L’esperienza poetica di Pietro Civitareale come autore dialettale, tra le più peculiari della letteratura abruzzese del secondo Novecento, è stata recentemente compendiata nel volume Nu munne, ju recuorde, le parole (Roma, Cofine, 2024). L’autore vi ha incluso le raccolte Come nu suonne (Firenze, Poesiarte, 1984), Vecchie parole (Treviso, Biblioteca Cominiana, 1990), Le miele de ju mmiérne (Faenza, MobyDick, 1998), Ju core, ju munne, le parole (Roma, Cofine, 2013) e Préime che ve’ le schìure (Roma, Cofine, 2019), compresa l’inedita A cunte fètte (che include parte delle poesie di Quasce na storia, Ortona, Menabò, 2022, esclusa da questa raccolta avendo essa «più un valore storiografico, una funzione complementare che letteraria tout court», (Premessa, p. 3). La particolarità della scrittura di Civitareale risiede non tanto nelle sue origini – quando, verso la metà degli anni Cinquanta, conosce l’opera dei convalligiani Ottaviano Giannangeli e Vittorio Clemente e pratica la scrittura di canzoni per festival regionali – quanto nel suo sviluppo, parallelo alla scrittura in lingua, che lo vede impegnato a Firenze come critico letterario (da ricordare la monografia su Carlo Betocchi, edita da Mursia nel 1977, e i numerosi studi sulla poesia dialettale, soprattutto abruzzese e romagnola) e traduttore di autori iberici e latinoamericani (dalla Novelle esemplari di Cervantes ai versi di Pessoa fino agli esponenti della nuova poesia spagnola).
La prima raccolta dialettale è Come nu suonne (1984), introdotta dal poeta ortonese Alessandro Dommarco. Queste poesie, risalenti all’iniziazione letteraria di Civitareale (1957-67), formano una collana d’impressioni naturalistiche (lo stesso Dommarco definisce Come nu suonne «un dolce breve “poemetto” dedicato alla natura») in cui tuttavia il vento e le nuvole, gli alberi e le colline acquistano una valenza simbolica; sono soprattutto i predicati a svelare un dinamismo che trascende quello fenomenico della natura: se le foglie «zòmpene e bàllene», le nuvole scure «fàucene le culline» e il vento «se resbéjje, / sfronne, sbatte e sfronne (fojje / verde, fojja ngiallite) li felare / de li piuoppe a une a une». Ma c’è anche un dichiarato soggettivismo che il poeta impernia sul ricordo degli anni infantili: «Lu recorde. Parole de maggie, / nu vele che stracce, nu mure / che se spacche». Allora la natura si veste di un simbolismo “privato”, acquistando un timbro più delicato ma altrettanto efficace. Ad esempio, quando la luce si spande sull’orto della casa paterna, leggiamo: «La luce allagheve j’uorte, / s’arrampecheve pe li mure / i le piante, come se tutte lu ciéle / stesse pe rammuccajese sopre».
Civitareale porta nella poesia dialettale abruzzese il “verso libero” affidandosi, più che alla metrica tradizionale, al ritmo interno alle parole stesse, a una versificazione scandita dalle esigenze poetiche della sintassi, al respiro cadenzato dai segni d’interpunzione. Alessandro Dommarco riconosce nella sua opera «un verso stilisticamente nuovo», peculiare perché «spoglio di rime e perfino di assonanze, sostenuto però dal di dentro, dall’onda portante della poesia, che tiene legati i componimenti tutti assieme». Per quanto Civitareale ammetta di adottare, in questa raccolta, «un dialetto abruzzese convenzionale (proposto dal poeta Alfredo Luciani allo scopo di realizzare un linguaggio regionale comprensibile a tutti)» (Premessa, p. 3), in Come nu suonne troviamo già qualche peculiarità della parlata vittoritese, come il pronome “ju” che a volte sostituisce il più comune “lu” («ju munne ch’abbrusce», «che ju core ’nganne e ju penziere») o la congiunzione “i” al posto della “e” («i lu viénte scope le vie», «I nen remane / che lu recorde») o “ciejje”, “cavajje”, “biéjje” invece di “cielle”, “cavalle”, “bièlle”.
