Se me ricordo vol dir che ghe son (Se mi ricordo vuol dire che ci sono)
Il poeta triestino Roberto Pagan, dopo aver pubblicato numerose raccolte in lingua, in Alighe (Alghe) sceglie il dialetto e fin dall’inizio, nella poesia Dialetica del dialeto (Dialettica del dialetto), ci introduce nella trama del suo racconto: Se po’ quel che conto ga i verbi / più che altro al passato, protesté co’ l’anagrafe. I veci / se sa ch’i camina la testa voltata de drio (Se poi quello che racconto ha i verbi / soprattutto al passato, prendetevela con l’anagrafe. I vecchi / si sa che camminano con la testa girata all’indietro). È quindi il mondo dei ricordi quello che con il dialetto Pagan va a suonare in una tastiera con pochi bemol e che no ’l ga figure retoriche nel cassettin, se le ’l ga / no le capissi (non ha figure retoriche nel cassetto, se ce l’ha / non se ne accorge), perché el parlato non va pe’l sutil, inoltre el mus no sa corer / come un caval (l’oralità non va per il sottile… l’asino non sa correre / come un cavallo).
Si può pensare che la scelta del dialetto scaturisca dal bisogno di appartarsi rispetto alla tradizione letteraria in lingua, in quanto strumento espressivo più adatto a cogliere con la sua musica il soffio della bora fin su la cuna dove che nassi sto mondo de piera e de mar (fin sulla culla dove nasce questo mondo / di pietra e di mare), più adatto a raccontare frammenti di vita, a ricordare particolari atmosfere di Trieste. Pagan recita, inoltre, nella lirica Robinson: Se po’ me meto a pensarme in dialeto… / paura me vien de i fantasmi / che no i se dismissii nel scuro / nel fondo de mi (se poi mi metto a pensarmi in dialetto… / mi viene la paura dei fantasmi / che non si risveglino nel buio / nel fondo di me).
Il racconto sembra seguire l’ondulata e imprevedibile flessuosità delle àlighe, quelle che in Baleto (Balletto), la lirica d’apertura, sono descritte negli aspetti più vari, docilmente impotenti nel loro abbandonarsi al movimento della corrente, così come i ricordi, che sgorgano in associazioni di pensiero e procedono per analogiche relazioni, lontane dall’ordine di una memoria ragionata. Baleto è una lirica composta di sestine di senari che si inseguono con il ritmo incalzante e al tempo stesso melodioso tipico dei versi brevi, in un susseguirsi di similitudini e di anafore. Ma poi lo spartito ha bisogno di un’altra musica con cui rimodulare temi già impliciti nella metafora delle alghe e così ricordi e riflessioni si dipanano in una poesia quasi prosastica, con il ritmo giusto per ritrovare e rivivere colori, atmosfere, rumori del passato.
Le alghe, come piccole dame, senti i sui brividi… / stanno sulle spine / se viene el rimbombo / del fondo del mar (sentono i brividi… / stanno sulle spine / se viene il rimbombo / dal fondo del mar) e sono come le sillabe / de un alfabeto / nissuna ga senso / le pol far miracoli / co’ le xe insieme (come le sillabe / di un alfabeto / da sola nessuna ha un senso / possono fare miracoli / quando sono insieme).
Ma in questo movimento di alghe-ricordi si può esser tentati di chiudere il lucchetto della cantina in cui sono stipati gli oggetti-idee più disparati a esprimere la complessità del vivere, il caotico e inestricabile coesistere di ricordi, tabù, s-cienze de sogni imbalsamai (schegge di sogni imbalsamati), perché non c’è psicanalisi capace di sciogliere nodi, di cogliere relazioni; nemmeno con la varechina o la fiamma ossidrica si potrebbe mettere ordine nell’inestricabile disordine delle nostra cantina. Altre volte l’Autore si perde, invece, nella ricerca della serratura o di una chiave per recuperare un fotogramma, un’immagine. E tutto perché un se ricorda per saver de essere stà (uno si ricorda per saper che è esistito) o, se si preferisce, se me ricordo / vol dir che ghe son (se mi ricordo / vuol dire che ci sono); ecco quindi il “principio primo” che cartesianamente genera il filo inseguito da Pagan nelle poesie di questa raccolta.
Nei lunghi versi delle liriche il tono è colloquiale e il racconto a volte è costruito con veri e propri dialoghi. L’Autore coinvolge spesso il lettore; ma il “tu”, così presente in tutta la raccolta, è piuttosto un “tu – io” e la poesia sgorga per cullare le proprie memorie, per svelare disinganni, nostalgie, quasi borbottando tra sé e sé.
Si compongono in questo modo quadri in cui è spesso raffigurata Trieste, una città oggi diversa da quella custodita nella memoria del poeta, da quella in cui Pagan, giovane promessa della poesia del Novecento, ha vissuto esperienze culturali e poetiche che hanno lasciato su di lui un segno profondo. Non manca di velarsi di amarezza la percezione dell’estraneità passando nelle piazze, nelle vie e non manca il graffio dell’oblio, per lui che ha conosciuto Umberto Saba, Giani Stuparich e Anita Pittoni, Virgilio Giotti, il mileu di una città di frontiera in un tempo di grande vitalità poetica e culturale.
Non è Pagan il laudator temporis acti, la sua poesia esprime piuttosto la nostalgia di chi coglie nello scorrere del tempo imperfette metamorfosi o piuttosto lo scarto tra illusione e realtà, tra essere e memoria. Nostalgia non è rimpianto, ma nòstos e algos, ritorno e dolore, desiderio malinconico di ritrovare e di ritrovarsi, a volte anche feriti dal tradimento di un amore, sempre vivo e mai dimenticato, l’amore per Trieste che non manca di ricordare quello di Umberto Saba per le vie, i colori, la grazia scontrosa, la brulicante umanità, la calda vita della città.
