La vita è fatta di incontri. Preceduto da uno scambio di libri nel quale ho ricevuto con dedica il suo Antiga Limba (Edizioni Nemapress, Alghero, 2019), con il sottotitolo “Poesie e riflessioni lungo i sentieri della vita” e, in copertina una foto del poeta che cammina lungo il Nuraghe Majore, sito archeologico Musellos di Ittiri, il nuraghe dell’adolescenza’, l’incontro con Antonio Maria Masia è avvenuto il 17 gennaio 2023 presso l’Unar a Roma in occasione del reading “Poeti in dialetto a Roma” che ci ha visto protagonisti insieme ad altri amici poeti.
Il libro in sardo, variante logudorese, raccoglie poesie e commenti saggistici prodotti nel corso degli ultimi trent’anni e che testimonia una vita dedicata alla diffusione, allo studio ed alla conservazione della lingua sarda.
Come è mia abitudine, nella prima lettura, ho saltato – per leggerli, con profitto dopo -, la prefazione di Giovanni Fiori e i contributi finali a cura di Clara Farina e Neria Di Giovanni. Ma ho letto le note dell’autore, essenziali per comprendere le sue scelte metriche, le scaturigini della sua poesia (eredità familiare del “cantare a poesia” di nonno, padre e zio), la scelta del sardo, la «lingua delle radici, dell’identità, delle sensazioni, dei ricordi (ammentos), delle memorie della comunità». Masia tiene a precisare che le traduzioni sono sue, letterali, non poetiche, per agevolare la lettura del testo originale «che dovrebbe rimanere punto fondamentale nella sua attenzione».
Consiglio, quest’ultimo, che sottolineo, condivido e che abitualmente applico nella lettura dei testi dei poeti delle altre lingue, ascoltandone dapprima il suono e scovando le parole chiave, aiutandomi naturalmente con la traduzione per avere piena comprensione e apprezzamento.
Il libro, suddiviso in quattro parti, è preceduto da tre Dediche. Innanzitutto a suo padre, Pietro, ricordandone la sua valentia di estroso poeta improvvisatore, con “Cara Colomba”, un sonetto d’amore dedicato alla moglie e la quartina “Tre sono i preziosi regali di Dio” e cioè: s’abba, su inu, s’ozu ’e s’olia / pro chi sa vida colet in recreu (l’acqua, il vino e l’olio d’oliva / perché la vita passi serena).
Tenerissima è la dedica di Masia a sua moglie, Toia, con la poesia Corvuledda ’e amore (Orecchini d’amore) con l’invito a s’isposa anda e nara / ch’est issa sa pius cara / sa chi sempre hap’in coro / e in mente che tesoro (vai alla sposa e dille / che è lei la più cara / quella che ho sempre nel cuore e nella mente come tesoro) che richiama analoghi classici inviti, messaggeri d’amore, di Cavalcanti alla sua “ballatetta” e di Caproni alla sua “anima leggera”. Corvuledda (orecchini – spiega Masia – a forma del tradizionale cestino sardo, la corbula, costruita in paglia o giunco o asfodelo, parte irrinunciabile del corredo femminile, con la funzione di contenere e mantenere la vita, di proteggere e nutrire). Molto simile alla tipica cruedda del mio paese, Ischitella, cosa che mi rende ancora più preziosa questa poesia sussurrata, un canto sommesso e dolcissimo.
Terza dedica al suo paese, Ittiri, un inno fluente e disteso da fizu a mama veru amore (Da figlio a madre vero amore).
Il libro (non solo poesia, ma “insieme una vera e propria operazione culturale”, concordo con Neria Di Giovanni) è ordinato in quattro sezioni. La prima: La vita, ricordi, pensieri, natura, pace, amore, religione, filosofia. La seconda: Poesie di dolori e di amarezza. La terza: Poesie di gioia e di allegria. La quarta: Scambi di versi con amici poeti.
Antiga limba, è la poesia eponima della prima parte e dell’intera raccolta e l’autore la fa precedere da uno scritto in cui tiene a precisare: «prima dei versi, nella lingua sarda vedo e comprendo che in essa si concentra tutto quel patrimonio immateriale di grande valore che abbiamo preso dagli avi e che dobbiamo trasmettere ai figli, e così nella vita come una ruota che gira». Masia cita poi una lettera del 26 marzo 1927 dal carcere di Milano di Gramsci alla sorella Teresina, con l’invito a lasciare che i suoi bambini «succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro». Sottolinea come l’importanza di quel verbo “succhiare” (anche Dante usa lo stesso verbo per indicare la trasmissione della lingua materna) come fa il bambino che «avvinghiato al seno della madre attinge l’elemento fondamentale per la sua crescita e il suo equilibrato sviluppo psico-fisico» e afferma di provare «rabbia e delusione per il fatto che due generazioni di giovani sardi siano stati privati del loro naturale alimento linguistico». Purtroppo definitivamente.