In Vecchie parole (1990), che porta la prefazione dello scrittore chietino Vito Moretti, Civitareale “viene allo scoperto” adottando come mezzo espressivo la “lingua degli avi” (dei suoi, di Vittorito). Il prefatore riscontra nel suo dialetto «un ripensamento degli usi codificati dalla tradizione, per aderire alle mutate esperienze della storia e per enucleare nuove opzioni morali da contrapporre alle invadenze del quotidiano e alle sue tante inedie». Con questi versi Civitareale scardina in qualche modo gli schemi usuali della poesia vernacolare (Giuseppe Rosato e Cosimo Savastano, suoi coetanei, avevano impostato un simile progetto di “rottura col passato”, almeno in senso stilistico), rinunciando anzitutto al “piacere dell’oralità” per strutturare un discorso prettamente letterario in cui l’Io poetico prevale sul sentimento collettivo; in tal modo l’autore rifugge dalla massa intesa non soltanto come uditorio ma anche come gens con cui condivide le origini. Prevale dunque l’accezione solipsistica della poesia che risolve la quotidianità in un’allegoria del proprio stato d’animo, a cominciare dalla malinconia per tutto quanto muta perdendo il suo volto primigenio: «Girattunne de sole i d’ombre. / Dajju giardéine ajju titte, / dalla fenestre ajju balechéune, / dalla matéine alla sàire. / Quante juorne, quante staggìune! / […] / Ju tiémpe passe senza fa remméure. / Sole nu recame de lìuce i d’ombre / sopr’ajju mìure. Niént’àutre». Alla luce, che si avvicenda continuamente con la sua nemesi, l’oscurità («Véche de lìuce, i juorne, / dentr’a i sùleche schìure de la véite», «Nu féile d’ore, nu freilicce de lìuce, / ’mmiézze all’ombre schìure»), laddove non vince la chiarità del cielo («ju ciéle te’ ciente chélìure»), Civitareale concede il ruolo salvifico che ricopre di lustrore ogni pena del quotidiano, ogni piaga del ricordo e dei sogni disattesi.
Nel 1998 viene pubblicata Le miele de ju mmierne, con prefazione di Giovanni Tesio e postfazione di Ottaviano Giannangeli. In questa raccolta, Civitareale non soltanto dimostra una maggiore fermezza del suo discorso poetico ma anche una più solida padronanza delle sue possibilità di autore dialettale che col vernacolo reagisce alla massificazione e all’impoverimento a cui va incorrendo l’italiano. «Civitareale corteggia una lingua morta e ne è ben cosciente», scrive Giannangeli nel suo acutissimo saggio posto a chiusura del volume; nello sviluppo della sua “lingua poetica”, il postfatore riconosce addirittura «un processo di radicalizzazione del dialetto che poi si risolve, paradossalmente, in una sua trascendentalità». L’autore infatti si riappropria di una “lingua” fissata nel tempo e nello spazio (è il dialetto praticato con i familiari, gli amici e i compaesani prima di trasferirsi fuori dell’Abruzzo, ad Alessandria e poi a Firenze) che tuttavia viene plasmata come materia viva, attualizzata secondo la crescita personale e culturale di chi la rielabora in versi. È questa la sua più grande sfida: «Civitareale può odiare o dimenticare l’italiano massificato e gergale, ma non può ovviamente dimenticare la propria cultura. Egli vuol provare ad attaccare la spina di questa cultura al dialetto di Vittorito, selvaggio e turbato e che tuttavia gli ha insegnato a conoscere il mondo, gli uomini, le cose, per vedere come esso sappia reagire al sentimento del grande Ritorno» (sono parole di Giannangeli). In questa raccolta infatti risuonano gli echi delle due correnti letterarie che hanno maggiormente influenzato la formazione culturale del Civitareale “esule”: l’ermetismo (più Ungaretti che Montale, più Betocchi che Luzi), dove i nuclei sintattici ed espressivi sono ridotti al minimo ma carichi di forti valenze simboliche («Ju giardéine da nu piézze / s’è levate ju vestéite rose. // Ju ciéle è na lamia schìure / senza na stelle. // Mammarosse svèntele la mantére / ’nnenz’alla vocche de ju fuculare. // Ju munne respéire / sotte ajju liétte») e la poesia moderna spagnola (lo stesso Giannangeli ravvisa in «Nu pesce néire / i du’ d’argiente / che vaue i vieue / sotte i sopre, / de là i de qua / tra le chénne» un richiamo a due poesie lorchiane: «Il cuore / mi si riempie d’acqua / con pesciolini / d’ombra e argento» e «Quattro colombe nell’aria vanno. // Quattro colombe / volano e tornano»). Resta centrale il senso di smarrimento di fronte a una realtà che non si riconosce più come propria, a un mondo idilliaco che neanche il ricordo ormai sa ricreare: «È nu puoste fore da ju munne, / addò crìscene balechìune fiuréite / […] / addò le piante pàrlene che ju viénte / e i penzéire so’ lucente / come i suonne de i ’uajjìune. // Attuorne n’addore de mare, / n’arie accuscì strane, come quéle / de ne lìuche che nen esiste».
