Franco Loi: l’invenzione della lingua tra fedeltà ed eresia

Giancarlo Consonni

 

La poesia prorompente e fluviale del primo Loi è un aprirsi di cateratte dopo un lungo accumulo. Quarant’anni di esperienze di vita e di scuola di lingua: una vita immersa nel mondo popolare e una scuola fortemente connotata dalla polifonia, soprattutto da quando, a sette anni, da Genova la famiglia approda a Milano. Qui il colornese della madre e il genovese del padre sono subito a confronto con il milanese, a sua volta rimescolato con le parlate di molte regioni italiane, venete e meridionali – ma non solo –, di cui a Milano, prima e dopo la guerra e ancor più con il boom economico, sono portatrici le copiose ondate di immigrati. In questa polifonia entra, naturalmente, l’italiano: la scuola, le opere liriche cantate dal padre melomane e subito i grandi poeti, su tutti Dante (recitato in casa sempre dal padre) e Leopardi. E, a seguire – in un crescendo di letture coltivate da autodidatta vorace e irrequieto – i grandi narratori, a cominciare dai russi, Dostoevskij in testa, e ancora filosofi e scrittori politici.

In questo contesto, familiare e sociale, le lingue si intrecciano in ascolti e contaminazioni reciproci. Le vicinanze, le distanze, le filiazioni, le sintonie, i contrasti, le irriducibili sonorità: sono tutti riscontri che vengono da sé, tanto più per un orecchio musicale come quello di Franco Loi, portato a riconoscere le peculiarità di ogni voce e a praticare la mimesi, non come imitazione ma come sfida a misurarsi con i modi sorgivi e la forza creativa delle lingue orali.

Procedendo per accumulo e prese di coscienza progressive, l’apprendistato evolve in laboratorio linguistico senza che vi sia un intento programmatico. A fare da duca è il fascino di una lingua orale, il milanese, che i parlanti – gli autoctoni, per un verso, e gli inurbati, per altro verso – erano usi plasmare con libertà e inventiva. Il poeta in formazione è conquistato dallo spettacolo dell’estrosità e dall’ingenerarsi di una condizione teatrale diffusa: due fatti che ancora sostanziavano la convivialità quotidiana in una Milano spietata ma tutto sommato porosa, anche perché interessata all’afflusso massiccio di energie per le sue industrie e i suoi uffici (e, solo a ciclo espansivo concluso, a selezionarle). 

Allo stesso tempo, l’adolescenza, la giovinezza e la prima maturità di Loi ricevono l’imprinting di una paideia incardinata sull’antiretorica. E questo grazie al coesistere, in quel che sopravvive dell’humus comunitario, di bonomia e rigore: un binomio continuamente rinnovato nel ricorso usuale a stoccate (mai malefiche) intese a sanzionare ogni esporsi narcisistico e a riportare comportamenti ed espressioni nell’alveo di una ragionevolezza a un tempo sapiente e sorniona. 

Per tornare all’apertura delle cateratte, non meno decisive sono le esperienze teatrali in luoghi deputati: la frequentazione, a metà anni Sessanta, del Piccolo Teatro (con Giancarlo Puecher) e, nel 1968-69, di Nuova Scena, il collettivo teatrale che ha in Dario Fo la figura di spicco. Vicenda quest’ultima significativa anche nella rottura e nella sua ragione prima: l’insofferenza di Loi verso il formarsi di un’autorità – fatto consueto nei gruppi teatrali sperimentali –, quando invece, lo si coglie da subito nella sua poesia, a muovere il suo modo di essere al mondo e il suo prendere parola è proprio l’insubordinazione e la rivolta contro ogni idea di comando. Così, mentre Dario Fo si muove in direzione del gramelot, il cui sbocco più alto è Mistero buffo, Loi va per la sua strada entrando nel farsi intimo e corale della lingua di un popolo fino a diventare deus ex machina e affabulatore di un’officina in cui lingua e poesia, danno, più che mai, l’impressione di nascere insieme.

