Figura d’altri tempi per rigore e per morale, Davide Lajolo (1912-1984), raffinato saggista e impeccabile politico, ci ha lasciato numerosi libri, tra cui: Poesia come pane (Rizzoli, 1973), una raccolta di saggi su alcuni autori emblematici (Fenoglio, Hikmet, Pavese, Ungaretti, Vittorini) focalizzando la lente critica sul rapporto tra poesia ed esistenza, scrittura e testimonianza di un ‘impegno’ (parola buona per quei tempi, oggi quasi improponibile ai più) per una pratica della lingua poetica tutt’altro che astratta, per una poesia che trae la propria necessità di dire dal contatto con l’uomo e con la Storia, la parola e la realtà (altro termine archiviato e snobbato da chi presume di occuparsi di letteratura): una poesia, egli scriveva, “buona come il pane”, buona per tutti, un commestibile fatto sociale.
Ho ripensato a quella mia lettura giovanile, leggendo ora D’Èter pan, D’altro pane, un libro che sarebbe piaciuto molto a Lajolo, il dodicesimo (di cui 5 in lingua) libro edito di Lia Cucconi, appartata (ma è una condizione largamente diffusa), seria autrice che da decenni vive a Torino, benché sia nata a Carpi, nel modenese, e alla cui phonè d’origine fa spesso ricorso nella sua scrittura in versi.
Sarebbe piaciuta molto, questa parola concreta e visionaria, della profonda terra emiliana, al grande critico, perché ricusa la naturale predisposizione a un dirsi introflesso, a un ripiegamento autocompiaciuto e ombelicale, preferendo un affondo nell’esistenziale, meglio: nell’esistenza, così com’è e come appare, nel contesto contemporaneo, nel paesaggio urbano di una dichinante nazione occidentale.
Una umanità contemporanea affolla e affiora dalle acque (uno degli elementi-emblemi ricorrenti del libro) di D’èter pan, una molteplicità di voci di migranti, di abietti, di derelitti e marginali, di nuovi e vecchi poveri, di clochards, di neo-abitanti della Penisola. Occorreva un idioma millenario per registrare le nuove nascite, per inserire nel solco di una accogliente lingua madre le vite e le culture planetarie:
“L’è un fior cun un nom cal per un vèint / cal fa vulèr pètel ‘d fior a oc avèrt / ‘na lûs dal ciamèr ríder al pinsêr / cme aqua cla àriva in dla breima al ciel.”, “È un fiore con un nome che sembra di un vento / che fa volare petali di fiori a occhi aperti / una luce del chiamare sorriso il pensare / come l’acqua che arriva dalla brina al cielo.” (È nê Shu Wing, È nata Shu Wing, P. 27).
Sono i versi scritti per la nascita di una bimba neo-italiana da genitori asiatici. Esaltati dalla dittongazione morbida e aperta delle vocali, gli elementi creaturali: luce, vento, acqua, cielo, partecipano della nuova nascita, la salutano e la accolgono in una lingua antica, riversata in istanze di ospitalità, di accoglienza, di civiltà.
Una lingua del pane e una lingua come pane per tempi bui e per le vite al buio (il termine che l’autrice oppone contrastivamente a luce), irregistrate, clandestine, esposte all’incertezza del presente, alla perdita aprospettica del futuro:
“Dorèm fràdel, al pôs l’è àvert, fόnd, / cme al dman cal se spèta… e ga-n-drόm, Tes! Tes!”, “Dormi fratello, il pozzo è aperto, profondo, / come il domani che ci aspetta… e ci andremo. Taci! Taci!” (Dû om in ‘na càmbra a Porta Palas, Due uomini in una stanza a Porta palazzo, p.32)
Una lingua umile, in una scrittura sorvegliata, per dire quello che i tempi e la cultura dominante sembrano negare: condivisione, egualitarismo, fratellanza. Versi che puntano dritto ai nodi della nostra epoca stigmatizzando le diseguaglianze, versi che vanno a segno e che sono di ogni tempo, nella forza della loro significazione:
“Me a sún al mer (…) / me ‘ctèla’ avèrta / incarnèda in dla lûš, mèdra e surèla / dal sperfònd e dal sôl, me a sun cadèina / vecia cme al dulôr dl’etèren pasêr. / Me a sun al mer.”, “Io sono il mare (…) / io ‘cosa’ aperta / incarnata nella luce, madre e sorella / dell’abisso e del sole, sono catena / vecchia come il dolore dell’eterno passare. / Io sono il mare.” (p.39).
Manuel Cohen
Lia Cucconi, D’Èter pan, D’altro pane, prefazione di C. Siani, postfazione di V. Luciani, Cofine, Roma, 2012.