Allu nghianà di Luigi Ianzano

Recensione e scelta di poesie di Vincenzo Luciani

Consiglio di: non saltare la Nota introduttiva alla silloge Allu nghianà / Al risalire (Pietre vive, 2023) di Luigi Ianzano, dalla quale apprendiamo che l’apulo-garganico è la sua “lingua madre”, che l’autore ci chiede “lo sforzo di entrare nella lingua abitata dal poeta, piegata a sapiente veicolo di emozioni universali”, che la sua traduzione in lingua “è il più possibile coerente con i significati e le curvature semantiche propri della parlata d’origine (variante sammarchese)”, in cui si sono espressi poeti del calibro di Borazio e Tusiani, e che «tradursi non è solo trasferire parole e strutture ma rivivere l’atto creativo che ha ispirato l’originale, in un perfezionamento di scrittura, con inevitabili aggiunte o diminuzioni di senso» (Citazione da O. Ciurnelli, Lingue allo specchio. Poesia in dialetto e autotraduzione, Perugia, Ali&No 2019). 

Secondo consiglio fare una prima lettura, senza leggere, se non dopo la degustazione dei singoli testi delle sapienti didascalie da cui emerge il desiderio del poeta che nulla vada disperso del faticoso lavoro della sua officina letteraria, “la Puteca”.

Dalla mia prima lettura, con gioia e un certo orgoglio, ho constatato che tre delle 20 poesie di questo prezioso minuscolo libro sono apparse, inedite, sul nostro sito Poeti del parco (https://poetidelparco.it/luigi-ianzano-tre-poesie-inedite/) nel 2021. Sono “Peppijanne/svapando”, “Bbattematre/Stabat Mater” e “Sette bellezze/Bellezza piena”. Nella prima è mirabilmente descritta l’ars poetica di Ianzano, dalla messa a punto del pensiero ispirato, al tempo necessario per la lievitazione e la crescita della poesia e poi tutta la faticosa gestazione nella quale, indispensabilmente “ce vò l’arte e ce vò lu mestere”. Poesia, questa, che meriterebbe di essere letta dai troppi poeti “di getto” in circolazione, convinti invece che la poesia sia “l’arte di andare a capo / ogni tanto…” come ironizza l’amico poeta Roberto Pagan. Nella seconda poesia prorompe l’animo religioso di Ianzano che si scioglie in un canto (straordinaria la musicalità del testo) alla Mater dolorosa. Nella terza avvince lo stupore con cui il poeta si pone in ammirazione della bellezza e “stranezza” del creato (qui evidenziata dal ragno e dal fungo) concludendo con il verso “ssa bbellézza sàleva lu munne”. E qui ho colto un intrigante refuso perché, nelle didascalie, c’è un’indicazione errata (che io invece saluterei come una felix culpa), perché in luogo di “bbellézza” è indicata la parola “mupija: follia, fig. incoscienza, euforica intraprendenza” che a me convince di più per il senso di inspiegabile mistero che avvolge il creato che ci circonda e che invece il pio Luigi Ianzano ha corretto in “bbellézza”, rendendosi forse conto di avere osato troppo nell’attribuire questa “mupija/follia” al Creatore. 

“Amore de ferla/Sapore di ferula” giustamente introduce questa raccolta in cui si coniuga in svariati modi l’atto di “nghianà” che, nel titolo del libro non viene tradotto, ma solo indicato dall’immagine di una scala proiettata verso l’alto e opportunamente così spiegato in didascalia: “Nghianà: salire, elevarsi, aumentare (del prezzo), (fig.) salire in potenza; nghianà de llu zite: antico primo ingresso del fidanzato in casa dell’amata; truuàrece arrevate: (fig.) giungere agilmente, con solerzia, di buona lena; ngima: in cima” 

Con questa poesia inizia la raccolta e l’ascesa di Ianzano nel “Gargano segreto”, quello , tra gli altri, di Pasquale Soccio e, prima di lui, di Michelangelo Manicone, autore della “Fisica appula”: un Gargano conosciuto e amato, arrampicandosi, da chi sa che: Própia cqua ónna la pugghia ngrapina / nghiana l’amore e gghjie me tròue ngima (Proprio qui dove la piana va inerpicandosi / si intensificano i profumi ed io raggiungo le vette).

E l’ascesa non può che terminare, dopo un duro pellegrinare, metafora dell’infinita pena del vivere, nel santuario dell’Arcangelo Michele, dominato dalla scritta: Terribilis est locus iste («Com’è tremendo, come incute rispetto questo luogo!», Gen 28,17) che dà il nome all’ultima stupenda poesia della silloge in cui trovano espressioni nuove le emozioni stravolgenti degli antichi pellegrini, garganici e non, che sono racchiuse in questo canto popolare in cui mentre si ascende al sacro luogo  micaelico le pietre della via si trasformano in carne arrostita e l’acqua del mare diventa vino ghiacciato (li petre de la vie carne arrestuta / e l’acqua de lu mare vine annevate).

Segnalo la funambolica abilità nell’uso delle parole e del verso di Ianzano, specie nella poesia “Pàmbene/Fiocchi”, e la poesia “Sperte/Ramingo” che coglie l’insensatezza della “frenesia del vivere odierno fa errare, nel triplo senso di vagare, mendicare, sbagliare”, come giustamente annota Ianzano. 

E qui termino, con la speranza di avervi invogliato a leggere – che è poi lo scopo di una recensione – questo delizioso “allu nghianà”, pietre vive editore APS, 2023, euro 12.

PostRecensione

Una mia buona abitudine è quella di far leggere, prima della pubblicazione, le mie recensioni, specie quelle di opere di poeti in dialetto, nelle quali è più facile errare nelle citazioni. E quindi mi corre l’obbligo di accogliere la cortese precisazione di Luigi Ianzano che qui di seguito riporto.

