Òmo da n pezzo,/ con quattro motti canto sempr’uguale/ de vita e campi, de penzieri e gente, come fa un merlo, che canta solo con quattro notee ta nissun va a stufo de sentillo: così il poeta Giampiero Mirabassi recita in Sempr’uguale, la poesia esergo alla raccolta Argì. L’umile dichiarazione programmatica, quasi a restringere un orizzonte che spazia ben oltre i limiti fissati, può far credere che l’Autore ripercorra in questo libro i sentieri poetici già tracciati in Èrme, la sua prima opera. Ma, nonostante la dichiarata continuità tematica e stilistica, a un lettore attento non sfuggirà che la sua ricerca si approfondisce e che l’analisi sul piano lirico e narrativo si affina progressivamente in una modulazione nuova dei temi propri della sua scrittura.
Sono i titoli stessi delle due raccolte ad anticipare in modo icastico percorsi diversi, sia pur complementari; due verbi, un imperfetto remoto e un infinito: Èrme e Argì (Eravamo e Tornare). In Èrme c’è un passato ritrovato e rivissuto nel ricordo, grazie alla magia della parola poetica, che in un plurale collettivo dà vita a memorie graffiate di nostalgia, mentre Argì, nell’indeterminatezza dell’infinito, sembra calarci nella prospettiva del nòstos di un Ulisse che, carico delle esperienze del viaggio, torna alla sua Itaca, in un percorso in cui alla dimensione soggettiva si affianca quella più generale ed escatologica che coinvolge la“bella d’erbe famiglia e d’animali” (U. Foscolo).
Nel tempo declinante della vita, in cui n ciaresta ch’archiappà dua sem venuti/ e a casa argì tranquilli senza prescia, a ispirare l’Autore non saranno solo i ricordi dell’infanzia, dei turbamenti dell’adolescenza o dell’amore asordante/ come nó strillo matto/ de cicala, ma una pacata atmosfera, pregna di affetti sicuri, in cui, pur nel disinganno e nella sofferta constatazione che un Dio pazziente continua a dipanare il filo del gomitolo della vita, ci sono ancora – insopprimibili – il pensiero, la poesia e soprattutto il sogno, a volte esile, anche impalpabile, ataccato/ a n fil de ragnoo a n fil de bujo,ma pur sempre vivo nel tempo novembrino del tramonto. L’irrequietezza della prima raccolta si distende così nella modulazione crepuscolare di Argì, in cui il canto si scioglie a volte in lirica contemplazione, altre volte in accorata preghiera, nella constatazione che un percorso si è ormai compiuto tra l sole e j alberi de giugno e n tramonto grigio de novembre. Ma nel titolo Argì è sotteso anche un valore ottativo, espressione del bisogno interiore di recuperare una dimensione lontana da artifici e alienazioni, cui sembrano estranei il sentimento della solidarietà e la condivisione, come appare nella lirica Tìrete sue, un’intensa preghiera al sole, evidente metafora di Dio: Anche si stracco, tìrete su/ e ardacce n cèlo azzurro/ su ste capocce vòte/ de bestiacce ingorde.
Nei tramonti grigi di novembre a volte la percezione della solitudine può farsi assordante, insieme alla paura del buio ch’arcuprirà gni cosa come n mare. Quello della morte, sia pur con leggerezza, è un tema che spesso abita nei versi di Mirabassi (basta dì “sera” e me mmalinconisco). A volte si manifesta in modo struggente nei ricordi, ma anche nella malinconica descrizione di primavere bruciate dall’estate o di tramonti lunghi e, tra tanti, domina un interrogativo irrisolto: I nonne l so/ perché o pianta o bestia/ solo de morte/ gni creatura vive. Un interrogativo che si sostanzia anche delle irrisolte antinomie luce/buio, silenzio/rumore che sono espressione tangibile del nostro doppio, in un’opposizione dalle radici insondabili: Qualunque òmo cià dó vite al dónca:/ quilla ch’è tutta saggia e de sostanzia/ e l’antra che va tutta n frillulléra.