In una prosa (Trieste la diversa – Divagazioni e ricordi di un transfuga) Pagan così parla della sua città: Chi percorra la costiera a picco sull’Adriatico che da Duino porta verso Trieste, con l’azzurro del mare sulla destra e la roccia del Carso che preme sulla sinistra, mentre all’orizzonte si profila il dado zuccherino del Castello di Miramare… avverte, anche fisicamente, che quello che si avvicina è un mondo diverso. E diversa è Trieste, fisicamente, ancora oggi, con le sue architetture un po’ grigie, così borghesi e ottocentesche, tanto lontane dai colori pastello delle città venete ariose e ridenti, più simile se mai a una Graz o a una Zagabria.
In Àlighe non mancano scorci di Trieste: le casete pice rococò / zalete e verduline le se strenzeva contente / l’una su l’altra tute co’ la su’crestina / de copi che pareva nova inamidata e i speci / rideva fasendose la vecia tra de lori (le piccole case rococò / verdi o gialline si stringevano allegre / l’una accanto all’altra, tutte con la loro crestina / di tegole, che sembrava appena inamidata, e gli specchi / ridevano facendosi tra di loro il luminello). L’Autore ricorda il particolare “colore” anche di altri luoghi; vivace appare la descrizione della grande pescheria di Santa Maria del Guato in cui il variegato mondo dei pesci morti sembrava essere specchio della società: orate e branzini da un lato e minutaglia dall’altro, un po’ come nobiltà e plebaglia.
Sullo sfondo di piazze e vie si scopre anche l’umanità della città. Sono figure a volte appena accennate e tuttavia cariche di storia e di memoria: il Virgilio dello squero, autorevole, saggio, con la sua indiscussa esperienza, la vecchia nonnetta che passava al piccolo Pagan i cioccolatini attraverso la lamiera che divideva due balconi, Beo l’ubriacone e poi il maestro che no iera tanto fassista, ma che finì per odiare gli inglesi quando seppe che mangiavano sei volte al giorno. Oppure le chiacchiere delle signore che si riunivano per le feste a cucire interminabili pettegolezzi in un crescendo di voci imborezade (eccitate), di cui non resta ormai più nulla.
Ma nella città, nei luoghi in cui in apparenza niente sembra cambiato, al poeta, immerso in una malinconica solitudine, non resta che la sensazione di estraneità: se vedi, ne l’aria, nissuno no conosso, nissuno che me guardi (si vede, nell’aria, non conosco nessuno / nessuno che mi guardi), de sto mona / nissun ga savesto, no i sa gnanca che esisto (di questo stupido / nessuno ha saputo nulla, non sanno nemmeno che esisto).
Discreta appare la memoria degli affetti. Nella poesia La barcheta c’è il ricordo di un amore nato in un giardino, quando erano gli occhi a fare il più e le illusioni erano capaci di dare l’anima a una piccola barchetta di carta; poi ne L’onta la madre, colta sullo sfondo delle guerre, combattute per insondabili ragioni; in Ciaroscuro (Chiaroscuro) il fratello morto e, insieme, le paure dell’infanzia e il tema della morte, appena accennata, ma percepita come pace e tranquillità.
In alcune liriche l’attenzione di Pagan si posa sugli animali, di cui coglie minuziosamente gesti e posture; sono favole moderne, realistiche e insieme “figura” di modi d’essere da cui emerge, suggerita con grande pacatezza, un’amara filosofia. In Pegore e mussi (Pecore e ciuchi) c’è il cor neto (cuore pulito) di pecore rassegnate a prender bastonate o la furbizia dell’asino, che per anni è capace di subire legnate in silenzio, ma poi el se mpena / se te lo sponzi e el se indurissi tuto / zate e cul (si impenna / se lo stuzzichi e allora si irrigidisce tutto / zampe e culo), così come dovrebbe essere per gli uomini. E gli elefanti, che tornano a morire dove sono nati, esprimono lo spaesamento per tutto ciò che è mutato nei luoghi della loro origine, in cui sanno, tuttavia, mantenere lo spirito del branco; e lo spaesamento è anche nel nòstos che Pagan compie nello spazio della memoria. Ma anche qui una morale amara: se gli elefanti, al di là dello strazio per ciò che è perduto, muoiono insieme, legati gli uni agli altri, noialtri nel branco vivemo… tacati ale liane / de l’egoismo. E co’ xe el momento, morimo / ma soli (noi nel branco viviamo… attaccati alle liane / dell’egoismo. E quando viene il momento, moriamo sì / ma da soli). Colpisce il realismo e la cura nella descrizione di ambienti, di animali che con grande plasticità vanno a comporre quadri, a volte disegnati quasi con un senso di horror vacui, la cui “didascalia”, asciutta e sobria, mai scivola nella retorica di una morale scontata.
Nelle poesie che compongono la raccolta Àlighe tutto riporta al quadro iniziale disegnato in Baleto, la lirica d’apertura: il movimento ondeggiante delle àlighe cattura il lettore, lo coinvolge in un racconto intenso, venato di malinconia, che solo in apparenza sembra trattare argomenti minimi, quelli adatti al dialetto, una lingua che, anche se con ironia è vista come un mus (asino) che non sa correre come un cavallo, con la sua povera tastiera è tuttavia capace di raccontare penetrando nella profondità dell’essere, fino a toccare con leggerezza, oltre i ricordi, anche la dimensione teoretica di temi e problemi.
29 settembre 2011