“Ho riletto con più attenzione la recensione. In effetti, uno “strano” refuso mi era stato già annunciato ma mica avevo capito bene di cosa si trattasse… In pratica, la voce [8] del glossario di “Sfunestrate” è confluita in quello di “Sèttebbellìzze”… Mi chiedevo: visto che hai felicemente “valorizzato” il refuso, si potrebbe indicare anche la posizione corretta da attribuire alla voce [8] per una migliore comprensione del lettore, se non ti scoccia, altrimenti va benissimo anche così”. 

 

AMORE DE FERLA 

Prèta pe pprèta cogghie e annette frasche 

pe ssi sespónde me recogghie e vòsche 

mmerse e pendune nghiane me ngaforchie 

stocche dui cippe ficche flebbe e nzurchie 

fine e me scchine refrisccate e ruscie 

 

Nnanze pe nnanze sfrónne e scanze fruscie 

mbétte ce chiatra si ffavedde mbizze 

scanze e lli sonne tutte ssi bbellizze 

 

Cra, terra mija, t’arrìja nijà

ónna m’arrìja puté ma’ ngemà? 

Própia cqua ónna la pugghia ngrapina 

nghiana l’amore e gghjie me tròue ngima

 

SAPORE DI FERULA – Pietra dopo pietra colgo e mondo frasche / fra questi sostegni mi rioriento e boschi / pendii e fondi pietrosi risalgo mi rintano / spezzo qualche stecco lo inietto a mo’ di flebo e dormo / con goduria e pienamente godo ritemprato e roseo  // Passo dopo passo sfrondo e scosto fogliame / il cuore si raggela se torno all’italiano / se rimuovo poi rimpiango tanta bellezza  // Domani, terra mia, dovessi osare rinnegarti / a quali lidi mai potrei aggrapparmi? / Proprio qui dove la piana va inerpicandosi / si intensificano i profumi ed io raggiungo le vette 

 

 

TERRÌBBELE È STU LOCHE 

Me tròue arrète cqua la mana mbóssa 

inde la prèta cava e ll’acqua mossa

me ségna mbrónda e ggià ce scchina l’ànema 

la scurda appassuleja ma refréscca

lu vracce cala mbétte e ggià m’amméscca 

 

A pòche a pòche abbèle lu parlà

e me chembónne e fa’ pe rrihjatà

te venne a mende scurda e capadàvete 

la cénnera pusata a cera vascia

me scjata ché lla vita è tterra róscia 

 

Dui cinge nde na bbórzsa gnummeduta 

pane e curtédde e sccame de patuta 

na ferla pe bbastone e appenne l’òcchiera 

chiandata jèva vérda maffijosa

mo vvóssa nzalanuta e nón ge pòsa 

 

Terrìbbele è stu loche e porta ngima 

córie accrettate e sciore de calima 

sbrevógna chi sfreffódda e nón ge ngólepa 

perdona e alleggeriscie quanne ascigne 

e uascje l’arche e a làcreme te signe

 

Venócchie sfatte e ll’ùtema fatìja 

rómbe li crine e manghe jè bbuscìja

e tórne all’acqua e doi cambane ndòcchene 

cu ffurnescìja mbétte e ddò me spicce 

cu nn’atu ségne cu ll’ùteme squicce 

 

TREMENDO È QUESTO LUOGO – Mi ritrovo di nuovo qui la mano intinta /  nella pietra cava e l’acqua smossa / mi segna la fronte e già si delizia l’anima / il buio incupisce ma riporta freschezza / il braccio cala sul petto e già mi prende // Gradualmente soffoco le parole / e mi racconcio e nell’atto di riprendere fiato / riaffiorano alla mente oscurità e salite scoscese / la cenere posata sul capo chino / mi bisbiglia che la vita è terreno argilloso // Due stracci in uno zaino umido / pane senza companatico e gemiti di patimento / una ferula per bastone che con rammarico rivedo / radicata al suolo spavaldamente rigogliosa / ora sospinge stordita e non ha posa // Tremendo è questo luogo e richiama su / pelli aggrinzite e fior fiore di vitalità / umilia chi eccede e non si incolpa / perdona e allevia quando lo discendi / e baci la soglia e a lacrime ti segni // Ginocchio sfinito e l’ultima fatica / spezza la schiena e manco questa è bugia / e torno all’acqua e due campane rintoccano / con giubilo nel petto e qui mi libero / con un altro segno con un ultimo schizzo 

 

Luigi Ianzano è nato (1975) e vive sul Gargano. Formazione classica, giuridica, pedagogica. Docente specializzato nel secondo ciclo, coniuge e padre di tre figli, animatore. Dopo un romanzo e plaquette di versi giovanili, torna alla lingua madre di primo latte con Taranda mannannera (2005), Come ce mbizza la cèreva (2007), Spija nGele (2016), Allu nghianà (2023). Cura la silloge Fòchera mbétte mestecate, mosaico di versi di autori vari sulla Passione (2011) e la raccolta postuma di tutte le poesie di Pasquale Bonfitto, Perdonami se parlo di Te (2019). Promuove il sodalizio La Putèca fra creativi nella lingua nativa, officina letteraria tesa alla valorizzazione della cultura linguistica locale (2011). Versi e contributi compaiono in varie antologie e riviste, tra cui «incroci» e «Studi medievali e moderni». La trascrizione fonetica del dialetto si conforma alla proposta di normalizzazione grafica biunivoca offerta da Francesco Granatiero, Scrivo la mia lingua locale. Manuale di grafia unitaria del Centro-Meridione, Cofine, Roma 2021 > blog Poesia e dialetti.

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