La poesia di Argì è immersa nella nostra terra, cantata con un profondo e partecipato senso di appartenenza, già presente in Èrme. Ma in questa seconda raccolta l’attenzione dell’Autore si posa anche sull’ambiente ferito dallo sconsiderato agire dell’uomo, e la sacralità di una natura violata, insieme al mistero che la pervade, ricorda Virgilio, con una sensibilità che porta anche Mirabassi ad umanizzarne gli elementi, partecipandone della sofferenza: “Per i boschi silenti fu udita dal popolo anche una voce immane, e nell’oscurità della notte sono stati visti pallidi fantasmi dallo strano aspetto e gli animali hanno parlato, cosa indicibile! Si fermano i fiumi, si squarciano le terre.” (Virgilio)
L chiancone ncó le felci e i ciclamini devastato dalla cementificazione selvaggia, la cespanèa maligna e matta/ che cià per fiori buste sbrindellate e l riganello sporco, un piccolo ruscello che muore soffocato dai rifiuti, testimoniano le ferite inferte alla natura, quasi una violazione a un ventre materno. Il tono è amaro e il pianto della natura e dei viventi domina spesso sulla gioia e sulla luce. Nel rimpianto di un locus amoenus è implicita la nostalgia dei luoghi del proprio essere, che benne, ruspe e cemento – o piuttosto il tempo, impietoso nel suo scorrere – con crudele e determinata violenza, tentano di strappare alla memoria. E il roveto che cresce ai bordi del campo (dua che finiscono i tu campe,/ salvo qualca rogaia, n cresce/ gnente,/ e sott’artrovi solo ràiche e sasse) diviene figura dell’aridità degli affetti, dell’egoismo che dilaga, in una condizione che ci vede come gli astri nel cielo, spauriti tra distanze incommensurabili e forze centrifughe.
Quello dell’Autore non è osservare o soltanto vedere, è piuttosto guardare il fuori da sé nella convinzione che è proiezione di sé. E guardare vuol dire entrare nel profondo delle cose, è un lavoro dell’anima per cogliere l’essenza di ciò che sollecita i nostri sensi, perché, come cantava Baudelaire, “È un tempio la Natura ove viventi/ pilastri a volte confuse parole/ mandano fuori; e la attraversa l’uomo/ tra foreste di simboli dagli occhi/ familiari.”
Così lo sguardo dell’anima sembra penetrare segreti e misteri della natura e l’uomo-poeta in ascolto vi coglie voci e sussurri, luci e ombre che sollecitano l’immaginazione, che suggeriscono la storia, quella di una madre terra emersa con fatica dagli abissi marini e quella vera e profonda degli uomini, che troppo spesso ammantano di vana retorica il loro senso di appartenenza o il ricordo di glorie passate; quella storia dell’uomo e del suo essere che anche un ulivo o un piccolo fiore sanno raccontare, magari in un sussurro che è come l grattà piano ta na porta/ ta chi la scolta e nun fa nanne a aprilla. Mirabassi ascolta il palpitare della natura, quasi in un rapporto sinestetico, sotto le piogge di novembre, o accanto ad un fuoco che racconta il lagno e lo scrìcchio de le potature o magari nel silenzio e nel buio della notte, quando la volta celeste, illuminata dagli astri, sembra aprirsi su di lui, come in una chiesa scoperchiata che ci ricorda il magico dilatarsi dell’Abbazia di San Galgano e fusse suggestione o qualcos’altro/ cert’è che ntol silenzio sè più solo/ e al bujo pòl sentì che spunta l seme,/ che pàssono l cignale e la faina/ e tutti j animali che nn’òn pace, come tra i vecchi muri la fantasma. In particolare il silenzio della notte si carica di mistero perchél’ombre son più lunghe de le cose/ sul cijo de la notte e il mistero, come un vento che non si vede, scuote la finitezza del nostro essere: sentisse na creatura spersa e sola/ e quanto c’è che esiste e non conosce.
