ho infilato ogni filo creaturale nella mia cruna interiore
nascendo questo poema
A. M. Farabbi
Dopo aver letto Abse non ho resistito all’impulso di visitare Montelovesco, anche solo per calpestare l’erba dei prati, assaporare i colori, cogliere le atmosfere, con l’idea che avrei potuto respirare più a fondo la poesia di Anna Maria Farabbi. Mi sono risuonate, infatti, nella mente queste sue parole: «Sono nata a Perugia, ma la mia terra madre ha il nome di Montelovesco. L’ombellico: il suo cimitero. Entrando torno preistorica: nonna in quattro elementi. Mi apre, mi riduce bassissima, orizzontale, seme. Cioè viva e crescente.»
Montelovesco, a pochi chilometri da dove vivo, è un piccolo borgo immerso in una lontananza incolmabile in un lembo solitario e selvaggio dell’Appennino umbro, tra Umbertide e Gubbio. Sembra volersi nascondere al visitatore; la strada in salita è stretta e tortuosa e nell’ultimo tratto è ancora sterrata. Nel verde silenzioso della primavera, quasi per magia, sembrano trascorrere attorno i luoghi del tempo, del mondo, del corpo… quelli che Anna Maria fa vivere in Abse. Luoghi reali, luoghi trasfigurati nell’allegoria del racconto, sino a farsi onirici e visionari. Luoghi e persone, che come semi germogliano e come fili tessono la tela di un viaggio, che vuole compiersi anche come viaggio non verbale tra spazi e tempi. Il piccolo cimitero del paese, la bottega dell’acqua, la piazzetta davanti all’Eremo si (con)fondono con immagini di terre senza confini e senza villaggi, con i cieli dell’Africa, letti con la schiena appoggiata sulla stuoia, e, insieme, con luoghi di tragedie, come il Monastero tibetano di Sera, l’infernale striscia di Gaza, forse perché come una piazza è tutte le piazze…un cimitero è tutti i cimiteri. Dai luoghi della propria vita a quelli della storia, che la memoria accoglie interiormente come segno del dolore universale: tòpoi che nella poesia della Farabbi si caricano di pregnanti significanze. Quando, allontanandomi da Montelovesco, mi volto a guardare indietro, mi restano negli occhi due piccole colline affiancate, quasi gemelle: quella dei vivi e quella dei morti e allora sento ancor più che Abse, sorprendente per la compattezza, la ricchezza e l’originalità dell’architettura compositiva, ha in particolare la capacità di unire in una intensa coralità il canto individuale e quello collettivo, come in una grande tela in cui le trame del proprio essere e quelle di creature che hanno percorso le strade del mondo con noi e prima di noi si uniscono e si intrecciano tra di loro: nel tempo, i passi hanno lasciato strati di impronte come giacimenti di scritture inaudite. Un lungo viaggio della mente e nella mente, nelle suggestioni dei corpi e insieme degli spazi, cucendo frammenti della propria vita assieme a quelli di infinite creature: ho infilato ogni filo creaturale nella mia cruna interiore / nascendo questo poema.
La parola nella poesia di Anna Maria Farabbi si carica di impensate valenze semantiche e il significante si fa significato oltre la pura semanticità. È solo un piccolo pertugio la piccola cruna dell’ago? O rimanda anche al latino corōnam e quindi al dilatarsi della cruna sino a farsi concavità, accoglienza, capace di essere penetrata da parte a parte?
È nella ragione stessa del fare poesia il partecipare, al pari delle altre creature, all’essere, al divenire. Da qui la creaturalità, che si snoda in un ciclo continuo proprio della maternità e quindi femminile per eccellenza. Ricorda un antico principio di Anassagora: «ogni cosa è in ogni cosa» e «in ogni creatura l’universo è l’essere di quella stessa creatura», completa Nicola Cusano. Creaturale rimanda anche al pensiero di Aldo Capitini, che la Farabbi sembra più volte ricordare: so che il vento trasporta sostanze / anche l’invisibilità dei morti…; piedi hanno lasciato giacimenti di scritture inaudite… storie che ora viaggiano nel mio orecchio. Restiamo insieme, nel seme, ascoltiamoci.
