamo poeti e artisti contemporanei, come lo scrittore bosniaco Izet Sarajlić che, testimone dell’assedio di Sarajevo, si chiede e si risponde: «Chi ha fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo? (…) “Noi”, i poeti».  

Le parole sepolte è il titolo di un capitolo dedicato a tutti quei documenti scritti che furono letteralmente sepolti (in bottiglie, cassette, oggetti di fortuna) affinché conservassero memoria “ultimo ricettacolo, estremo rifugio” di umane esistenze prima che scomparissero nei vari genocidi accaduti nel mondo, compresi quelli attuali in Siria come in Kurdistan. Nel capitolo Dante nei lager si ribadisce che l’arte non è salvifica in sé, è una possibilità che salva e umanizza solo a determinate condizioni, “invadendo e contaminando in primis i territori dell’etica, della morale e della coscienza”, altrimenti non si comprende come persone di raffinata cultura abbiano potuto commettere tali nefandezze. 

I capitoli della Parte seconda vertono sulle esperienze dei gulag, non per fornire informazioni su un argomento già noto, ma – affermava Primo Levi nella Prefazione a Se questo è un uomo  «per uno studio pacato dell’animo umano» che dia spazio a quegli esempi di «bontà illogica» di cui parla anche Grossman in Vita e destino; o affronti la peculiarità della letteratura femminile carceraria, il carattere più intimo legato a temi quali la maternità, la sessualità, la violenza e la solidarietà, quest’ultima presente in tutte le memorie, forse l’elemento che consentì una maggiore resistenza e sopravvivenza delle donne in cattività. Si affrontano anche argomenti apparentemente insoliti ma che nei luoghi di reclusione (dove quasi sempre è impedita la scrittura) acquistano un valore particolare, come l’importanza del ritmo della poesia, recitata a memoria spesso in silenzio, che permette di non soccombere alla follia conservando una forma di libertà interiore, di utopica possibilità “perché inscena e disloca in un luogo altro” e, se la poesia è di un autore amato, consente una forma di dialogo con chi è altrove. 

La Parte terza affronta da diverse angolature il tema dell’assedio, a partire dalla “Blokada” di Leningrado dove si evidenziano i modi in cui è stata usata la poesia dal potere e come invece sia stata intesa da chi la ascoltava via radio, o la scriveva, per recuperare uno spazio di resistenza mentale o per contribuire ad una memoria collettiva in grado di sopravvivere ai suoi autori. Del ben più recente e più lungo assedio di Sarajevo è testimone, tra gli altri, il poeta Izet Sarajlić, che in un testo ricorda un amico passato nello schieramento avverso, senza astio perché è compito della poesia saper conservare le ragioni umane oltre le divisioni politiche. Di tanti altri assedi attuali si parla, e non solo militari dal momento che, in regimi dittatoriali e con una forte censura, creare in clandestinità spazi di libertà culturale significa sentirsi accerchiati e in costante pericolo, situazione ben sintetizzata dal titolo del capitolo: Una prigione senza mura sorveglia la mia anima.  

Spazi di reclusione e oppressione sono (stati) i manicomi (tema della Parte quarta) dove rinchiudere i diversi, e non sono rari gli esempi di come l’espressione artistica (la poesia, la pittura, la musica) abbia consentito ad alcuni di non venire sommersi: accanto a casi noti (Alda Merini, il poeta dialettale Federico Tavan, la famosa Janet Frame), meno conosciuto è il progetto eugenetico attuato in Svizzera (dal 1926 al 1973) di togliere i figli delle famiglie jenisch (zingari bianchi) per inserirli in orfanotrofi o, più raramente, in altre famiglie. Maltrattati e disadattati, finivano spesso in manicomi, come accadde a Mariella Mehr, che molto scriverà su questa terribile esperienza. Inevitabile per Zoppelli interrogarsi sul rapporto tra psichiatria e testo poetico, e sul potere terapeutico della parola letteraria “di resistere alla soverchiante forza della malattia”. 

La lettura della Parte quinta, riservata alla poesia scritta in carcere, provoca a volte un senso di sgomento perché diversi autori qui presentati, considerati oppositori politici, hanno subito anni di vessatorie reclusioni non nella prima metà del secolo breve, ma in periodi ben più recenti e attuali. Non solo perseguitati da regimi dittatoriali, ma pure in stati dalla consolidata democrazia quali il Regno Unito (nei confronti degli oppositori irlandesi come Bobby Sands) o l’Australia, che deporta gli immigrati clandestini nell’isola sperduta di Manus Island nella Papua Nuova Guinea da cui, dopo sei anni di detenzione, nel 2019 è stato liberato il curdo iraniano Behrouz Boochani che in modi rocamboleschi era riuscito a far conoscere all’estero quanto andava scrivendo di nascosto nel centro di detenzione. Alla sua esperienza è dedicata la sesta parte (Il prigioniero dell’isola: uno zelo per la resistenza), un esempio fra i tanti, troppi, a dimostrazione che la “poesia reclusa” non è un capitolo del passato.

La Conclusione, che riprende il tema dominante (la poesia rende umani?), in realtà non conclude il discorso, lo inserisce invece in un più articolato contesto teorico analizzando le diverse prospettive letterarie e filosofiche offerte da concetti quali soggettività, postumanesimo, pensiero debole, senza inutili illusioni (la poesia non salva il mondo) ma anche senza perdere di vista quella speranza che ha permeato ogni pagina: “coltivare ed educare le emozioni e la vita interiore, anche con la poesia anche con la letteratura, è uno dei compiti ineludibili e imprescindibili di una società democratica e aperta che si voglia fondata […] su individui consapevoli, critici, capaci di provare empatia, identificazione, compassione, simpatia e pietas, attenti a sé stessi e all’altro, e partecipi della vita civile”. 

Termina così un libro diverso, importante e necessario non solo a livello letterario. Un’opera che non può essere letta una volta e poi accantonata, ma andrebbe consultata di tanto in tanto, aperta anche a caso, per riflettere su quanto siano sempre in bilico i diritti delle persone se non adeguatamente difesi. E per interrogarsi sul senso vero, profondo, inalienabile della parola poetica, quella capace di salvaguardare – nelle condizioni più avverse – quanto di umanità ogni esistenza sa custodire, per sé, per gli altri, per il futuro.

Nelvia Di Monte

  

Giuseppe Zoppelli, Il cardellino accecato. La poesia reclusa nei luoghi dell’orrore e della costrizione (puntoacapo Editrice, Pasturana, AL 2022, pp. 470, euro 25)

VIDEO

Alessandro Carrera dialoga con Giuseppe Zoppelli sul suo ultimo lavoro “Il cardellino accecato. La poesia reclusa nei luoghi dell’orrore e della costrizione”

https://www.youtube.com/live/uOJ8wb4KzQs?feature=share