Questa nostra terra, che n lassa argì n su fijo senz’amore,/ che sa parlà ta l’anima spaurata e che lo saluterà ncon vol d’ucelli diviene, insieme alla gente, protagonista del canto; le campagne, i monti, i paesi,i mercati, le osterie si animano di voci, e l’autenticità dell’essere e dei rapporti sembra trovarsi nella gente semplice, quella di un tempo, che nel ricordo assume quasi contorni epici. In Gente, la terza sezione della raccolta, sfila una galleria di figure che completa il grande affresco di umanità già disegnato in Èrme, sullo sfondo dei borghi e delle campagne umbre. Su tutto domina la consapevolezza dell’irreversibile declino di un mondo antico che riporta alla mente la poesia I bu (I buoi) di Tonino Guerra, considerato l’Omero della società contadina: Andè a di acsè mi bu ch’ i vaga véa,/ che quèl chi à fat i à fat,/ che adèss u s’èra préima se tratòur.// E’ pianz e’ cór ma tótt, ènca mu mè,/ avdài ch’i à lavurè dal mièri d’an/ e adès i à d’andè véa a tèsta basa/ dri ma la córda lònga de mazèl (Andate a dire ai buoi che vadano via/ che il loro lavoro non ci serve più/ che oggi si fa prima ad arare col trattore.// E poi commoviamoci pure a pensare/ alla fatica che hanno fatto per migliaia d’anni/ mentre eccoli lì che se ne vanno a testa bassa/ dietro la corda lunga del macello). Lo sguardo dell’Autore si posa, non senza tristezza, anche su gruppi di famiglia negli interni disanimati di una modernità orfana di valori e di legami affettivi che non sanno colorarsi di armonia tra il sé e il fuori da sé.
I ricordi di uomini e di donne, dell’odore del pane, di un piccolo presepe, delle gite al mare, delle balere sembrano filtrati dagli occhi di un bambino e ciò, insieme ai racconti che l’oralità alimenta con il sovrapporsi di memorie e ricordi, colora di epicità persone e atmosfere. Un po’ come accade nel film La notte di san Lorenzo dei fratelli Taviani, dove tutto è ri-vissuto attraverso gli occhi di una bambina, immersa nel torbido della guerra, in cui irrompono prodigiosamente il magico e il fiabesco. Mirabassi in Argì, come un moderno rapsodo, dà spazio al favoloso e al mito, da quello che si nasconde nei Monti Sibillini o che gorgoglia nelle acque del Nera, al mistero di una quercia che se mette a smanià e pu a gonfiasse/ nchi rame che s’alzàvono ta l cèlo/ e a mujolà come che fa n cristiano/ si tu je mette n bocca n bel bavajo, sino ai guerrieri medievali che un prodigio della fantasia rende vivi in mezzo alle torri, ai colli e alle pianure, con pennellate di grande realismo espressivo, in cui il tempo e lo spazio sembrano dilatarsi in una grande rappresentazione che suggerisce il cromatismo e il chiaroscuro dei paesaggi e dei ritratti del livornese Giovanni Fattori.
Le trame dei racconti a volte squarciano veli drammatici; indimenticabile nella lirica Pavane quella madre, dipinta quasi in una tragica metamorfosi, che al funerale del figlio ta la cassa/ nchi bracci come ràiche s’ataccava. Altre volte si tingono invece di ironia. Ma gli uomini e le donne, assurti a protagonisti del canto, non sono mai ricordati per ridere dei loro gesti, delle loro battute, per burlarsi della loro ignoranza. L’Autore dichiara con forza qual è la funzione della poesia che è di vivere e far vivere la vita degli altri con impegno e partecipazione: Cerco n poeta vero pe sta lingua,/ che non annasse n giro/ a fa l bucciotto/ e mette ncora n rima storta/ doppo d’avelle arfritte e ariscaldate/ dó robbiciole/ i sceme per fa ride, o piagne i vecchi! La poesia, secondo il nostro Autore, nn’à da fa ride,/ vole n poeta vero,/ p’arinventalla e pe parlà al dimane.
Giampero Mirabassi, pur avendo al suo attivo – ancora inedita – una vasta e pregevole produzione poetica in lingua, ha scelto per la sua seconda raccolta ancora una volta il dialetto, quello gentile dei borghi perugini, ma con qualche punta di asprezza e qualche grumo di scabra sonorità a sottolineare anche in modo onomatopeico le sofferte difficoltà che si accompagnano al ritorno. E quella che ci propone è poesia in dialetto, non poesia dialettale e tanto meno vernacolare. La sua scrittura si colloca, infatti, a buon diritto, sul solco della letteratura del Novecento nelle lingue locali, in cui, come nota il critico Franco Brevini, abbandonati i temi popolari e folkoristici, si è compiuto il passaggio dal “comico” della tradizione al “sublime” di una nuova poesia, che per più aspetti, tematici e stilistici, si lega a quella in lingua, nei cui confronti non si colloca in una posizione subalterna o marginale.