Nel meditare interiormente la parola, nel ruminarla, Anna Maria esprime la forte tensione a superare i limiti della semanticità; come nel titolo della raccolta, Abse, parola dialettale che vuol dire ‘nulla’, ma che assume anche il significato di ‘lapis’ (abise), a sintetizzare in tal modo sia il prodigio della scrittura (dal nulla alla creazione), sia l’effimero disperdersi di un sottile segno di lapis. Abse, dal latino ‘absum’, è anche ‘absentia’, vuoto, lontananza, condizioni necessarie nella ricerca dell’Autrice per colmarsi di nuove pregnanti significanze e di sempre più ricche coralità.
Del viaggio narrato nel poema Anna Maria così dice: «ho attraversato l’abse, il nulla / nel nulla ho trovato un paese / nel paese sono entrata…» Un incipit che immette nell’atmosfera di una scrittura sapienziale, propria di storie arcaiche, che diventa ritmo del corpo, dello spazio, anche in una visionarietà onirica. Nella riflessione metapoetica l’Autrice rimanda a una concezione sacrale della scrittura. Quasi sacerdote sciamanico (Io guardo il fiato della poesia come le sciamane / che leggono i nidi e la pancia delle uccelle in volo), Anna Maria sa che la poesia «esige un continuo, incessante, intenso, approfondimento interiore tale da rendere necessario e urgente un ulteriore approfondimento sensoriale, tecnico, linguistico, espressivo. Questa pratica impone una sorta di sfondamento dell’io nella sensibilità, nell’accoglimento, nella recezione, nella conoscenza, nell’umiltà, in una continua dilatazione verso altro e l’altro, verso il creato e le creature». E anche in questo caso si scorge il filo che rimanda ad Aldo Capitini.
Le tappe del viaggio, in cui nomadismo e stanzialità si compenetrano quasi in una reciproca complementarietà, sono scandite nella Trama in un prima e un poi che sono nel tempo, ma si dilatano anche fuori dal tempo stesso. Il viaggio è rigenerazione, si torna da un nulla per nuove e più ricche esperienze, rivissute nello spirito dell’accoglienza e dell’umiltà. La forma del racconto è spesso diaristica, sia nella registrazione di eventi sia nella scansione delle dieci tappe del viaggio stesso: dalla prima porta, alla piazza, all’osteria del buio rosso, dalla scuola, sino all’ospizio femminile, al cimitero; undiario personale che si sfrangia in lembi di storia e di cronaca, in cui la narrazione ha gli ingredienti di antiche fiabe: le prove da superare, i guardiani, i maestri, i mostri, gli archetipi… Quasi figure dantesche. L’Autrice afferma: «Sono pronta, com’è giusto, a rispondere: delle mie scelte, della mia poiesis, interiore e pubblica. E a correggermi.»
Nella tessitura del racconto c’è il disegno del proprio vivere, l’eco gioiosa di filastrocche di un’infanzia colma di inconsapevoli attese (non so chi sia la bimba di là / ma il gioco esiste), di un’adolescente chiamata dalla poesia, (quando da cinina mè nuto adosso lvento), c’è lo scorrere di anzianitudini sofferte, quando accade che l’io esca dalla simmetria limpida delle tempie / dalla bellezza e dal canto… con il grano interiore inquinato sprofondato,c’è la morte, come quando i vecchi animali si allontanano / con il muso chiuso / permettendo ad altri di nascere. C’è, insomma, la vita che si declina nei suoi calendari interiori e cosmici e su tutto risuona un’eco che si scioglie in modulazioni di lontani passati, in figure archetipiche, in metamorfosi che hanno il sapore del mito, come l’atto del cucire con le dita e il nascere del filo dal corpo, il dilatarsi della biblioteca sino a fondersi negli elementi naturali o il rifiorire della scrivania di ciliegio. Ma, oltre a ciò, c’è anche la crudezza autistica di un presente distorto, dal profilo macabro e grottesco, dai toni cupi di un dipinto di Munch. Quella di Anna Maria Farabbi sa farsi poesia civile, lontana da tentazioni retoriche, a volte in un’asciutta scansione cronachistica, priva di ridondanze, ma proprio per questo più efficace nella sua essenzialità. I bambini di Dana, in Pakistan, il disegno della piccola Tereska, i piedi scalzi dei clandestini che camminano il mare. «Il sentimento creaturale con la sua suscettibilità di fronte alle pene e alle offese non è meno forte del giudizio e del senso storico dell’ingiustizia» (M. Luzi).
