D’argilla e neve di Maria Pina Ciancio

a cura di Anna Maria Curci

 

Con il lapis* #38: Maria Pina Ciancio, D’argilla e neve. Prefazione di Andrea Di Consoli, Giuliano Ladolfi editore 2023

In viaggio

Ritorno nella mia isola del sud

A ogni chilometro che si riduce

un’arrendevole quiete 

ferocemente si espande

Ciò che temo di me

è questa fragilità 

ogni volta rinnovata

lo spavento dei nidi scoperchiati

l’osso spolpato nella neve

la riduzione già saputa 

della vita

(p. 16)

È fatta di andate e ritorni, di esistenze in viaggio, di soste e corse nei luoghi di nascita, di origine, di residenza. A ogni tragitto, breve o lungo che sia, corrisponde una scoperta, una conferma, l’acquisizione e il rinnovo («già saputa») di una sempre più articolata nozione circa la fragilità di persone e cose, di esistenze e paesaggi, nel segno indicato dal titolo della raccolta (che è anche il titolo della prima delle quattro sezioni che la compongono) di Maria Pina Ciancio: D’argilla e neve. La preposizione «d’», qui apostrofata, si presta a significati molteplici, giacché essa può introdurre un complemento di materia (l’universo poetico si configura come fatto di argilla e neve), oppure un complemento di argomento (la materia trattata nel volume è argilla e neve, con tutto il carico simbolico che ciò comporta). Ma quella «d’» apostrofata potrebbe sostituire anche la preposizione “da”, non soltanto la preposizione “di”. Essa potrebbe riferirsi dunque alla provenienza (complemento di origine; complemento di moto da luogo) di questi versi. Si tratterebbe allora di una provenienza da quelli che l’autrice definisce nella breve nota iniziale «luoghi d’appartenenza».

Consiglio di tener presenti tutte le possibili accezioni della preposizione con la quale inizia il titolo. Certo è che creature, materia, ambienti, ecosistemi, scorie, sono esposti all’azione di più agenti e sono ridotti nella durata e nelle dimensioni, messi a nudo («nidi scoperchiati»), franati, scavati, consumati, abbandonati («l’osso spolpato nella neve»). 

Il viaggio, che è di ritorno nei versi sopra riportati, ha una meta che è definita «la mia isola del sud». È la terra d’argilla e neve, la Basilicata, punto di partenza dei genitori di Maria Pina Ciancio, nata a sua volta a Winterthur, in Svizzera. Nell’andirivieni, tra sentimento di spaesamento, sradicamento e ritorno, partenze e vicende di emigrazione, la Basilicata diventa un’isola, preceduta dall’aggettivo possessivo che manifesta tutta la ricchezza di un ventaglio di connotati e significati. Sì, perché l’isola – che dal punto di vista strettamente geografico isola non è – può essere, di volta in volta, rifugio, riparo, luogo separato, per tempi di respiro diversi, dalla terraferma intesa come dimora delle certezze; può essere, ancora, luogo dell’utopia, l’isola dei bambini sperduti, rivelazione della perdita progressiva e, per contro, «spazio che rimane/ tra il recinto e il fogliame», origine (di corpo, di luce, di parola, intimamente legati, come per mistero che è fondamento, come si legge a p. 54, Il riparo della neve) da un lato, «deriva e approdo di ogni mio dolore» (Dentro lo spazio che rimane, p. 55) dall’altro.

Silenzi e giochi, fratellanze e solitudini, risuonano in un dettato poetico che unisce prodigiosamente dolcezza e incisività, spiritualità e corporeità, profumo di ginestre e graffi per coglierle, gelo e fuoco. 

Tra le contrapposizioni che vivono nella raccolta e ne alimentano le vene espressive, una richiama la poesia di William Blake che, dalle soglie della modernità, si pone come pietra miliare, luce radiosa e bagliore dal precipizio, quiete e abisso, per dirla con le parole di Maria Pina Ciancio. Si tratta del binomio innocenza-esperienza. Se la prima è collegata, come ci aspetta, con le prime stagioni della vita, è pur interessante notare come essa si materializzi anche in ragione di un atto volitivo: «Ritorno alla luce dello sguardo/ per un’ostinazione di innocenza» (p. 54). L’esperienza, per contro, permea tutta la creazione poetica, sì che da essa, in tutte le sue forme, a partire dalla dimensione corporea, dal suo incontrarsi con immaginazione e (leopardiani) «sconfinati silenzi», nascono le «parole d’argilla da plasmare e custodire/ nell’incavo della mano». 

Luoghi d’appartenenza, argilla e neve, partenze e ritorni, silenzi e rievocazioni-invocazioni di sere, di inverni, di storie ascoltate nell’infanzia, ricorrono anche nelle Cinque poesie in dialetto lucano e creano una tessitura sonora che unisce efficacia e incanto. Chi legge e ascolta trova anche in questi cinque testi il rimpianto per “l’ignoranza” (essere ignari del male, stato che l’esperienza cancella: «addu j eru cicata/ e nisciunu muria», p. 63; si pensi al verso finale di p. 40: «Quante volte nella vita ho invocato l’ignoranza») e, insieme, «’nda nu maccaturu/ jango e duciu/ cumi i piettini du melu» (p. 61), in un fazzoletto bianco e dolce come i pettini del miele, l’aspettativa che «perduri la grazia/ resista ancora la bellezza» (p. 14),  che al tempo fugace e impoetico, impietoso e inaridito si opponga l’incendio, il fuoco, il gioco nella neve, la luce tra le crepe, della parola. 

Anna Maria Curci

*Con il lapis raccoglie annotazioni a margine su volumi di versi e invita alla lettura della raccolta a partire da un testo individuato come particolarmente significativo.