In Ju core, ju munne le parole (2013), Civitareale continua il suo discorso incentrato sulla labilità dell’esistenza: «Ogni journe che passe / t’apre j’uocchie / a nu ciéle sempre / chiù schìure a nu suonne / sempre chiù luntane»; «Ma è vastate che na nùvele / appannesse ju sole / pe’ nu mumiénte i la terre / s’è refatte schìure» (richiama il trentatreesimo sonetto di Shakespeare: «Così brillava il mio sole al mattino / con trionfale splendore sulla fronte, / però fu mio soltanto per un’ora; / lo nasconde una nube all’orizzonte»); «All’ampruvvéise ju juorne / s’è ammutéite i dentr’alla case / s’è fatte nu selenzie fennìute»; «I la véite, lìuce che a ’uardarle / se refà sùbbete ombre». Questo tema dominante viene “attenuato” saltuariamente da poesie d’amore, come Massàire ju mare, Ajju tiémpe de le rose e Quande te sté p’addurméjje, o da cammei di “alata” malinconia: «A premavere na schéle, / ’ncéime alla schéle ju ciéle, / ’nciéle na casa belle. // Dentr’a na stanza la lìune, / dentr’a n’àutre ju sole. / Le fenèstre sempre aperte / a n’addore de fiore. // La matéine selenzie, / a mezzejuorne selenzie, / la sàire selenzie. // La notte sulamente / se sente vulà nu muschitte, / se sente cantà nu ciéjje, / nasce o se more n’ome».
Nelle ultime due raccolte, Préime che ve’ le schìure (2019) e A cunte fètte (2023), Civitareale predilige un tono discorsivo, decisamente più prosastico e colloquiale rispetto ai suoi lavori precedenti. Se da un lato la distanza dai luoghi e dalle atmosfere del passato si fa più implacabile («La véite è nu viajje i nen sémme / niue a decìdere quande se parte i quande / s’arréive, addò cumenze i addò fenisce»), dall’altro l’animo del poeta riesce ancora a rasserenarsi per le cose che si colorano d’argento e d’oro («Ma ce sta nu mumiénte / che te repaghe d’ogni chéuse: / la matéine, quande / m’àuze i apre la fenestre; / i vàide le chéuse che se faue / d’argiénte i d’ore / alla scéite de ju sole»), per un parlottio di uccelli («Che ciarmujje de ciéjje / massàire sott’a i titte! / I che pace ècche attuorne / i dentre ajju core!»), per un giovane pesco nel giardino («I mo’, dentre ajj’uorte, / nu scacchiatièjje de piérzeche / nen la smette de farse biéjje. / Pare nu quatrale che, / pe’ la préima vote, s’è misse / ju vestéite de la fèste»). Ci sono poi poesie che, soprattutto negli ultimi anni, prendono forma di semplici riflessioni esistenziali («La veretà nen té / besuogne de parole. / Sta dentr’alle chéuse / come i penzéire / dentre alla mente»), dove permane il senso di disorientamento non soltanto per la realtà che muta ma anche per l’inesorabile scorrere degli anni: «È le vaire ca ju tiémpe è passate / i che da nu piézze nen so’ remenìute. / Ma mo’ ècche è tutte cagnate: / me pare n’àtru munne. // M’addummanne com’è succiesse / i quande i percajje / ne’ mme so’ accuorte de niénte».
Questa omnia poetica di Pietro Civitareale – anche se circoscritta alla sua sola produzione in dialetto – è un’importante testimonianza dello sviluppo e dei mutamenti non soltanto letterari ma anche antropologici della cultura italiana del secondo Novecento. Così afferma Giorgio Bàrberi Squarotti nella sua Storia della civiltà letteraria italiana (1996): «Civitareale rappresenta la consapevolezza dello stato di precarietà storica del mondo dialettale e, di conseguenza, anche del recupero poetico del dialetto stesso. Ci sono, nei suoi testi, congiunti, il senso di fretta di fronte all’urgere del silenzio contro il dialetto, e l’analoga coscienza del perdersi del mondo umano che il dialetto ha come lingua naturale». Ma il poeta abruzzese resiste e oppone al decadimento della nostra letteratura la sua “lingua naturale”, non tanto come rimostranza intellettuale quanto come necessità di riappropriarsi di un mondo da salvare, fatto di ritmi e accenti assolutamente peculiari, forse anche irripetibili, ma soprattutto di valori che grazie a quel dialetto resistono sul confine, mai così indistinto, tra “lìuce” e “schìure”.
Andrea Giampietro
Raiano, 5 marzo 2024