Anche in Abse, come in precedenti raccolte della Farabbi, domina la fisicità, la corporeità. L’elemento terra è fortemente presente; i piedi ne sanno cogliere sentimenti pulsanti, geologiche memorie, storie ancestrali e sembrano ripetere antichi riti pagani, come quello ricordato da Orazio in cui le amabili Grazie, insieme alle ninfe, nei riti propiziatori della primavera, alterno terram quatiunt pede, perché respirando dai talloni… i piedi sono in grado di leggere sotto il catrame il linguaggio organico…; scrivo ormai solo sui palmi dei miei piedi mentre ti cammino. C’è fisicità nella stessa scrittura: scrivo poesie in terra come i madonnari…; la poesia parla corpo a corpo…; la parola cade sul foglio come se rompessi un uovo…; la scrittura odora, emette suoni come se quei segni siano bordi di un bicchiere di cristallo.
Il poemetto Abse, come la raccolta Adlujè del 2003,è un prosimetro in cui si alternano con un equilibrio e cura compositiva poesie, prose poetiche, documenti, sezioni in lingua, sezioni in dialetto, così che il lettore trascorre dall’una all’altra parte in un continuum in cui ogni tassello è complementare e speculare rispetto all’altro. I testi in dialetto si inseriscono con leggerezza nella narrazione e le sonorità della poesia e delle prose si arricchiscono della morbida rasposità della terra tipica di certi dialetti umbri: Ldialetto ldiceva lmi babbo e lmi babbo / ce lò ncorpo // si fo cadé la lengua nterra / m’esce. (Il dialetto lo diceva il mio babbo e il mio babbo / ce l’ho in corpo // se faccio cadere la lingua in terra / mi esce). Nell’importante tappa del viaggio dedicata alla scuola non può che essere la lingua madre a raccontare l’incontro con lia – la poesia – da cui nasce un’indomabile possessione. Così come particolari memorie legate all’infanzia solo nel dialetto possono essere accolte.
Della personale cifra stilistica della Farabbi si può evidenziare la sintassi spezzata, incurante di regole; il ‘frangersi’ di versi che carica di sospensioni le liriche, l’uso discreto e mai gratuito di figure (ossimori, sinestesie), nella pacata trasgressione di norme e classiche strutture, in un procedere frequentemente analogico. Diceva acutamente il poeta Achille Serrao, riferendosi alla raccolta Adlujè: «in un pentagramma la Farabbi privilegerebbe diesis e bemolle, mai segni naturali… [che] sono la compostezza, la naturalità, sono grammatica e sintassi assestate».
Si è detto della corporeità e della fisicità come tratti distintivi della poesia di Anna Maria Farabbi. Ma in una dimensione che può a tratti apparire panteistica, in quale forma di mistica religiosità si colloca il suo percorso? Stefano Guglielmi ha parlato di neo paganesimo, Leandro Di Donato di metafisica dell’immanenza. È certo che non troveremo mai nei suoi versi e nelle sue prose verbose astrazioni, logiche dimostrazioni, sofismi o ideologiche discettazioni. Il suo credo non è giocato su dogmatiche verità, c’è sottesa una vibrante eresia come nel piccolo concerto per arpa eolica in cui in ogni angolo della rosa i venti soffiano mettendo a nudo la vacuità di liturgie, gli orpelli del potere, perversi moralismi e la ri-scrittura del Padre Nostro, tutta legata alla concretezza del vivere e del sentire, lontana da formali ipocrisie, si carica di sentito impegno morale e civile. È la concretezza dei gesti e dei fatti a rivelare nella sua nudità il vangelo della terra, un vangelo arcaico e primordiale che non pare estraneo alla spiritualità che permea di sé la nostra regione.
Chiudiamo questa breve nota con un testo in dialetto in cui ci pare di cogliere la semplicità e al tempo stesso l’intensità del misticismo insito nella corporeità della poesia di Anna Maria: I vo a scola da la terra / l’istete me ciadormento sopra per scoltà ncla schiena i semi e i morti // ch’enno la stessa cosa (Io vado a scuola dalla terra / l’estate mi ci addormento sopra / per ascoltare con la schiena / i semi e i morti // che sono la stessa cosa).
A. M. FARABBI, Abse, Rovigo, Il Ponte del Sale, 2013
Ombretta Ciurnelli
14 maggio 2013
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