Ed ecco, in versi liberi, la poesia Antiga limba, scusandomi di doverla, per ragioni di spazio, proporla solo in traduzione: A me, figlio e ospite in terra straniera / di conforto sei e di riparo, / antica lingua dell’Isola natia / perché mi dai ricordi mai sopiti / e memorie / che non posso dimenticare / perché mi poni nel viso una scintilla / e mi riporti, ragazzo, al Paese mio, / quando ansioso e contento / cercavo / giorni futuri / chiari e luminosi. // Tu, / fontana grande sei di poesia / in questo tribolato mondo di oggi / sei canto dolce e soave armonia, / e con desiderio ti accarezzo come un fiore / quando nelle labbra mi germoglia qualche verso / di malinconia bagnato e d’amore. / Allora, all’istante, / con occhi spalancati di allegria, / presto m’incendio di fuoco, con fierezza, / per quelle buone radici / che mi ha dato / la tua eterna graziosa gentilezza.
In questa prima parte sono condensati i temi che stanno più a cuore al poeta: la poesia, la pace, l’ecologia, l’accoglienza dei migranti, i ricordi di infanzia, il mistero della vita, il silenzio di Dio, la fede e il libero arbitrio.
Solo un piccolo assaggio della sua visione dell’esistenza, in Iscuru a chi no imbrtzat (Misero chi non invecchia), dedicato all’amico di una vita Gianni Virdis: Dio, da solo, decide la sorte, / il nostro tempo e quale destino, / e non sei tu a dare la fermata, // la nascita, la vita e la morte, / misteri dell’umano cammino, / affinché nessuno conosca la fine.
Dolu e amargura (dolore ed amarezza) pervadono la seconda parte del libro. In avvio la disperazione per la morte, a meno di 5 anni, di suo figlio Pietro (a cui dedica la vibrante poesia Sa domo in chelu (La casa nel cielo), pare consolarsi nella speranza che la nipote Anna Maria, anche lei morta prematuramente, possa raggiungere Pietro nella casa celeste: Anna Maria in quell’altro mondo / nella casa dei figli perduti / so che mi stai abbracciando Pietro.
Ben quattro sono le poesie dedicate a sua madre, tra queste mi avvince Si podes, dali dulche s’anninnia (Se puoi concedile una dolce ninna nanna) una commovente, accorata preghiera in cui il poeta invoca: Santa Maria sa mama ’e Deu, / unu regalu faghemi ti prego: / ne dólimas, ne pena a mama mia, // Si podes, dali dulche s’anninnia.
Dîa cherrer cantare a lughe ’e luna (Vorrei cantare alla luce della luna) è desiderio ed il rammarico del poeta di cantare all’impronta “come i poeti antichi e grandi” espresso in una delle due poesie dedicate a suo padre, quello del “canto al volo, / che a me la sorte non ha dato, / ho solo alimentato passione / cercando nei versi consolazione”. Struggente è l’invocazione a suo padre: Pietro alimentami la fiamma / tu poeta vero, degno sardo”.
Della terza parte della raccolta scelgo Una ninna nanna pro appentu (per diverimento), dedicata al piccolo Alessandro e a tutti i bambini del mondo, in cui il poeta desidera di diventare anche lui come quel matto che con la testa dentro il sacco inventa favole su favole, per inventare fatt’in presse a poesia / una ninna pro appentu / bi la canto in s’apposentu / bi la fruscio in caminu / pane e casu e bonu ’inu (fatta in fretta in poesia / una ninna per divertimento / gliela canto in camera da letto / gliela fischio in cammino / pane e formaggio e buon vino).
Nella quarta sezione trovano luogo scambi di versi con poeti amici (in primis con il compaesano poeta Giovanni Fiori, autore anche di una notevole prefazione a questo libro; all’attrice Chiara Farina e alla sua madre poetessa Ziromina Piga Farina; con lo zio poeta “a lughe ’e luna” Baingio Masia; a Maria Carta.
Masia, introducendo la sezione, non nasconde un vivo rimpianto per un tempo ormai andato in cui «non c’era televisione, né telefono, né computer” e fra amici si era soliti scambiarsi lettere, cartoline e di frequente anche versi».
Antonio Maria Masia. Nato a Ittiri nel 1944, ha studiato a Sassari, è stato direttore in Banca Commerciale Italiana (ora Banca Intesa) nelle Filiali di Olbia, Frosinone, Pisa, Como, Pescara, Firenze e Roma. Ora vive nella Capitale. Dal 2010 è presidente del Circolo di Roma il “Gremio” e cura eventi e manifestazioni con al centro il tema della Sardegna, la sua cultura, gli artisti, il cinema, la musica, l’economia. Ha pubblicato, in italiano nel 1989, il libro di poesia I Silenzi di Pietra (Dominioni Ed., Como). Nel 2002 (Ed. Carlo Delfino, Sassari, il libro in lingua sarda Kadossène (pantofola degli Dei), un canto sulla storia della Sardegna, in ottava rima. Nel 2019 ha pubblicato Antiga limba. Poesias e meledos peri sas àndalas de sa vida (Nemapress ed.).