L’Autore si pone consapevolmente nella dimensione post-dialettale, convinto che nissuno parlerà tra n po’ sta lingua/ e sta a morì l penzà che lia arvestiva e recupera con perizia e originalità l’antica lingua dei padri nell’ambito del complesso processo di ibridazione delle parlate locali, cui le dinamiche sociali e tecnologiche del nostro tempo hanno sottratto la vera identità. E quelli del dialetto diventano significanti che con la loro sonorità a volte aspra e terrosa hanno di per sé il potere di scavare al di là di una significazione codificata, perché il dialetto che è na lingua sciucca e antica par fatt’aposta pe la nostalgia,/ per buttà giùe i ricordi de na vita/ e più èn lontani i tempi e più s’adatta; così come sostiene anche Gesualdo Bufalino in Museo d’ombre, quando nota che il dialetto “più sembra rustico e greve più riesce a sprigionare musiche, eloquenze e fantasie espressive che non trovano l’uguale nella parlata cortese”. In tal modo la lingua dei padri, sebbene declinante, è capace di raccogliere e far vibrare la voce a volte flebile di uomini, di memorie, di affetti. E le trame metriche, le scelte lessicali, le scabrosità stesse della lingua hanno il potere di tradurre la realtà in pensiero e in ciò l’Autore rivela una raggiunta maturità espressiva capace di coniugarsi con la ricchezza del suo vissuto.
Lontano dallo spirito di un rigido e accademico recupero filologico, quello di Mirabassi è un idioletto di particolare interesse in cui a volte si scioglie la rasposità dei suoni, oltre le implosioni vocaliche e l’addensarsi di grumi sillabici tipici dell’antico parlare di Perugia; e ciò grazie alle frequenti epitesi o arieggiando il verso, senza abusare dell’elisione. E le variatio che si registrano sul piano lessicale (rosso/roscio, udór/odór, quanno/quando, non/nun, anche/ncó/anco, sciucco/sciutto, era/éva) hanno la funzione di creare gli effetti ritmici e musicali giusti a sottolineare le diverse situazioni tematiche e i chiaroscuri tonali. Lo stesso può dirsi delle scelte metriche: accanto all’endecasillabo, a volte spezzato, reso vibrante da anastrofi o dal sapiente uso dell’anafora, ci sono versi liberi a inseguire e assecondare la musica delle parole e dei pensieri. A volte i verbi, come il rincorrersi delle note in una fuga, sembrano imprimere alla narrazione un ritmo e una velocità sorprendenti, come in S’acende (che smugne, che stracca, che sciutta/ ch’è lunga/ ch’acenne i lenzoli la notte…)o in Dacce l pane (zappetta, vanga, stronca, pota, taja.// Tira su, scava, arcoje, spaja, amucchia …) quasi a sottolineare l’incalzare e, insieme, l’iteratività del tempo.
Pur nelle angustie lessicali dell’antica lingua perugina, le cose più umili e i gesti della quotidianità sanno farsi pensiero, in una poesia in cui, in un legame profondo tra paesaggio, memoria e lingua, Giampiero Mirabassi compie un percorso a ritroso lungo i momenti dell’essere, in una ricerca interiore sostanziata da una profonda religiosità, non dispensatrice di certezze, né gridata, ma carica di interrogativi e dai toni sommessi, che discretamente si palesa attraverso parole che sembrano essere state create insieme con i pensieri e con le cose.
Ombretta Ciurnelli
21-09-2011
Dal murajone
Con ónne alte de n antico mare,
che rocce spuma e fossili aniscónne,
curre la gran catena l’orizzonte,
i toppe come na risacca vèrde.
La chioccia d’oro drent’a la su grotta
ta chi l’artrova p’arriccallo spetta
ma è nnutile cercalla che lo nferno
atizza l vento e tutt’i lume smorza,
dua paga anco Pilato la condanna,
e aniscòsta per sempre è la Sibilla.
Nòvi d’istate e quan ch’è nverno vecchi,
forre, gobbe e caverne del Dimonio,
m’encàntono de piùe quanno d’autunno
sti monti se scolórono pian piano
per gì a morì ntól mare de la sera,
ntra che palazzi, rocche e campanili
ta l cèlo e l vento arcóntono i segreti.
DAL MURAGLIONE –Con onde alte di un antico mare,/ che rocce schiuma e fossili nasconde,/ corre la gran catena l’orizzonte,/ i colli come una risacca verde.// La chioccia d’oro dentro la sua grotta/ a chi la trova per far ricco attende/ ma è inutile cercarla ché l’inferno/ attizza il vento ed ogni torcia spegne,/ dove sconta anche Pilato la condanna,/ e nascosta per sempre è la Sibilla.// Nuovi d’estate e quando è inverno vecchi,/ forre, gobbe e caverne del Demonio,/ m’incantano di più quando d’autunno/ questi monti si scolorano pian piano/ per morire poi nel mare della sera,/ mentre palazzi, rocche e campanili/ al cielo e al vento narrano i segreti.
I mistere
Dua che finisce l monte
sopra la linea scura,
s’asèsta n sole rosso
a tigne ntorno
ncó le porpore e j ori
l’orizzonte.
A l’ombre che se slùngono
la luce s’alenisce.
Ntól cijo de la notte
le cose nn’èn più quille
o se le gnótte l bujo.
Na luna alta s’afaccia
a mollà strade stracche
de n mondo guasi vòto
e che più granne pare.
Quan pu le cose dormono,
se svéjono i misteri.
I MISTERI – Dove finisce il monte/ sopra la linea scura,/ si adagia un sole rosso/ a tingere intorno/ con le porpore e gli ori/ l’orizzonte.// Alle ombre che si allungano/ la luce si affievolisce./ Sul ciglio della notte/ le cose non sono più quelle/ o se le inghiotte il buio.// Una luna alta si affaccia/ a bagnare strade stanche/ di un mondo quasi vuoto/ e che più grande appare.// Quando poi le cose dormono,/ si svegliano i misteri.
San Martino
Matina chiara de novembre
e fredda.
Su n laco de nebbia
cime de toppi,
isole o sùmmie?
L zzirlo de n tordo
buca l silenzio;
liggèra na ventata
passa e smette.
Voci lontane
chissà dua
e rimori
sperzi ntól gnente.
SAN MARTINO – Mattina chiara di novembre/ e fredda./ Su un lago di nebbia/ cime di colli,/ isole o sogni?/ Il richiamo di un tordo/ buca il silenzio;/ leggera una ventata/ passa e cessa./ Voci lontane/ chissà dove/ e rumori/ persi nel nulla.
Si ce fusse
Cerco n poeta vero pé sta lingua.
N poeta vero quil che nn’è ma successo
fa succede,
fa esiste quil che n c’è e n sarà mae,
solo ncó lo nventasse na parola,
tutta nova,
che a chi la ntenne spiega la su vita,
come si a lu parlasse
e ta lu solo.
Cerco n poeta vero pé sta lingua,
che non annasse n giro
a fa l bucciotto
e mette ncora n rima storta
doppo d’avelle arfritte e ariscaldate
dó robbiciole
i sceme per fa ride, o piagne i vecchi!
Na lingua sciucca e antica
che de morte parlava
e de migragna
d’amore, guerra e fede,
de vita severa e de lavoro,
quillo duro,
quillo da bujo a bujo che n c’è piùe,
nn’à d’arcercà fantasme,
nn’à da fa ride,
vole n poeta vero,
p’arinventalla e pé parlà al dimane.
SE CI FOSSE – Cerco un poeta vero per questa lingua./ Un poeta vero quello che non è mai accaduto/ fa accadere,/ fa esistere quello che non c’è e che non sarà mai/ solo con l’inventarsi una parola,/ tutta nuova,/ che a chi l’ascolta spiega la sua vita,/ come se a lui parlasse/ ed a lui solo.// Cerco un poeta vero per questa lingua,/ che non andasse in giro/ a fare il burattino/ e mettere ancora in rima sgraziata/ dopo averle rifritte e riscaldate/ due coserelle/ per far ridere gli scemi, o piangere i vecchi!// Una lingua asciutta e antica/ che di morte parlava e di miseria/ d’amore, guerra e fede,/ di vita severa e di lavoro,/ quello duro,/ quello da buio a buio che non c’è più,/ non deve ricercare fantasmi,/ non deve far ridere,/ vuole un poeta vero/ per reinventarla e per parlare al domani.
Regina scalza
Anco s’èrte bella
e ncó na brocca d’aqqua per corona
tu caminavi come na regina,
nissun t’à carezzato,
fija dla terra,
ncó stó dialetto nostro disprezzato.
Ma i te canto
quanno ta lo specchio
te guardi, ciuétta,
che coi labbri strigni le forcine
e la man dritta
passa lenta ncó l pettine
a guernatte.
Se sciòjono i capeje
a denze masse
quanno t’abasse
p’arcoje na forcina
ntra qui matoni rossi
caldi e alimati
pî tu piede scalze.
Tutto profuma
de mentuccia e spigo,
na rosa ncó davanti a la Madonna.
Sul davanzale sbòcciono i gerani,
tlà da la finestra
ombre de nugole currono ntól tempo
e ntorno a te
n tremór de primavera.
REGINA SCALZA – Anche se eri bella/ e con una brocca d’acqua per corona/ tu camminavi come una regina,/ nessuno ti ha accarezzato,/ figlia della terra,/ con questo dialetto nostro disprezzato.// Ma io ti canto/ quando allo specchio/ ti guardi, maliziosa,/ mentre con le labbra stringi le forcine/ e la mano destra/ passa lenta con il pettine/ ad aggiustarti./ Si sciolgono i capelli/ in dense masse/ quando ti chini/ per raccogliere una forcina/ tra quei mattoni rossi/ caldi e lisci/ per i tuoi piedi scalzi.// Tutto profuma di mentuccia e lavanda,/ anche una rosa davanti alla Madonna./ Sul davanzale sbocciano i gerani,/ là dalla finestra/ ombre di nuvole corrono nel tempo/ e intorno a te/ un fremito di primavera.
Pavane
De l’accompagno del mi pòr cugino
m’arèsta l sòno lento de na banda.
C’évo diecianni e pé la prima volta
al passo ncó la morte caminavo.
De l’accompagno del mi pòr cugino
m’arèsta la paura e lo sgomento
E tutta quela gente che piagneva
e j urli de la zzia che ta la cassa
nchi bracci come ràiche s’ataccava.
De l’accompagno del mi pòr cugino
m’arèsta l piccicume del catrame
la strada nera, le ginestre piste
e l sòno scuro de na banda lenta.
PAVANE –Del funerale del mio povero cugino/ mi resta il suono lento di una banda./ Avevo dieci anni e per la prima volta/ al passo con la morte camminavo.// Del funerale del mio povero cugino/ mi resta la paura e lo sgomento/ e tutta quella gente che piangeva/ e le urla della zia che alla bara/ con le braccia come radici si attaccava.// Del funerale del mio povero cugino/ mi resta l’appiccicaticcio del catrame/ la strada nera, le ginestre calpestate/ e il suono scuro di una banda lenta.
Sempr’uguale
Senza vedello,
da j altri ucelli al canto s’arconosce
che tutti quanti dicon quant’è bello.
Merlo da sempre,
con quattro note canta sempr’uguale
e ta nissun va a stufo de sentillo.
Òmo da n pezzo,
con quattro motti canto sempr’uguale
de vita e campi, de penzieri e gente.
Non m’è da dìe
ma che diosilla avó ch’è misso sùe!
Stamme a sentì, come se scolta n merlo
che la matina
per chi l’aspetta e per chi è sordo canta
sotto a lo stesso sole e la stess’aqqua.
SEMPRE UGUALE – Senza vederlo,/ dagli altri uccelli dal canto si riconosce/ che tutti quanti dicono quanto è bello.// Merlo da sempre,/ con quattro note canta sempre uguale/ e nessuno si stanca di ascoltarlo.// Uomo da un pezzo,/ con quattro parole canto sempre uguale/ di vita e campi, di pensieri e gente./ Non mi devi dire/ ma che lagna hai messo su!/ Stammi a sentire, come si ascolta un merlo// che la mattina/ per chi lo attende e per chi è sordo canta/ sotto lo stesso sole e la stessa acqua.