Diversamente dal teatrante, in questa officina il poeta è solo, ma – potenza di questa come di altra poesia a forte valenza teatrale – riesce a far percepire al lettore la presenza di un pubblico, o meglio, di un coro silente che assume anche il ruolo di garante della valenza collettiva di quanto il poeta va inscenando. È in questo teatro, ideale e pur tangibile, che si fa avanti il poetare originalissimo di Franco Loi che, mentre fa propria l’inclinazione popolare a plasmare la lingua, porta il dialetto su terreni inesplorati. La parola ereditata dai parlanti coevi (e dalla storia) da plastica si fa incandescente assumendo un carattere non solo sorgivo (come è proprio della grande poesia) ma forgiato all’impronta: su misura di quanto viene messo in scena (con il mezzo linguistico che è parte sostanziale della rappresentazione). Si assiste così al paradosso di una lingua personalissima (almeno nella sua forma esteriore) e allo stesso tempo fedele allo spirito popolare. 

Trovata la chiave, possono aprirsi le paratie (non senza un’ultima spallata: la scoperta della poesia di Giuseppe Gioachino Belli). Ed ecco il fluire potente di una voce poetica in cui fedeltà ed eresia si tengono per mano. 

In una lingua che scardina i confini tra dialetto e lingua sapendo però stare in sorprendente equilibrio, può prendere corpo quanto urge: un intreccio fitto di disagio e ribellione, di tormento e incanto. In un succedersi funambolico di cambiamenti di registro, di sorprese concatenate, di invettive e di aperture liriche irrompe nel panorama italiano un poetare quanto mai singolare e insieme capace di evitare la trappola dell’io per farsi interprete di un’idea di convivenza civile e soprattutto di una sua speranza. Che, a ben vedere, coincide con l’utopia del rinnovarsi dello spirito popolare.

La poesia di Franco Loi – con forza particolare nelle prime opere – conquista così un posto di eccezione nel quadro della poesia italiana del Novecento: quello di far vivere i fermenti sociali e le attese di una città. Ad andare in scena è la Milano uscita dal secondo conflitto mondiale, dove un ethos circolante nel corpo sociale popolare – di cui avevano dato conto Carlo Porta e Stendhal e, sotto le bombe del 1944, Alberto Savinio – ancora nel dopoguerra si rinnovava, non arroccandosi, ma, al contrario, grazie alla capacità di interagire con le culture popolari impersonate dagli immigrati. A Torino, per fare un esempio, una poesia come quella di Franco Loi non sarebbe potuta fiorire.

Senza che l’autore di Stròlegh (1975) e di Teater (1978) possa anche solo intuirlo, egli inizia a scrivere poesia proprio quando il vento della storia si avvia a dar vita a un ciclone che, dagli anni Settanta a metà degli anni Novanta, spazzerà via molto del mondo a cui i suoi due poemetti sono ancorati e di cui sono espressione.

