Franco Pinto: il personaggio e il poeta

di Anna Elisa De Gregorio

Ho ascoltato per la prima volta Franco Pinto a Ischitella, mentre leggeva le sue poesie, nell’estate del 2009, ospite della rassegna “Garganoletteratura”, la settimana di manifestazioni gravitanti intorno ai premi nazionali di poesia dialettale “Ischitella-Pietro Giannone” e di narrativa “Città di Vico del Gargano-Sezione romanzi brevi”.

Appariva quasi timido fra colleghi più noti e divulgati, ma non più di lui poeti. Subito struggimento e senso di perdita, mescolati all’incanto verso la natura, in quella voce schiva ed emozionata sotto i riflettori, mi sono sembrati familiari come se già sapessi di lui e della sua scrittura.

Ho intuito in questo falegname che scrive nel dialetto garganico di Manfredonia una rara sostanza poetica, incontaminata, quasi primordiale, una predisposizione al silenzio e alla meditazione, a un dialogo continuo con la vita e la morte. Facile, forse scontato, l’accostamento alla figura biblica del falegname Giuseppe che accetta il suo destino senza voler tutto comprendere; quante volte Franco dice nella sua poesia: Nen ’nzacce (Non so) L’ucchje ne ’nganosce (L’occhio non conosce), Nulla posso…

Franco Pinto scrive nel dialetto garganico di Manfredonia perché abita a Manfredonia, è nato lì (nel 1943) come suo padre, pescatore, come i suoi più vecchi padri; quel dialetto è la sua madrelingua, e la scrittura che ne scaturisce è scrittura “intera”, non “schizofrenica”, scrittura di corpo e anima.

Pinto non si è nutrito del come eravamo e del come non siamo più, ma di un mondo magico, visionario, pieno di simboli, di solitudini e di moltitudini che frequentano la sua fantasia, ombre che neanche lui riesce a definire, dalle quali piuttosto si lascia guidare come il saggio che non combatte, ma si fa spettatore elementare: Se sunne ji stéte/ji stéte nu sunne/belle/s’angôre vôte/u mónne/cûme nu uagnungille (Se sogno è stato/ è stato un sogno/ bello/ se ancora vedo il mondo/ come un bambino), dal volume del 2004 Méije cûme e mo’ (Mai come adesso).

Nel suo primo libro U chiamatore (Il chiamatore), del 1983, dedicato al padre, il mare (topos ricorrente e percussivo nell’opera di Pinto) prende sembianze di esseri mitici buoni o spaventosi confusi a voci d’infanzia, e il verso a volte ansimante, accompagna il movimento perenne delle onde (A matizze, Il temporale, Mèzzanotte ’nganna mére, Mezzanotte in riva al mare): Il titolo (molto evocativo) di questa raccolta fa riferimento all’antico mestiere del pescatore capobranco, che dà l’ordine di partenza ai compagni a seconda delle condizioni del mare; ed è come se da lì fosse nato il compito del nostro Franco di fare il chiamatore della poesia. Ancora una volta s’impone l’accostamento alla figura biblica di Pietro pescatore e chiamatore di anime.

Il componimento che incastonerei a simbolo del volume è “U Giaiande” (Il gigante), dove l’amore-ossessione per il mare di Pinto si chiarisce attraverso una immagine di grande poesia e solitudine: Nu pagghjére/sôpe a na mundagne/e llà ’spetté/c’a tèrre gnotte u sôle/…../che sarrje! se putèsse purté pe mè/pûre lu mére.(“Un pagliaio/su di una montagna/e là aspettare che la terra ingoi il sole:/…./che sogno! / se potessi portare lassù/con me il mare”).

La parola del dialetto ha bisogno di voce e di rappresentazione per completarsi, e non a caso Franco Pinto ha una passione per il teatro e, attraverso il teatro, parla spesso con i bambini, suoi com-pari.

A pupe (La bambola), dedicato alla madre (mescolanza di racconti, dialoghi, versi, in stupefacente libertà), con una trama da “sceneggiata”, per magia diventa fra le mani di Pinto rappresentazione di una storia antica, che riverbera atmosfere vicine a Lo cunto de li cunti.

