G. G. Belli in versione inglese, o del tradurre il dialetto

Le traduzioni in inglese nell’esame di Cosma Siani

 

Del Belli in traduzione inglese, francese, tedesca, russa e spagnola si sono occupati due volumi, uno fresco di stampa e uno antico, ambedue promossi dal Centro Studi G.G. Belli di Roma. Il primo, Belli da Roma all’Europa. I sonetti romaneschi nelle traduzioni del terzo millennio, a cura di Franco Onorati, Intr. Antonio Prete (Roma, Aracne, 2010) estende la preziosa ricerca avviata anni fa con Belli oltre frontiera. La fortuna di G.G.Belli nei saggi e nelle versioni di autori stranieri (Roma, Bonacci, 1983).
 
Il settore più prolifico di traduzioni e trattazioni del poeta romano è quello anglosassone, Ed è sorprendente che qui l’interesse per la poesia del Belli si manifesti prestissimo. Appena quattro anni dopo l’edizione dei Duecento sonetti dialettali curata da Luigi Morandi (1870), infatti, già si parla di questa primissima raccolta del poeta romano sulla Fortnightly Review di Londra per mano di Hans Sotheby. Ed è l’inizio di un interesse non più sopito ma in crescita, soprattutto nel corso del secondo Novecento.
 
Ma le traduzioni del Belli ci mettono di fronte alla questione del come rendere la poesia dialettale in un’altra lingua. Fra i non pochi traduttori inglesi, c’è chi ritiene che si debba adottare una colorazione, un registro, o addirittura un dialetto particolare per restituire il divario esistente nell’originale fra la lingua del testo e la lingua standard.
 
Nella prefazione a The Roman Sonnets of Giuseppe Gioachino Belli, quarantasei sonetti tradotti da Harold Norse e pubblicati nel 1960, William Carlos Williams paragona l’americano dalle forti inflessioni colloquiali del traduttore allo “schietto romanesco” (e naturalmente gli va lasciata la responsabilità di questa sua asserzione). Anthony Burgess, che tradusse settantadue sonetti belliani inserendoli nel suo romanzo ABBA ABBA (1977), disse di aver usato un “English with a Manchester accent”.
 
Un traduttore fra i maggiori, Robert Garioch, usò non l’inglese ma lo scozzese delle Lowlands – lo Scots o lallans – basandosi sulla sua parlata di Edimburgo. Ed è tale il prestigio della sua opera in area britannica che il traduttore belliano più recente, Mike Stocks (Sonnets, Translated by Mike Stocks, London, Oneworld Classics, 2007), in appendice alle proprie traduzioni inserisce una scelta di dodici sonetti nella versione di Garioch. Dice inoltre che l’aver usato lo Scots per Garioch è un vantaggio; e lo dice perché è convinto che “rispetto all’italiano e all’inglese standard, il romanesco e lo scozzese rispettivamente hanno lo stesso sapore vernacolare e lo stesso tono esuberante”, cioè crede che la distanza (o vicinanza) che il parlante italiano d’oggi avverte fra la propria lingua media e il romanesco del Belli sia la stessa avvertita dal parlante britannico rispetto allo Scots. E anche qui gli va lasciata la responsabilità delle proprie affermazioni, perché se il parlante italiano d’oggi, qualunque ne sia la zona d’origine, può in qualche modo affrontare la lettura dei sonetti belliani, il lettore britannico attuale (non diciamo l’anglofono di altre parti del mondo) troverà probabilmente molto più ostico accedere alla grafia e al lessico dello scozzese.
 
Un altro traduttore inglese recente, ma non ancora edito in volume, l’inglese Michael Sullivan – ha al suo attivo la versione di trecento sonetti e più, di cui solo qualche decina pubblicati – dice, esprimendosi nel suo fluente italiano facilitato da numerosi soggiorni in Italia e a Roma: “Le versioni sono intese per essere recitate in ‘a diffuse urban vernacular’, volendo dire che, mentre la maggior parte richiedono ‘cockney’, i sonetti più violenti, per esempio, risentono dell’accento di Glasgow o Belfast, e quelli per i quali il cattolicesimo è imprescindibile, quello di Dublino”. Ma ciò è anche al servizio del suo modo di “naturalizzare” i sonetti travasando nella loro cornice contenuti dell’Inghilterra d’oggi: “…una carrozza può diventare una macchina, un papa ignorante di archeologia può diventare il principe Carlo, un bullo romano un duro di Glasgow, una puttana credente una dublinese”. In tal modo, dice ancora, il registro linguistico è dettato “dal contenuto del sonetto stesso e non dalla falsa equivalenza romanesco = cockney”.
 
Allo stesso tempo c’è stato fra i traduttori chi ha escluso il ricorso a un registro dialettale o fortemente locale, e fra questi non solo i traduttori in corrente prosa (dal primo conosciuto, appunto l’inglese Hans Sotheby, che pubblicò le sue traduzioni nel 1870 all’interno di un articolo sulla poesia del Belli, all’americana Eleanor Clark, 1881, all’australiano Desmond O’Grady, 1977-78, e a Hermann W. Haller, 1984), per i quali sembrerebbe più naturale usare una lingua standard. Ma anche quelli che hanno usato la metrica (l’inglese Frances Eleanor Trollope, 1881, Joseph Tusiani, 1974, Allen Andrews, che pubblicò le sue versioni a Roma nel 1984, e il giornalista Ronald Strom, le cui traduzioni uscirono pure in Italia nel 1994).
 
E c’è chi ha dichiaratamente rifiutato l’uso dialettale: l’americano Miller Williams, 1981, e un recente traduttore, Charles Martin, che ha pubblicando dei suoi specimen di traduzione belliana sul Journal of Italian Translation (New York, Brooklyn College, autunno 2006), fa professione di poetica in modo polemico rispetto a chi lo ha preceduto: “Mi rifiuto di sentirmi in colpa se non parlo, diciamo, il lallans o lo scozzese, nei quali qualcuno ritiene Belli possa essere meglio tradotto che in inglese. Ho cercato di rendere i sonetti del Belli nella varietà di inglese dialettale che io parlo, e in quelle sottovarietà dialettali che mi suonano in qualche modo familiari”.
 
Roma, 29 ottobre 2010