Allo stesso tempo, il lettore/spettatore ha l’impressione che il mondo rappresentato in Stròlegh e Teater sia coevo al farsi del testo: un’illusione ottica che è frutto della potenza della rappresentazione; quando invece, a ben vedere, ciò che va in scena è in larga parte tramontato o al tramonto. Un simile accorciamento della prospettiva storica non caratterizza solo la poesia del primo Loi: la si ritrova in diversa poesia neo-dialettale della seconda metà del novecento in Italia, in cui lingue morenti mettono in scena, come fossero in pieno fulgore, vicende e contesti di due o tre decenni prima – gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza degli autori –: mondi che sono stati travolti dal traumatico cambiamento sociale. Se il boom economico 1955-1963 aveva bruciato non poco del mondo contadino, gli anni in cui Stròlegh e Teater vedono la luce sono l’inizio di una fase in cui si consuma un ulteriore mutamento epocale: quello che, in Occidente, vedrà, in meno di un ventennio, la conclusione della vicenda della città industriale. E, contestualmente, se non la scomparsa, la dispersione e il ridimensionamento politico di una componente sociale – la classe operaia – che, in un lungo, travagliato percorso, aveva faticosamente conquistato visibilità e potere contrattuale. Dal punto di osservazione della metà degli anni Settanta nessuno era in grado di prevedere un simile cambiamento e ancor meno di coglierne la portata. E se Loi non fa eccezione, resta tuttavia il fatto che i suoi due poemetti di quegli anni, oltre che opera mirabile di poesia, per la trepidazione che li percorre sembrano per un verso l’eco e per l’altro verso il presagio di una cesura nella storia dell’Italia: la fase che vede il mescolarsi come non mai di speranze e di lutti: anni di significative conquiste civili (statuto dei lavoratori, divorzio, aborto, sistema sanitario nazionale, inizio dello smantellamento dei manicomi) e di immani tragedie, dalle stragi fasciste agli omicidi delle Brigate rosse culminati con il delitto Moro.

Il contributo di Loi si inscrive dunque a pieno titolo nel filone nella grande poesia dialettale italiana di Carlo Porta, Gioachino Belli e Delio Tessa, in cui il tempo storico è restituito in efficaci quadri di vita. Ma le sue opere, con maggiore evidenza quelle qui raccolte, presentano una peculiarità per quanto riguarda l’uso del dialetto. Mentre le lingue di Porta, Belli e Tessa erano immediatamente comprensibili ai loro contemporanei, Loi forza il recinto della comprensibilità affidandosi al gesto attorale invece che all’adesione a un lessico e a costrutti sintattici collaudati. Ne nasce una dirompenza inaudita (nel senso letterale del termine) che risponde a una precisa intenzione: (ri)dare alla parola della poesia la forza che anima e sostiene l’eloquio popolare. Così il Loi di Stròlegh e Teater passa di frequente rasente all’incomprensibilità per una duplice ragione: perché vuole ritrovare l’incandescenza del dire e perché vuole sfidare la parola consolidata per portarla a misurarsi su terreni che le sfuggono per via del suo essere sperimentata e codificata, quando non depotenziata dall’uso veicolare.

In questo osare, come negli esercizi più pericolosi del circo, il poeta si dà una rete di sicurezza: la traduzione in italiano. Che qui più che mai è complemento necessario del testo princeps. Per due ragioni: per una migliore comprensibilità del gesto attorale su cui si regge il poetare e per offrire al lettore/spettatore un metro di misura della trasgressione che in quel gesto si consuma.

Ed eccoci arrivati al punto. Il dialetto come lingua delle cose è a suo modo potente ma ha limiti e regole che Loi ben conosce. Allo stesso tempo, l’autore di Stròlegh e Teater ha fatto larga esperienza dell’inquietudine circolante soprattutto tra quei dialettofoni (tutt’altro che rari nella Milano del dopoguerra) smaniosi di misurarsi in argomentazioni che richiedono l’impiego di concetti astratti quando non l’esercizio di un pensiero con valenze teoretiche: tutte cose che la lingua orale del popolo è inadeguata a sostenere. Qui sta un’insidia che i poeti in dialetto ben conoscono e che Loi evita a modo suo: facendo di quella inquietudine – e dello stesso spaesamento del dialetto – materia di poesia. Così a contraddistinguere la sua lingua poetica c’è la rottura, ad ogni piè sospinto, degli argini del dialetto per approdare a una lingua franca dove concreto e astratto, forza delle cose ed esercizio del pensiero si tengono per mano, o meglio si scavalcano in continuazione. Un procedere giocoso e tragico, a colpi di machete, nella selva oscura delle parole così da aprire nuovi varchi e incontrare spiragli di luce: quel baluginare della verità che il poeta va disperatamente cercando. 

