Dario Pasero è nato a Torino nel 1952. Laureato in Filologia Classica presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino, dal 1985 è docente di ruolo di Italiano e Latino al liceo classico «C. Botta» di Ivrea. Pubblicista, collabora (dal 1999) con la Regione Piemonte per i corsi di lingua e letteratura piemontese che si tengono in varie sedi del territorio regionale.
Dai primi anni Ottanta del secolo scorso ha iniziato la sua attività di scrittore (sia in prosa che in poesia) in lingua piemontese: sue composizioni sono state pubblicate su varie riviste specializzate in Piemonte e altrove. In lingua italiana, oltre che con alcune testate giornalistiche locali, collabora con l’annuario gastronomico «l’Apollo buongustaio» di Roma.
Al suo attivo sono i volumi di prose piemontesi Sapej (Ivrea 1997; in collaborazione con Censin Pich) e di poesie: An sla crësta dl’ombra (Ivrea, 2002) e Masche Tropié Bërgamin-e e Spa (Ivrea, 2006). Alcune sue composizioni sono ospitate nel volume antologico Forme della terra – Dodici poeti canavesani (Torino; ed. «Manifattura Torino Poesia», 2010) Ha altresì al suo attivo vari interventi scientifici a congressi sulla letteratura in piemontese, l’edizione critica delle poesie di Alfredo Nicola e del teatro di Armando Mottura (entrambe per i tipi del «Centro studi piemontesi» di Torino) e la collaborazione a testi di storia della letteratura piemontese, quali il primo e il secondo volume di La letteratura in piemontese (2003 e 2004; antologia edita dalla Regione Piemonte; in collaborazione con Gianrenzo Clivio e Giuliano Gasca Queirazza).
È direttore della rivista trimestrale «La Slòira», che esce ad Ivrea e che si occupa di letteratura piemontese sia antica che moderna e contemporanea.
Prefazione di Giovanni Tesio a An sla crësta dl’ombra di Dario Pasero, Ivrea (La Slòira), 2002
Quattordici anni per trenta poesie. Già il numero figura la rarità. Dario Pasero non è un poeta frequente, ma – e non vorrei che venisse considerata come categoria diminutiva – un poeta eloquente. Non nel senso etimologicamente primario del “dire tutto” (che poeta sarebbe, se no?), ma nel senso succedaneo del “dire con arte”, che è invece la sostanza del suo “dittare”. Eloquente perché conosce gli statuti della poesia come “fare”, eloquente perché incisivo, eloquente perché i suoi temi rivendicano alla parola un’energia mitica, eloquente perché il suo lessico è ricco e classico, pur non negandosi ad escursioni di audacia sorprendente (basterebbero, in Bacant, i puri specimina del sostantivo “druëssa” e del passato remoto “bruser”).
Se mai, a modo di contraddittorio, potrebbe valere il titolo An sla crësta dl’ombra, se l’elogio dell’oscurità e del segreto che l’“ombra” rappresenta non fosse subito disdetto dalla posizione che il poeta sceglie per sé, dalla dichiarazione di orgoglio elettivo che ne anima il ruolo: come se l’ombra fosse un’onda. Se l’ombra è margine, collocarsi sulla “cresta” significa – con immagine certo non priva d’agonismo – assumersene i rischi conflittuali.
A cominciare dai personaggi del mito cui va continuo il richiamo. A cominciare, se ha senso la posizione delle poesie, da Tèra nuitera che vale un po’ – non senza inevitabili assonanze pavesiane – come introibo ancestrale. Pasero (o l’io poetico in cui Pasero si sdoppia nel suo alter ego) dialoga con i fantasmi d’un mondo di solida cultura classica e a volte, come in Telégon (storia a suo modo apocrifa), veste i panni retorici della prosopopea, ma attraverso dialoghi e voci altrui non fa che dire la natura drammatica della speranza più sua: il bisogno di attraversare la notte per vincerne la paura («afër e lus», come in Prosèrpina), ma nello stesso tempo di non rassegnarsi all’assimilazione dell’«Uno» (come in Dafne). Anche i giorni, le stagioni, i luoghi assumono in questa poesia i tratti di una lotta, finendo a costituire i segni di una ferita aperta, irriducibile ad una pacificazione consolatoria e sommaria.
Per Pasero si potrebbero usare le stesse parole che Giuseppe Conte – un poeta in lingua che ha fatto del mito la sua ragione prima – ha detto per sé: «Io amo il Mito da quando ho sentito il bisogno di ricollegarmi all’energia creatrice d’immagini dell’anima. Amo il Mito perché è politeista. Perché reintroduce, nella nostra vita e nella nostra storia, il Fato. Perché dà voce alle forze ritmiche del Cosmo. Perché ci dice che tutto è ciclico […]. Infine perché le forze del Mito governano ancora ogni atto della nostra esistenza quotidiana, e noi senza saperlo viviamo miticamente».
Poesia appositiva, attributiva (e gli esempi, se solo lo volessimo, sarebbero numerosissimi). Quella che Pasero inanella – immagine dopo immagine – in una fitta catena di risonanze «gorëgne e fòrte» (come in Giardin) è poesia di versi – per lo più endecasillabi e qualche volta settenari – in cui non c’è nulla di sentimentale. È parola poetica, la sua, che scolpisce o piuttosto incide («gravé» è per l’appunto una delle parole-chiave) l’alta definizione di un’energia di dominio che è avventura anche filosofica, comando d’un cuore inquieto che non si consegna alle facili dolcezze del canto. È poesia mentale che dà voce a profonde passioni interiori.
Per chiudere questi piccoli appunti che nemmeno sfiorano la ricchezza di un linguaggio a sua volta forte e prezioso, esatto e spigoloso, arcaicizzante e vibrante, vorrei dire che An sla crësta dl’ombra mi ha fatto venire in mente – insieme con la lezione magistrale di Pacòt – molto dell’Olivero più munito e qualcosa del Burat più fatato. Ma qua e là anche alcuni irresistibili echi lessicali di Antonio Bodrero e forse qualche erratica invenzione di Bianca Dorato. Dico questo solo per sottolineare che una poesia di tanta densità avrebbe bisogno di ben altra attenzione intertestuale.
Se è vero che l’universo dei poeti è un tessuto di reminiscenze, l’universo di un poeta come Pasero non fa che confermare un fatto: la tradizione classica e la tradizione piemontese stanno sulla cresta di un’ombra (di un’onda) che continua a provocar sorprese.
Giovanni Tesio