Nel volume Nu corje Dôje memorie (Una pelle due memorie) abbiamo la sorpresa di un tu, di un interlocutore donna, in continua metamorfosi, inafferrabile: la donna è poesia, dolore, abbandono, mare, vita e, soprattutto eros e morte. Alcune sono poesie brevi, schegge di bellezza. “U vinde”così recita: Sinde sinde ?!/Fé carte u vinde./Parle de tè./Ma tô ne nzì ’cchessì (“Senti un po?!/Fa carte il vento./Parla di te./Ma tu non sei così”). L’altra, folgorante nella sua luce poetica, “Sûle”: “Da mò de nanze/ninde chiô pîse/e velanze pa chése/ninde chiô sande/appîse a li mûre/ninde chiô fite/de citte e citte/ninde de ninde/je e tè sûle/a lo scûre/cûme na volte.” (“Da adesso in poi/niente più pesi/e bilance per casa/niente più santi/appesi ai muri/niente più odore/di belletto/niente di niente/io e te soli/al buio/come una volta”). In questo volume davvero preziosa e puntuale è la prefazione di Cosma Siani, necessaria alla comprensione del nostro complesso uomo-poesia: a volte si ha l’impressione che sia egli stesso donna, vento, mare in uno svolare di cento anime l’una nell’altra. Immedesimazione e annullamento sublime.

Nella poesia tratta dalla raccolta Mèje cûme e mo’ (Mai come adesso) dal titolo “Duluréte”, Pinto, con la competenza di una sarta di mestiere, sciorina parole come nghjûme, drôte ponde e sopraggitte (dietro punti e sopraggitti) con divertita pignoleria. Scelgo un’ altra poesia ironica tratta dallo stesso volume: “Ajire sunnéve” con questo incipit “Ajire sunnéve, pe la misèrje” (ieri sognavo per la miseria) e con questo verso finale: “Sunnéve ajire pe la misérje” (sognavo ieri per la miseria); il componimento è in ottave con andamento da filastrocca e un finale a chiasmo. La sua maestria è notevole proprio perché passa inosservata tanto è strettamente legata al testo e al contesto.

Vrà vigghje e sunne (Tra veglia e sonno) è l’ultimo libro fino ad oggi pubblicato. In questo volume, dedicato al fratello “grusse”, qualcosa cambia: quel modo così personale di andare a ruota libera per strade di immagini e di suoni raggiunge vertici sempre più alti fino a un non sense tragico e limpido. Scelgo la breve “Ma tô ce pinze?”:Chi fuse/grusse/ji stéte stìpé/quidd’ucchje schétte/mizze u facciulètte/du vestîte blô…/ma tô ce pinze tô (Che errore / grande / è stato conservare / quegli occhi schietti / in mezzo al fazzoletto / del vestito blu… / ma tu ci pensi?). Nelle sue liriche abbiamo assonanze e rime sempre più necessarie al senso che è contemporaneamente ritmo. Alcuni versi sono cortissimi, quasi un battito di piede. Appare un’ironia amara, a volte durissima insieme ad un’ironia più lieve e fanciullesca in una mescolanza sorprendente. L’incipit di “No spisse”: No spisse/fisse/ce nàzzeche nvônne u mére/na navicule/fatte de corve spére/de trabbacule/d’erva ricce/u paliaricce ((Non spesso / fisso / si ninna sul fondo il mare / una culla / fatta di costole spaiate / di trabaccolo / d’alga riccia ) ci rasserena, quasi ci fa sorridere; poi il tono cambia, si susseguono immagini di morte: criatûre murte nd’i fasse/passe/ruffanille de vamméce/sènza péce (neonati morti in fasce / passi / orfanelli di bambage / senza pace ). Andamento ossimorico: giochi tragici, piccole lapidi di parole lievi. Delirio lirico, preghiera reiterata e accorata è l’ultima poesia rivolta a una entità imprecisata: “Pe n’ata volte, l’ótîme” dove il poeta chiede aiuto, richiama vento, pioggia, barca, Bellezza, Poesia e morte fino a un ribaltamento dove la poesia può essere vita e morte in un amore uno e trino (come spiegato nella premessa), in una più alta unità spirituale e fisica. Franco Pinto vede le cose da una prospettiva lontana, come lui stesso confessa, si assopisce, temporeggia, lascia che le cose accadano, rifiutando l’effimero momento di gloria, l’effimero richiamo mondano.

Finisco con i versi iniziali della premessa a quest’ultimo volume (pubblicato da Cofine editore di Roma, e curato, come tutti gli altri di Pinto, da Mariantonietta Di Sabato), versi che hanno l’andamento e la leggerezza di un haiku e suonano come un augurio per un prossimo “fare poetico”: Sembe cchiù chiére/ce fé u sune da cambéne/ e je tènghe angôre/tanda côse pi méne (Sempre più chiaro/si fa il suono della campana/ e io ho ancora/ tante cose per le mani).