Questo farsi strada della poesia nel folto oscuro del linguaggio è tutt’uno con la sfida ad affrontare il buio che il poeta avverte dentro di sé. Ne nasce una straordinaria voce poetante in cui persone, situazioni, vicende e mondi prendono corpo con rara efficacia.

In questo teatro dalle forti pennellate espressionistiche – e che non poco attinge all’immaginario di una pittura che si muove sul confine tra concreto e astratto – è il poeta stesso a farsi personaggio tra i personaggi. Sembra di intravedere qua e là il profilo di una figura dostoevskijana, in questo caso combattuta fra inclinazioni religiose che evocano il movimento dei patarini e aspirazioni anarco-rivoluzionarie (percorse peraltro da non pochi accenti impolitici). Un personaggio che vive la Storia, recente e passata, come un tradimento dell’amore: «l’amur di gent de paja, i desperâ, di cioll che varda el sû e, ne la sera,/ preghen ‘na stella s’je vö scaldà. l’amore delle genti di paglia, i disperati/ degli ingenui sciocchi che guardano il sole e, nella sera,/ pregano una stella se li vuole scaldare.» (Stròlegh, XXXVI, 19-21). 

Ecco allora Franco Loi, creatore e personaggio del suo teatro, oscillare tra una capacità rara di mettere in scena la vita del popolo (e la propria in quel mondo) – in quadri che muovono ora alla commozione ora alla meraviglia –, e il ricorso a un’invettiva grondante di sarcasmo e di toni apocalittici.

Quando però l’artefice non si scrolla di dosso il suo carico di contraddizioni per conquistare la luce di una radura, sembra muoversi in un labirinto: un imbozzolarsi nel suo stesso dire strabordante (come un baco da seta). Ma c’è una risorsa, di cui il poeta ampiamente dispone, che lo tiene spesso lontano da questo pericolo: la carica fabulatrice che, anche grazie a una parola imbevuta di eros e voracità di vivere, in diversi passaggi vede la poesia farsi farfalla prima del bozzolo. Una modalità, questa, che raggiunge il suo culmine in Teater. Qui varie forme di messe in scena vengono sussunte e sapientemente rimescolate:, la fascinazione del teatro dei pupi con echi da Ludovico Ariosto e Teofilo Folengo, Bertold Brecht e, ancora, la lezione di Delio Tessa: l’alternarsi del racconto in prima persona con dialoghi serrati che però Loi sa estendere ulteriormente in quadri polifonici spesso concitati; un modo che, almeno sul piano visivo, ricorda i magnifici quadri silenti di Tadeusz Kantor (un autore dal Nostro molto amato, anche se le opere più significative del grande polacco sono posteriori a Teater). Ma Loi va oltre tutto questo, e per la sua forte personalità, e perché persegue l’obiettivo di impastare favola e tragedia, come a tenere insieme i trasognati saltimbanchi, i Pierrot e gli Arlecchini del Pablo Picasso del periodo rosa e i personaggi usciti dal pennello graffiante di George Grosz. Con esiti ancora una volta inediti e convincenti.

Molto di questo mondo e di questo poetare si ritroverà ne L’angel (1981), il terzo dei poemetti di Loi, ma con un prevalere del registro favolistico e una restituzione trasognata del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza (serum de strada e serum fâ de ciel eravamo di strada ed eravamo fatti di cielo).

Quando poi, nel procedere dell’esperienza, il teatro originario e la capacità di affabulare avranno esaurito il loro potenziale pirotecnico, il poeta si troverà solo sulla scena, in una poesia che oscilla tra l’aspirazione al sublime e il combattimento nel labirinto della selva oscura.

Prefazione alla riedizione di Stròlegh e Teater di Franco Loi (Einaudi, 2024, pp. XIV – 282, € 16,00)

Per gentile concessione © 2024 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino