61 –MARANO EQUO

 MARANO EQUO (773 abitanti, detti maranesi. A 450 m slm). Il suo territorio, uno dei meno estesi fra quelli della Provincia di Roma, è situato sulla via Sublacense. Il paese, che fu fondato probabilmente dagli Equi, è adagiato su una collina nella Valle dell’Aniene.

 
IL DIALETTO DI MARANO EQUO:
[Dall’intervento di Marco Occhigrossi al Convegno “Paesi del Medaniene: dialetti a confronto” del 20-21 febbraio 2010 ad Anticoli Corrado]
“(…) Paesi limitrofi come Riofreddo ed Arsoli, Anticoli Corrado e Roviano, Marano Equo ed Agosta o Mandela e Cineto, presentano differenze linguistiche abbastanza accentuate. Il fenomeno diventa più interessante quando si prendono in considerazione i dialetti dei paesi situati nelle due sponde del fiume. Importanti casi di specie emergono nei dialetti di Anticoli e Roviano, Marano ed Agosta, Sambuci e Cineto, Cervara e Cerreto o Rocca Canterano ma anche in altri paesi. Segno che il fiume ha costituito una barriera. Il caso più emblematico lo troviamo nella parola ‘bambino’, che in tutti i paesi del versante di sinistra, quelli che vanno da Affile a Saracinesco, si traduce in dialetto varzittu mentre in tutti quelli di destra jattareglio o chiattareglio. Ma vi sono altre parole che confermano il fenomeno. Inoltre il versante di sinistra molto più dedito alla pastorizia, presenta anche numerose famiglie con lo stesso cognome. Segno, forse, di una maggiore frequentazione tra le popolazioni. Tuttavia il linguaggio rimane abbastanza uniforme per tutti paesi del territorio Medaniene. La grande maggioranza delle parole dialettali sono infatti comuni a tutti, specie quelle di origine latina (pescolla, canfolla, ramora, munnuru, maddemà, emà, stramaru, vertecchia, facioglio, ecc. . .) anche se presentano alcune piccole variazioni lessicali; così si può dire di altre di etimo incerto (abbotà, abbelà, rabbelà, enece, verole, muccu, ecc.). Vi sono poi parole di tipo onomatopeico che sono pressoché comuni a tutti i paesi, come ad esempio le parole trettecà, strecà, sdellazzà, ecc.
Oggi il nostro ben amato dialetto, purtroppo, sta scomparendo in una realtà sempre più cosmopolita e globalizzata. E ciò mi rattrista perché mi sento parte di esso. Io sono un prodotto locale nato e cresciuto fino all’età della ragione in questa terra: sono un terrone, come direbbe Ignazio Silone, e mi diletto a scrivere nel gergo del mio paese da molto tempo. Non ho seguito l’evoluzione del dialetto nel dopoguerra, anzi ho voluto rimanere legato al vecchio dialetto, quello della civiltà contadina della prima metà del Novecento. E tutto ciò che ho scritto ha lo scopo preciso di salvare e fotografare quel particolare periodo storico che dalla fine della seconda guerra mondiale va fino agli inizi degli anni sessanta. Da qui si può dire che comincia il declino di quella eroica civiltà, perché da qui comincia l’urbanesimo e la grande industrializzazione: spariscono i carretti, gli aratri, con la complessa nomenclatura delle parti che li compongono, tutte rigorosamente di origine latina (ura, cippu, vincu, chiatru, uvu, umera, zoveglio), spariscono gli animali da lavoro e con essi i basti, i bigonci, le trite del grano ecc.; l’agricoltura scompare per far posto al terziario e con essa scompare tutto il fascino del linguaggio dialettale contadino. Nasce un nuovo dialetto che si confonde sempre di più con il provincialismo becero dell’hinterland romano. Mi auguro che i giovani non abbandonino il dialetto dei loro padri e che rimangano invece legati alle loro radici. Come è strano il mondo! Oggi cerchiamo di recuperare ciò che volevano farci dimenticare.
Ricordo che da bambini alle scuole elementari venivamo bacchettati sulle mani dalla maestra quando parlavamo in dialetto. “Non dovete parlare in dialetto, qui si parla italiano, avete capito?”. Diceva la maestra. Noi rispondevamo in coro: “Sine”. E subito ribadiva: “Si dice sì e no, e non sine e none. Dite più sine e none?”. Noi all’unisono e compatti, sicuri di stare nel giusto e di essere italiani rispondevamo: “None!”. Perché quel dialetto era nostro, era la nostra lingua, quella stessa che si parlava in famiglia e che sentivamo da sempre, in paese, nei campi, nelle bettole e, persino, in chiesa, nelle confessioni. Poi più tardi viene l’incontro con Roma, l’impatto con la realtà della metropoli e il grande cambiamento non certo facile né veloce. Un mondo diverso, difficile da comprendere. Un altro mondo, con linguaggio diverso, tanto che non potevo darmi pace quando seppi che la parola “muccu”, viso, volto, faccia, parola usatissima in famiglia, ripetuta centinaia di volte in una giornata (lavate ju muccu, muccu zuzzu, muccu bruttu, te rompo ju muccu, ecc.) non era una parola italiana ma una parola dialettale, esclusiva di questa zona e per di più di incerta provenienza. Che delusione!
 
  1. I vocabolari e le grammatiche
Il libro Marano Equo di Marco Occhigrossi e Cesare Panepuccia, edito nel 1990, è una piccola enciclopedia maranese, sull’ambiente naturale, sulla storia del paese e dei suoi monumenti, sul nome di Marano e sul suo dialetto (pp. 96-112). Dopo aver inquadrato il dialetto maranese nel contesto storico dei dialetti dell’area e averne sottolineato gli influssi degli Umbri, degli Equi e dei Latini nonché Longobardi e Saraceni, Occhigrossi svolge una sintetica analisi di alcuni elementi chiave del dialetto locale tra i quali: le vocali che prediligono l’accento acuto: céro (cielo), séro (siero), réto (dietro), fóco (fuoco); le consonanti b e v che si sostituiscono facilmente l’una con l’altra: vuttuni, votte, vatte, abbotà,
abballe abbià (bottoni, bòtte, battere, avvoltare, a valle, avviare); la vocale iniziale seguita dalle consonanti m ed n che spesso si perde: nzalata, nvipiritu, mpunitu, mbreglio, ncenzo, nfirucitu, nfizzione (insalata, inviperito, impunito, ombrello, incenso, inferocito, infezione); molte consonanti, specie iniziali ma anche interne che vengono generalmente raddoppiate: rraganu, mmugli, simmula, cennere, uzziusu, ienniru (ramarro, molle, semola, cenere, ozioso, genero); l’uso (molto raro ormai) del termine superlativo tamantu, tamanta (dalla radice latina tam, tanto): tamanti figli, tamanta pianta (tanto bei figli, tanto bella o grande pianta). L’autore fornisce poi un elenco delle parole più interessanti, indicandone anche l’etimologia per dimostrarne l’ancoraggio alla loro antica origine, perché “in fondo parliamo lo stesso linguaggio dei nostri avi con la semplicità con la quale calchiamo la medesima terra”.
Ed ecco una scelta dei vocaboli:
abburità (avvolgere), àccuri (funi legate agli arcioni del basto per sorreggere il carico), affocià (rimboccarsi maniche e pantaloni), aiuccà (verso del cane o del lupo), ammattuccià (comporre un mazzo), amméro (attrezzo di legno a cui si appende il maiale), assorà, assorasse (prendere moglie), attengà (litigare), azzeccà (salire), bardàscia (giovinetta), bàrzu (legaccio dei covoni), cama (pula del grano), canfólla (rametto con foglie e frutta), càngana (anello di ferro o di legno per legare le funi del basto), cànnua (canapa), càpitu, càpiti (potatura dei vitigni, il tralcio reciso della vite), caùtu (buco sotto le porte per permettere il passaggio di gatti e galline), cécuru (foruncolo), cespa (grappolo di uva), chiàtru (zeppa che stringe la bure dell’aratro al ceppo), ciammarùca (chiocciola), ciammétta (bastone ricurvo per appoggiarsi), cinìcu (piccolissima parte di una qualche cosa,), cippu (base lignea dell’aratro su cui viene innestato il vomere), covàcchia (bastone con terminale a coda per guidare l’aratro), ecco (qui), écene (nidiandolo), émete (il punto limite di un’altura in un terreno), facióglio (uomo del frantoio), fièce (posatura del vino), fiottecà (piangere a singhiozzi), fùrculu (o parmu, unità di misura costituita dall’apertura del pollice con l’indice di circa 30 cm), ioppetta (giacchetta), lapià (darsi da fare, o, nella forma passiva essere conteso: me sse stau a lapià: sono contesa da molti ragazzi), lincèstra (lucertola), mammóccia (grande pupazza di carta che si faceva ballare nelle feste paesane e che poi veniva bruciata per propiziare un raccolto abbondante), manócchio, manocchiàra (covone di grano, insieme di covoni), merco (segno distintivo che si faceva sulle pecore o altri animali), mocóre (leggero e indefinito sapore cattivo, specie riferito al vino), patùgliu (luogo dove dormono le galline), pìnnura (puntale del fuso), potra (feccia dell’olio), pustéma (peso, in senso figurato), quacqualina (lucciola), racciàcaru (grappolo di uva acerba), ràmura (gramola. Strumento ligneo che serviva per separare le fibre dalla canapa), rappenneru (tralcio d’uva anche da conservare), rosta (piccolo spazio pianeggiante su cui si arrostiscono le castagne bruciando felci secche), rumella (polso della mano), scétto (fosso artificiale per incanalare l’acqua per innaffiare), sciarcenàtu (pover’uomo, tribolato), scioccaréglio (busto delle donne fatto di panno pesante e stecche che stringeva i fianchi per mezzo di lacci), stinniricà (stendere), sdellazzà (sbattere di liquidi in recipienti), tea (stalla), ura (bure, stanga incastrata al ceppo dell’aratro), vincu (paletto ligneo che unisce il ceppo dell’aratro alla bure e che permette di dare più o meno terra al vomere, rimuovendo la zeppa che lo blocca alla bure), zova, zovéglio (attrezzo di pelle d’asino o di bue disseccata, formato da due cerchi concatenati per sorreggere e trascinare l’aratro).
 
  1. I proverbi e i modi di dire
Da Léngua méa di Biagio Maturilli proverbi di Marano Equo:
Chi tè torto è meglio ’e se ficca la lengua ’n curu; chi ’n tè gnente da fa’ se mette a pelà sùrici; è meglio ’na spinatora senza sagne che ’na femmena senza zinne; la crapa partorisce e gliu zappu strilla agliu curu; la patàna non è pane, ma chi la tè ’n se mòre ’e fame; la serpe se revòta contro iu cialematore (ciurmatore); pure le fratti téu le recchie.
E modi di dire: addà cìsima! (che seccante); i’ furùni furùni (di soppiatto); batte le gnàccure! (avere freddo); dì ’e tòcca! (digli che cammini);   parlà ’n gèrgamu! (con sottintesi); quanno che fobbe! (fu); sacciomùti ch’è     succésso! (non so che cosa è successo); dàgli a raduè! (senza pietà); tocco lòco! (non toccare); colocciapelò! (è finita, tutto è perduto); a curu mpuzùni (prendere la posizione dei quadrupedi); addà lecramànte! (che tipo); addà sorrécchia! (che lingua).
 
3. I toponimi e i soprannomi
Nella raccolta in dialetto di Marano EquoVicinu agliu camminu di Marco Occhigrossi nella poesia “La pricissione delle Cese”, sono incolonnati, come in processione ben 300 soprannomi maranesi. Eccone una spigolatura tra quelli più curiosi: Biastimella, Bisceculu, Cacagniru, Cacavatti, Carraccione, Littirucciu, Mangiaddorme, Maramau, Minnazzu, Nipinicchiu, Pappardella, Perdicioce, Poponero, Pucicchiu, Scammardella, Tirapelle, Ttirilì, Zirulittu, Zizittu.
In “Monte Rofo”da Divérsi vérsi spérsi… sono amorevolmente nominati, senza trascurarne alcuno, i toponimi delle località principali dei Monti Ruffi, osservate da Marano Equo: da monte Rofo a monte Cerasolo, alla Rocchetta, monte Scrima e Costa Sole, la pianura della Rotommella, gliu Merro, pratu Maranu, le Prata, Valle Signore, i Mandrilli, monte Galluccio, Forca Trivella, monte Croce, monte Macchia, Panecagliu, i monti Rutunnu, Licinu, i fossati degli Calcinari, degliu Fiojo, Mezzarecchia, Mazzamorra, degli Scandriglisi, ’elle Fajeta, agliu ’Ttavone, della Pezzampeone, Cona.
Dall’elenco di 193 soprannomi contenuti in Piccola Voce di B. Maturilli citiamo:
Cipènne, Coccotàu, Fraffrusu, Mangiaddormi, Scasciatu, Sfrosciatu, Trippacotta.
 
4. Canti – filastrocche-indovinelli – giochi – gastronomia – feste&sagre-altro
Feste e sagre. Festa patronale di San Biagio (3 febbraio; degustazione di ciambelle all’anice), Festa della Madonna della Quercia (4-5 agosto; processione notturna dal Santuario al paese. La prima domenica di settembre la statua della Madonna è ricondotta al Santuario). Sagra del fagiolo maranese (ultima domenica di agosto; degustazione in piazza). Sagra delle sagne con i gamberi di fiume (agosto).
Tradizioni e usanze – Fila conocchia: – l’immagine delle filatrici con conocchia un tempo era una visione consueta a Marano (ma anche negli altri comuni della Valle dell’Aniene). In “Fila Conocchia” tratta dalla sua raccolta Divérsi, vérsi spersi Marco Occhigrossi così la descrive intrecciandola alla trama della vita:
Fila conocchia mea / fila la vita / non comme si ficea / tempo, ’na vota / quanno le mali “Parche” / senza paura, / manneanu alla morte / ogni creatura. / Fila bbene, conocchia, / tira lo filu / fa girà la vertecchia / p’abbotà’ju fusu; / la pinnura fa corre / co’gliu ditone / p’attorce lo filatu / degliu mallone. / Non fa mancà la cannua, / fatte ’na scorta, / mittila alla suffitta / perché non scorta. / Fa ramurà alla vecchia / lo cannajcciu / pe’ striturà la tecchia / degliu cannucciu. / Fila conocchia, fila / a tutte l’ore; / gira vertecchia, gira / senza timore; / non fa stoccà ju stame / dello picciu, / abburritaju bbene / senza fa npicciu / e non taglià la trama / degli’urditu, / senno’, conocchia mea, / io so finitu.
 
4.1 Canti
 
4.2 Filastrocche, indovinelli, invocazioni, scongiuri
4.3 I giochi
Marco Occhigrossi in Camminenno pe’ Maranu rievoca i giochi di una volta che si facevano in piazza:
Allora curr’a ff’a ccavagliu lungu, / po’, trafelatu e colle spalli rosce / te mitt’a corre comme fussi ciungu / pé ff’a padre Gerolamu che esce, // … po’ aci, po’ fa tingolo de ’n trattu / perché si vvistu ret’agliu licinu, / un aru comme tte, che guattu guattu, / te sta pe’ fatte tingolo vicinu.
Sempre di Occhigrossi, dalla raccolta Vicinu agliu camminu segnaliamo anche la bella poesia “Tingolo” il gioco del nascondino, detto anche nasconnaréglio, che conserva l’etimo latino “tangere”: raggiungere, toccare. Al gioco è legato anche il termine “aci”: chiudi gli occhi e conta”, dal verbo latino “agere”: agire.
Tingolo – Chi ace? – Giuvanninu! / de reto agliu licinu. / Nuj, jamoci’a nnasconne / pe n’ facce retrovane. / – Curri, vé agliu stirigliu / de sotto agliu murigliu. / E’ ’gnunu corre lesto / pe accaparrass’ju posto. / Po, non se sente gnente / e se trattè ju fiatu. / – Giuvanni, ha già contatu / e st’a cercà la gente! / E corre, gira, varda; / va reto agli fascini, / po sott’agli scalini: / se ferma, … se recorda, / va ritt’agliu stirigliu, / traento agliu patugliu / stau tutti ncucugliati. / Me paranu sordati / ch’au fattu prigionieri: / so deventati seri / e nvece, è solo ’n gioco, / un gioco de varzitti / che fa contenti tutti, / co gnente o propriu poco.
 
4.4 La gastronomia
La cucina, ancora nei primi anni cinquanta, era il centro della casa contadina. Così la descrive in Vicinu agliu camminu Marco Occhigrossi:
Un canistrigliu culimu ’e patane, / vicin’alla credenza dello pane. / Più loco, già ammannita pella sera / la cutturella colla lavatura, / più sopre ju lavandinu colla conca, / a fiancu ’na seretta pien’e prunca. / A n’ chiovo, tuttu storto e arruzzinitu / ce st’appiccatu un trepele scenciatu. / J’attaccampicci colle tecamelle / e, a ’n ganciu, ’n par’e fiette de cipolle. / ’Nara credenza apposta pegli piatti / co ’na nzalatierucci’e cici cotti. / A ’n’angulitt’ju furnu pello pane, / ’na canestrell’e sturzi pe appicciane, / du lena secche pe sfiammà ju foco / quanno fa fridd’e tte rescalla poco. / De sopre agliu camminu, sparpagliati, / du teche de fasori appena coti, / ’na cannilicchia della cannelora, / ’na tazza, un macininu, ’na cucchiara. / De sotto, ju ganciu della cutturella, / un vecchio spitarojo e’na ratella, / le mmugli, la raticola, ju suffittu, / una paletta storta e ’n trippiucciu. / Reto la porta, un bravu mazz’e chiavi / co ’na frocetta rotta degli bovi. / Un tavulinu, ’n meso, de castagna / do ce sse gioc’a carti e ce sse magna, / che già st’apparecchiatu pella cena / sott’allo lume della lampadina.
 
Mangiare fino a sentirsi ’mparadisu cogli santi era il desiderio supremo dei contadini, il cui cibo quotidiano era razionato. E la festa si risolveva in una pappata come quella descritta da Occhigrossi in “Propriu ce volea” (Divérsi vérsi spérsi):
Me nne so fatta’na ncangaglia ntèra / ’na trippa de zazicchi’affumicate, / de cannuricchi, mezza nzalatèra, / du piozze de pulenna rescallate, / du piatti de fasori ben ogliati, / du fila ’e beverini rinzicchiti, / un piatt’e brucculitti repassati / e ’n par’e sanguinacci abbrusculiti. / Du vaca e nuci secche e ’n mucchi ’e nocchie, / otto picchier ’e vinu e ’n cognacchinu. / Me sento che mme stau a fischià le recchie, (…) me sento ’n paradisu cogli santi / un munnu novo che non conoscea / ddo’ tutti stau alegri e so conténti.
 
5. I testi in prosa: il teatro, i racconti
In Piccola voce di Biagio Maturilli sono incluse 4 commedie brevi (3 in dialetto di Marano Equo ed una in lingua): “I tre compari”, “Le commari”, “Iu guardianu della salute”, “Strana pazzia”. Due commedie brevi di Maturilli completano il suo Léngua méa: “Una nuvola in famiglia”, prende spunto dall’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl e “Mbè! Cuscì non va bè” si scaglia contro la violenza nei confronti delle cose pubbliche e del degrado dell’ambiente.
Un piccolo brano dalla comedia “Le commari”, in Piccola voce:
Rosa – Vidi, commà, iu proverbiu dice: ognunu all’arte sea e… i maestri lo sau issi comme adàuta fa’ e che hau da valutà! Prima se valutéa solo quello che se sapea: mò pure quello che non se sa; perché bisogna tené cuntu della svalutazzione! Perché non s’a da offenne quigliu che sa poco o gnente; quigliu che sta poco bene; quigliu che sta sempre male; quigliu ’ndiavolatu; quigliu che tè poca mente, ecc… ’nzomma non bisogna fa’ ’ngiustizie; a scola so’ tutti uguali e la scola è degliu populu; e gliu maestro, tenènno cuntu de tuttu, ha da valutà coscenziosamente ogni varzittu, senza fa’ recapàti!
Maria – E allora férro, stagnu, ottone, argento, oro è tutta ’na valuta?
Rosa – Certo, certo! Perché se so’ diversi, non è corpa sea!
Maria – Ma è vero che ’ssa valutazzione la sostéu i psicolochi, che lavoranu a ’quippe co’ are persone, sempre pe’ lo bene degli figli nostri?
Rosa – Io lo so’ sentutu! Sarrà, ma…! Pure quissi, i psicolochi, so’ come la z, gn, s ’impura; denanzi a issi vòto sempre lo e gli, se no sì sbagliatu!
Maria – Vurrìa capì meglio ’ssa valutazzione! Mò me comenza a ’nteressà! Non te po’ spiegà co’ quarche ’sempio?
Rosa – Ce pòzzo provà; ma ’n è facile! Mettémo, commà, che masséra manca la luce e se fa scuru: siccome la colpa non è dello scuru, tu ha da valutà che ce sse vede! Un aru esempio, eppò basta però! Se ce stau du’ machine, una bona e una rotta, tu quale valuterrìsti de più?
Maria – Quella bona!
Rosa – Me llo ’mmaginéa che respunnìi suscì, perché tu non sa gnente de psicologia!
Maria – Allora, quale vale de più?
Rosa – È tuttu un raggionamento da fa’, prima de sentenzià! Dunca, le machine so’ doa: se una non fosse rotta, sarrìanu tutte e doa bone. Cuscì sa da valutà! E i maestri lo sau tantu bè!
Maria – Madonna mea, che rattattuglia!
Rosa – Te raggione, commà, ma nui non semo letterate!
Maria – Va bè che non semo letterate, ma tu m’ha da dì ancora che ce stea scrittu a quigliu foglio tremestrale!
Rosa – Che prèscia che té! M’ha dittu che a scola, iu figlittu meo è caruccio e ce creo. Pure co’ me, a casa, se comporta luscì, amore de mamma!
Maria – Ma ’nzomma, me llo vo dì, si o no, che ce stea scrittu a quigliu foglio? Te llo ricurdi?
Rosa – Commare Marì, ce stéanu scritte queste precise parole: “Il bambino è buono, rispettoso, educato e di buona salute. È carente in tutte le discipline”.
Maria – Comme, comme?
Rosa – “Il bambino è buono, rispettoso, educato e di buona salute. È carente in tutte le discipline”.
Maria – Beata te, co’ ’ssu figliu!
Rosa – Proprio cuscì, commà, ce sta scrittu! Beglio figliu meo!
 
Storie d’ari tempi, di M. Occhigrossi, racchiude ricordi di serate passate ad ascoltare i racconti dei più grandi. Nel dialetto foneticamente duro di Marano, le storielle riproducono personaggi ed episodi di altri tempi, rimasti ben impressi nella memoria dell’autore del godibile libretto. Tra di esse riproduciamo
“Certe biastime…”:
Ce steanu certe biastime strane comme: te pozza scrocchià ’n furminu, te pozza piglià’n curbu, nun puzzi revedé ddomà, che puzzi strascinà le cianchi, te pozza piglià ’na paratisse, te pozzan’ammazzatte, te pozzanu fa a tocci. Po’ le biastime rosse, quelle vere co’ tutti i nomi degliu calendariu e delle feste più mportanti che mancu ce sse potea penzà. Tutte biastime brutte che te ficeanu male speciarmente quanno te toccheanu. Eppure la biastima più cattia, più brutta, quella che te ficea più male e che te ficea attengà co chi te lla dicea era allora, quanno emmo varzitti, la fregnemammeta. Era ’na biastima che quanno te lla diceanu te dea propiu tantu dispiacere e che quanno la dicii tu agli ari te mettea ’na pustema agliu stommacu che specie nuj, ch’emmo chirichitti, ce la dovemmo ì a confessà. E tra gli nomi degli peccati che raccontemmo agliu prete questa sort’ e biastima ce stea sempre.
’Na vota se stea a confessà Giggetto, nuj stemmo de fori alla porta della sacristia aspettà che ce tocchea. Mariu e Pasqualinu che steanu a fasse j scherzi, liticaru. Subbitu iscì ju prete, co’ la stola ’n coglio, a remproveragli e quanno rerrentrà alla sacristia disse forte a Giggetto: a ddò emmo remasi? Giggetto i respunnì subbitu: alla fregnemammeta! Nui ce mettemmo tutti a rie e puru ju prete se messe a rie, perché a penzacce bbene se ll’era cercata jssu la resposta.
 
Peppacciu di Marco Occhigrossi (Dal libro del Convegno di Anticoli Paesi del Medaniene: dialetti a confronto, 20-21 febbraio 2010)
Se chiamea Peppe ma ju chiameanu Peppacciu perché, diceano, che era cattiu, che era ’n tipu scurbuticu, biastimea e trattea male tutti. Nzomma era ’n tipacciu. Ficea ju pecuraru, tenea le cioce e gliu ’mbreglio a tracolla. Tenea fra le labbra sempre ’n mozzo de sicaru smorzatu. Se vedea poco perché stea sempre a pej alle pecore.
Zì prete però, siccomme s’arrizzea presto pe’ j’ a dì la messa la matina, gni tantu ju ’ncontrea e gli dicea de vinì alla chiesa, e de confessasse perché n’ se vedea maj e che se cuntinueja cuscì eja rittu, rittu all’inferno. Ma jssu j responnea che non tenea tempo e che dovea penzà alle pecore. Eppo’ jssu non tenea paura dell’inferno perché ju conoscea bbene, c’era statu tante vote. Anzi ju conoscea cuscì bbene che era scoperto che gli pavimenti de tutti quigli ranni saluni eranu fatti de capocce de preti, tutte cocce de preti messe ’n fila e allustrate.
Zì prete ce riea e gli repetea de sta attento perché ce potea j’ pe’ davero all’inferno.
Passà ju tempo e zì prete nonn’era tantu diggirita la battutaccia che gli era fatta dell’inferno e delle cocce de prete e gli aspettea perché prima o doppo j dovea capetà a tiru.
E, defatti, un giorno, sotto Pasqua, eccutigliu Peppe ’n fila agliu confessionale pe’ confessasse, appojatu agliu bastone, co’ gliu cappeglio ’n mani, tuttu spauritu perché la gente ju vardea nsuspittita. Cuscì quannno j toccà, se nzinocchià co’ gliu muccu denanzi alla finestrola traforata e comenzà la cunfissione. Zì prete ju rencorà, contento perché era retrovata ’na pecora che s’era perza.
Ma po’ volea sapì da quantu tempo, non se confessea, ma jssu non gli responnea. Allora cagnà sistema e gli disse de botto: “so du anni?”
“Cammina, cammina!”, respose Peppe.
“Allora so cinque?” disse ju prete.
“Cammina, cammina!”, j respose.
“So’ deci’anni?” disse ancora ju prete.
“Cammina, cammina!”, respose ancora Peppe.
“E che, mica sarrau cinquant’anni”, disse zì prete ’n po’ spazientitu.
“Fèrmate dèsso”, disse subbitu Peppe, “ca so propiu ’na cinquantina ’e anni!”
Finitu ju discursu degli peccati e arriati alla pinitenza, Peppe sperea tantu che non gli desse i rosarj da dì perché nonn’era capace, tantu che disse agliu prete che pe’ la pinitenza jssu era più contento de ì a i piedi agli santuari della zona e che, macara, potea ì a piedi a San Benedetto che era già beglio lontanu. Ma zì prete j disse subbitu: “Cammina, cammina!”
“Pozzo ì alla Montorella ch’è tutta sallita”, disse Peppe.
“Cammina, cammina!” j respose ju prete.
“Allora vado scauzu alla Ternità”
“Cammina, cammina!” j respose.
“E che,” disse Peppe, “mica me vo’ mannà a casa de rdiavuru!”
“Fèrmate dèsso, ca si arriatu”, disse subbitu zì prete, “ca propiu quissu è gliu posto teo!”.
 
6. I testi di poesia
Marco Occhigrossi di Marano Equo ha pubblicato tre raccolte di poesie Vicinu agliu camminu: raccolta di poesie in dialetto maranese nel 1973, Camminenno pe’ Maranu, nel 1986, Divérsi vérsi spérsi…, nel 1997.
Nella prima raccolta, che riunisce testi poetici composti dal 1954 al 1957, un autentico atto d’amore per il suo paese, egli si rivela – come sottolinea nella sua presentazione Antonio De Simone – “poeta epico, dell’epica delle ‘grandi gesta’ primordiali dell’uomo. Con la raffinata gentilezza ‘contadina’ del suo linguaggio, coi suoi delicati ricami, non è un poeta né ‘delicato’, né ‘tenero’, ma epico della esistenza sanguigna, vitale: piena di umori rusci, begli, ’na fiamma ’e foco.” E la “magica poesia contadina” si accende vicino al camino, dove il fuoco spara e manna scintille. Ed è vicinu agliu camminu, il centro di una memoria abitata da cose, eventi di vita quotidiana, persone care, personaggi e luoghi del paese, rievocati con emozione rattenuta, parole semplici e profonde, senza retorica. Come nella poesia che dà il nome alla raccolta:
St’a a ppiove e tira vento / e se sta bbè traento / accantu agliu camminu, / mamma e papà vicinu. / Appresso i varzitti / ascisi agli trucchitti, / po’, fratimu più ranne / e tutti quanti j’ari. / E toneca, de fori / e l’acqua fa lo fume / ma nui stemo traento / e gnunu sta contento.
(varzitti: bambini; ascisi: seduti; toneca: tuona)
In “La cantina” con il procedimento dell’enumerazione-evocazione allinea cibi poveri ed oggetti d’uso per 36 nitidi versi (ogni verso uno o più oggetti) per concludere:
Pare non ce sta gnente, / e nvece ce sta tuttu, / basta tenello a mente / già, …’na vuscich’e struttu.
Altre volte è ju vento che:
Vurla tra gli viculi e le case, / se nfila alle finestre e gli canali. / Me pare nasce da Maranu scunciu, / azzecca agliu miluzzu e gliu cirritu / eppò se jetta addosso agliu paese. / T’acchiappa sia che azzicchi sia che cali, / non c’entra esse lesto o esse munciu.
(canali: tegole; azzecca: sale).
O la pieme (lo straripamento) dell’Aniene:
Ma varda sa cche vizziu / ha da tinì stu fiume. / Ogn’anno de decembre, / ha da sburrà la pieme. / Eppò se ncarra tuttu / non lascia ’n’onci ’e ranu. / Pare ce prova gustu / a ffa piagne Maranu.
Oppure ancora la quacqualina (lucciola) alla quale chiede di fargli compagnia e di riscaldarlo un poco, ché, quann’appicci ’ju foco / me mitti l’alegria e poi l’arrivo delle rundinelle che avvertono che è arrivata primavera (“È ionta primavera”).
Il poeta le accompagna nel volo sulle contrade di Marano: po giran’alla màina, / mo vau pella porta, / po ’n cim’ alla torretta / sopr’agliu campanile, / là pegliu frajnile, / abballe agliu catinu, / de retu alle piccona…
Ma la memoria volge verso il disincanto ne “La stalla”:
’Na vota era stalla veramente / con par’e vette ’e bbovi e du cavagli. / Mò c’è remasu j’aratu solamente, / ju gioco, la cerrata e gli zovegli, / la zova, mesa rotta e du frocette, / ’n pezz’e jumera storta e le funicchie. / Stau appiccate comme l’han lassate / ma non servanu più, so bbon’a tecchie.
Infine lo sradicamento dal paese in “Te lasso e me nne vado”, che riportiamo in antologia, indelebile rievocazione dell’abbandono di Marano in cui si alternano nostalgia, attaccamento al paese (Chi se nne pò scordà, n’ quella matina / abballe pegliu ponte, a ’n’ora cetto. / Ju vento te battea a tramontana, / tocchea st’attento ’n te jentrea ’m petto) e determinazione a lasciarlo, e sarcasmo (Te lasso propiu e non me mporta gnente, / me so straccat’e sta ppistà i sassi, / te cce remane ancora tanta gente, / in tuttu poco più de mille fessi). Solo il tempo di rimirare Maranu sopr’agliu nebbione, / le casi nzunnulite, senza luce, / la cchesia, ju campanile, le campane e poi ju purma… pe vinì a studià ’lla capitale.
Alla ricerca di sensazioni perdute, Occhigrossi ritorna poeticamente al paese in Camminenno pe’Maranu, edita 13 anni dopo la prima raccolta, ma riprendendo un suo lavoro degli anni 50-60 che, dice l’autore, “voleva essere allora, e vuol essere ancora oggi, una riscoperta delle bellezze, fin troppo trascurate, di Marano”.
Maranu st’appojat’a ’n cogliceglio / comm’un lenzoro spasu agliu frattone… // …Po’ ntorno tanti titti colorati / ’ngialliti dagliu tempo e dallo piove, / co’ gli cammini tutti affumicati / che paranu varzitti senza move.
Il viaggio prosegue lungo le scalette de sergiata, e lì: …Sopr’alle casi le finestre stesse / che par’ancora parlanu tra esse. / “commà, tinissi ’na chilat’e pane?” / “Ennò, commà, ancora l’ha da fane!” // … e parlanu e descorranu de tuttu / e s’apranu e s’anzerannu de ’n trattu, / e chi s’ammutulisce e recomenza, / chi seguit’a parlà, chi ’nvece …penza.
E se si ferma, senza pensar troppo: …revedo ancora loco, quella vecchia / che fila, fusu, pinnura e vertecchia, / colla conocchia, ’n mallunitt’e tóppo.
Infine, alla passeggiata della croce: co ’na viduta che strabbiglia j’occhio, / te pare comme stiss’a ’n apparecchio, / dó vidi tutt’ju munnu che tte piace. // De fronte Sant’Elia co’ Rojanu / appej tutta quanta la pianura, / Anticuri, de latu, all’appacinu, / ma caricu de storia e de pittura.
Una riscoperta pienamente riuscita quindi, nonostante i dubbi dell’autore, e che trova il suo culmine nello slancio lirico della poesia che conclude la raccolta: “… quanno la sera cantanu j rigli” che riproponiamo in antologia.
In Divérsi vérsi spérsi, ultima raccolta pubblicata nel 1997, a 24 anni di distanza dalla prima, Occhigrossi confessa in premessa che alcune delle poesie risalgono a quella ormai lontana epoca, mentre le più recenti sono pervase da “un dubbio sulla loro capacità di comunicare con il lettore… perché il dialetto con il quale sono state scritte, è divenuto ai tempi attuali del tutto anacronistico, così come superato è il modo di vivere di quella società contadina alla quale esse si ispirano e si riferiscono e che costituiva il nucleo abitativo del paese nel primo dopoguerra.
Ma di quell’epoca l’autore è validissimo interprete, misurato nei toni, che mai si abbandonano a tirate laudatrici dei tempi andati, oscillando in un difficile equilibrio tra incanto e disincanto, consapevole del loro valore di testimonianza di “un’epoca contadina nella quale io sono nato e cresciuto ed alla quale sono rimasto particolarmente legato”. Di quest’epoca egli trasmette sia la memoria che il dialetto, gelosamente conservati, quasi cristallizzati, dopo il distacco dal paese.
Giustamente annota nella presentazione di questo volume il prof. Savino Pedicelli: “leggendo questi versi, ci si accorge come la sua poesia sia modernissima e come il dialetto abbia, in questo caso, quasi un ruolo sociale, ricordandoci il vivere della gente nei piccoli paesi, con le solite cose di tutti i giorni, incorniciato da un paesaggio pieno di luce e di acqua, di monti e di alberi”. E grazie a lui, “non solo non sono perduti, ma divengono traccia per una perenne memoria” per il tramite di: Divérsi vérsi spérsi (…) Vérsi de un’era orammai passata / vérsi de vita semplice e pacata / di quella vecchia stirpe contadina / forse, ’n po’ rozza, ma de mènte fina.
 “In vecchio aratu”, dopo aver visto lo strumento un po’ ridotto male in un presepe natalizio, Occhigrossi commenta: se sa, so attrezzature superate / che non tè più nisunu, non so usate / ma a me che le so viste in funzione / m’hau lassatu ’n po’ de mprissione / perché ce so rivistu, ’n quigli’aratu, / un bbono e bravu amicu retrovatu. E l’aratro e i contadini e le loro “opere” ritornano nella struggente poesia intitolata “Finisce un’era”: non porta più le zove / le vacchi non ce stau / j’aratu più non serve / p’ammajesà ju pratu. / Non serve più la gente / pe’ zappettà lo ranu / non se sementa gnente / abballe pe’ lo pianu.
 Ne “L’uva de Santa Maria”, aleggiano memorie di vendemmie antiche: Mo’della igna non ce sta più traccia, / ce sta sopre ’na via nquatramata, / ma non se leva più dalla capoccia / la scena de quell’uva vilignata.
In quest’ultima raccolta, segnata da un immedicabile disincanto, il poeta ripiega su se stesso e sulla sua vicenda alle prese con il sentimento vigile dell’età che avanza inesorabile, con la solitudine e il pensiero assiduo della morte. In “Strana serata”:
È ’na serata strana / ce sta la tramontana / mo’ piove e ranzurischia / e po’ gni tantu fiocca. (…) È friddu e batto i denti / sto a chiamà tutt’i santi. / Ju foco non s’appiccia, / lo fume se renfaccia, / me lacremanu j’occhi / me dolanu j vinocchi / me st’a ffa mal’ju petto / …mo’ me nne vajo a letto.
In “Se pozza riggirà la sittimana!” la solitudine, ancora più avvertita nel giorno festivo, si declina in vibrate maledizioni:
Domeneca non pozza vinì mmai / pe’ guigliu che n’ tè più la moglie sea. / Se pozza riggirà la sittimana / e remanesse ferma a juniddì. / La luce remanesse sempre scura / cuscì non se conosce sa chi si. / La via jesse sempr’a capabballe / e a mmonde non venesse mmai chielle / e gnunu camminess’a ceca jume / comme fosse cecatu dallo fume / e la jornata fosse sempre sera / … né pozza vinì mmai primavera.
In “Epitaffio” infine c’è l’incoraggiamento fermo e bonario, per sé e per gli altri, a saper affrontare l’inevitabile morte:
Ma come fobbe? Propriu non lo saccio / mo’ me so morto e ’n sepordura giaccio. / Cuscì comm’è pe’ legge de natura / o pe’ distinu de ogni cratura. / Quanno te tòcca lo dicide Issu / sia che si poveracciu o bbene missu. / Ju titulu che purti non te vale / denanzi loco semo tutti uguale, / ugnunu è comme gli ’urdimu ciarlotto. / Coraggiu, allora, e non te cacà sotto!
 
Il maranese Biagio Maturilli ha pubblicato quattro volumi di poesia: Piccola voce (1984), La mia terra (1987), Qua e là (1991), Vita (1998). Il primo, Piccola voce, contiene 38 poesie in italiano, 37 in maranese, 4 commedie brevi (3 in dialetto, una in lingua): ed una folta lista di soprannomi.
Maturilli scopre la vena di poeta e commediografo alla soglia della pensione nel 1983. G. Panimolle, nella presentazione della silloge, lo definisce “uno scrittore atipico, dallo stile piano che riesce a farsi capire da tutti; un poeta dalla vena singolare, trasparente che rivela con immediatezza al lettore i suoi sentimenti, le sue preoccupazioni, le sue angosce (…); un acuto ed attento osservatore della storia; un ‘libero’ cantore della bellezza del paesaggio, dell’amicizia e dell’amore”.
Altra nota dominante, prosegue Panimolle, “è senz’altro l’amore sviscerato che egli porta alla sua terra natia. (…) Dal paesaggio, dal suo lavoro di insegnante, dagli svaghi, dalle amicizie, dalle feste paesane, dai lutti familiari, dalle nascite e dalle altre mille situazioni, sa trarre spunto per evocare immagini fresce e colorite…”
Le sue poesie più riuscite sono quelle dialettali dove “è preminente – lo fa notare l’autore stesso – il riferimento a cose, fatti e personaggi locali”. In esse vengono rivisitati gli angoli più ricchi di memorie di Marano, gli ambienti domestici
più cari, con l’elencazione di strumenti ed attrezzature di un tempo (in “Cuscì era la cucina”), le scene di lavori agricoli di un tempo (“Trebbiatura”). Non mancano riferimenti alla politica cittadina (“Iu puliticu disonestu”, che si conclude icasticamente: Se ce ve a mancà tu, / a nui chi ce freca più?), tirate sul femminismo incalzante dagli effetti deleteri sul maschio che avvilitu e deperitu, / gironzola comm ’n apone, / no’ sapenno più / addò posà iu pungiglione.
In La mia terra, senz’altro la sua migliore raccolta, si confermano le caratteristiche della poetica di Maturilli. Le 25 poesie in italiano si aprono e chiudono con un omaggio a Marano ed uno a Cervara di Roma. Più interessanti le 90 poesie in dialetto che rievocano vicende curiose del paese, personaggi abbozzati con rapidi tratti.
Da “Mariano Panattoni”, a “Scènziu ’e Juca”, a zi Pasquale ’ella Schiappetta che così spegne un incendio: agliu foco ce so’ pisciatu / e ce so’ data ’na cappellata; al papalino zi’ Claudiu che, per non dare soddisfazione al regnicolo zi Giuliu
gli dice: non dico ju “Pare nnostro” / pe’ non dì “Regnum tuum” e l’altro ribatte: “oh! ’n ce puzzi arrià a dillo!”“E tu a sentillo!” / respose iu papalinu. E che dire della replica, a Bernardo Volpe che lo vuole cacciare dal Bar Aurora, di “Tempu perzo”: …con prontezza / iettènno iu cappeglio a terra / e mettènnoce i péi sopra, / respose a ’sta manèra: / – Mò non me po’ caccià più, / sto sopra alla robba mea! – / e giù’n’ara biastìma. // Caru “Tempu perzo” / che tempo è addò te truvi? / Se sona? S’azzìnna? (Si beve?).
In questa galleria di ritratti paesani c’è posto per Veradinu ’egli Argentéro: eesperto ntennitore / de sveglie e d’aralloggi che: … ha beiùtu, / ha cantatu, se nn’è itu, / lassènno ’zolùtu / iu mistero ’egliu menzognero.
In altre poesie domina il mesto ricordo del solito piatto monocolore, il colore giallo (“Bandiera gialla”), fisso, sempre quello della polenta, fatta con la farina ’e raiturcu che ce venéa presentata, / mmatine e sere! // Pizza alla ratèlla, / cotta o mezza crua, / brusciàta o de fume baffata, / co’ gli sfrìuri o senza; / alla ratìcola, sotto iu coppo / o agliu furnu comme fallone; / pizza co’ erbe, fasori, patàne; / co’ ’na fetta / ’e lardu o de ventresca.
(sfriuri: pezzetti di grasso di maiale; fallone: pagnottina di farina di granturco).
Un tempo (“Amore e fame”): era duru tirà nnanzi… / pe’ sfamà le famigliole! // Gni tentativu, / gni trovata era fallita / e agliu saccu, / né bianca, né gialla / ce stéa la farina. Uno sguardo accorato, pieno di dolore, e dagliu coglio ’ella sposa / venéa spiccata pe’ sempre / la catinina d’oro. Impegnata per procurarsi da mangiare.
Erano tante le donne che se ’ncontréanu de sera / pe’ le vie’egliu paese / ’n cerca de caccosa! Ma Gnente ce stea, / solo la speranza de campà; ma a vôte, / venéa da dillo: / “Che semo nati a fa?” Erano “Tempi bui”: più scuri ’ella mezzanotte / èranu quigli témpi, / quanno ’n ’gni famiglia / la miseria ficéa a cazzotti.
Il lavoro dalla mattina alla sera era ’n calvariu; / a scuru se rencaséa, / co’ l’ossa rotte, / stracchezza e fame. Ed il raccolto era sempre magro e pe’ sopravvive, / dìbbiti a non finì. // Se questa era vita / la morte era ’n’alligria! Bastava poco per far festa (“Natale”):
’N portocàgliu, ’n mandarinu, / ’n terroncinu da ’na nicheletta, / ’na fìcora secca / e pe’ gliu varzittu / era festa a Natale. Il cenone? …Maccaruni, verdura, / frittégli, baccalà e pane, / la serata trascorréa bella, / co’ gliu gioco ’ella simmunèlla, / ’n attesa ’egliu sono ’elle campane. Eppure, che pacchia se ’gni giorno, / fosse statu Natale!
Invece (“Vucàta”, bucato): Mò ’n gni casa, / basta preme ’n tastu / e la vucata è fatta, senza fatica. // Comme cagna la vita! Una volta anziché la televisione, agli varzitti / pe’ tenégli firmi, / tante belle favolette / finché caschéanu addormìti.
Infine due poesie d’amore da segnalare. La prima “Puccarèlla”, cioè bambola:
Comm’è bella la puccarèlla! // Né mura, né smura, / non sa perché varda, non sa perché cammina; / non sente, non penza, / perché ’i manca la vita. // La usa pe’ gioco, / la spoglia, la veste, / la pèttena, l’accarezza, / la ninna agliu létto / ’na felice varzétta. // Ma tu, femmena bella, / non sî puccarèlla!
La seconda, una agrodolce invettiva (“Anima nera”), è in antologia.
Léngua méa (1988) più che per le poesie (2 in italiano e 11 in dialetto) si segnala per un’ampia ed accurata raccolta di imprecazioni (“Fioretti equi”), modi di dire e proverbi.
Nelle due ultime raccolte Qua e là, 1991, (con 10 poesie in lingua e 35 in dialetto, un’appendice con nomi propri di persona femminili e maschili, mesi dell’anno, stagioni, giorni della settimana, nomi delle dita e numeri cardinali in vernacolo) e Vita, del 1998, (con 10 in lingua e 38 in dialetto) Maturilli sembra smarrire la vena più originale delle precedenti sillogi per ripiegare su tematiche soprattutto di polemica politica, moraleggianti, con molte poesie su temi di attualità o di circostanza.
 
Antologia
 

MARCO OCCHIGROSSI

 
Te lasso e me nne vado
 Chi se nne pò scordà, n’ quella matina
abballe pegliu ponte, a ’n’ora cetto.
Ju vento te battea a tramontana,
tocchea st’attento ’n te jentrea ’m petto.
Ce stea pe terra ’n parmu de brinata,
la nebbia nasconnea ju ttavone.
Mamma, che friddu ’n quella matinata!
Ce stea co me Duminicu Scarpone.
M’era appojatu a ’n’arbere de noce:
vedea Maranu sopr’agliu nebbione,
le casi nzunnulite, senza luce,
la cchesia, ju campanile, le campane.
Ju fiume rucichea lappelloco
co un rumore forte e sempre uguale.
Dovea piglià ju purma, doppo poco,
pe vinì a studià ’lla capitale.
Te lasso propiu e non me mporta gnente,
me so straccat’e sta ppistà i sassi,
te cce remane ancora tanta gente,
in tuttu poco più de mille fessi.
Se perde troppo tempo malamente:
du anni pe sapé se gliu cummune,
che sse ce pinzi bbè, non serve a gnente,
j ha da pulì Scupinu o Recatone.
Chi ha da tinì le chiavi ’egliu portone?
(se cce repenzo rio sotto sotto)
la regge Benedetto o Carraccione?
Ma ntantu ha chiusu sempre Barilotto!
Po quann’è festa, pe j’ m pricissione,
n’ se sa ddo sa da mette ju concerto.
Se recomenza la discussione:
“senza sonà è assai più meglio, certo!”
Se fa comm’ha dicisu ju cunzigliu
doppo dece sidute a pirdifiatu:
un po denanzi co Duminichigliu
e gli ’aru meso reto a Lautatu.
Ce semo da tropp’anni coglionati
colla speranza de fa chisacché,
po, mani mani, j’anni so passati
e so remasu appiccicatu a te.
Basta! Te lasso desso rincriccatu.
… La nebbia ha già lassatu ju ttavone,
già fumica ju cammin’e Tarramutu,
“…jamo, che st’arrià!” Strilla Scarpone.
 
 

[Quanno la sera]

 … quanno la sera cantanu j rigli
e da lontan’ju valle pastore
sona la lagna che te stregn’ju core
e che rembomba ’ntorno pe’ le vagli;
quanno la luna sopr’a ciuccianeglio
se specchia trento l’acqua degliu fiume
e la ciovetta ce v’a cceca jume
sotto la casa de ca’ povereglio;
quanno vè abballe l’acqua degliu fiojo
e sinti gliù rumore de cascata
doppo che piove tutta la jornata
e vidi monte Rofo che sta sojo;
quanno vé pé lla via ’e Campusantu
e sinti sottovoce la razzione
e te fau compagnia le persone
che ite se nne so’ da quistu munnu…
… allora vett’a ’scie agliu cirritu,
e varda ’ntorno tutta la natura
allónga ju coglio fin’alla pianura
e tette tuttu quantu ’n core strittu
perché t’accurgi che n’è fantasia,
m’affizzione pe’ stu pajsittu
a ddó ’gni cosa e ’gni viculittu
te mette’n petto tanta nostargia.
 
Finisce un’era
 
Non porta più le zove
le vacchi non ce stau
j’aratu più non serve
p’ammajesà ju pratu.
Non serve più la gente
pe’ zappettà lo ranu
non se sementa gnente
abballe pe’ lo pianu.
Non cercà più cannucce
n’ ce stau più i fasori
ma sauce e ramicce
serpenti e rudituri.
So tutti campi sovi
co’ spini e cannuccette
’n ce pascianu più bovi
ma surici e lincestre.
Nun ce sta più ’nu scetto,
s’è tuttu rammucchiatu,
non ce nne sta più ’n etto
de pianu sementatu.
Non truvi ’na ranocchia
se circhi agli fossati,
e regna la cornacchia
tra gli pinnut’alati.
Un segno bruttu, pare
perché finisce un’era,
un’epoca scompare
che tantu m’era cara.
 
 

BIAGIO MATURILLI


Anima nera

 Sî nera,
de muccu e de core,
d’anema e de chiome;
sî nera,
se sta’ zitta,
se sprichi parole;
sî nera,
che tu sia povera,
che tu sia ricca!
 
Arrìa la sera
e sempre caccòsa te manca,
anema nera!
 

 
Cenni biobibliografici
Biagio Maturilli, poeta (in lingua e dialetto maranese) e commediografo, ha pubblicato quattro volumi di poesia: Piccola voce (1984); La mia terra (1987); Qua e là (1991); Vita (1998). È autore anche di Léngua méa (1988) che contiene proverbi e modi di dire. Commedie brevi sono presenti in tutti i libri citati.
Marco Occhigrossi (Marano Equo, 1932). Laureato in giurisprudenza, ha insegnato per molti anni materie giuridiche ed economiche negli istituti di istruzione secondaria. È stato impiegato presso la Provincia di Roma dove ha diretto il settore della P.I. Appassionato ricercatore di storia e dialetti locali, ha pubblicato i volumi di poesie in dialetto maranese: Vicinu agliu caminu (1973), Camminenno pe’ Maranu (1986). Divérsi vérsi spersi… (1997); ha pubblicato anche Storia d’ari tempi (2002); una ricerca storica su Livio Mariani e la Repubblica romana del 1848-49, la storia di Rocca di Mezzo e, con Cesare Panepuccia, Marano Equo (1990).
 
Bibliografia
AA.VV., Paesi a del Medaniene: dialetti a confronto, (Atti del Convegno di) Anticoli Corrado 20-21 febbraio 2010, Ass.ne culturale Santa Vittoria, 2010
Luciani Vincenzo, Dialetto e poesia nella Valle dell’Aniene, Roma, Ed. Cofine, 2008
Maturilli, Biagio, Piccola voce, s. n., s. l., 1984.
Maturilli, Biagio, La mia terra, s. n., s. l., 1987.
Maturilli, Biagio, Léngua méa, s. n., s. l., 1988.
Maturilli, Biagio, Qua e là, s. n., s. l., 1991.
Maturilli, Biagio, Vita, s. n., s. l., 1998.
Maturilli Biagio, Dizionario del dialetto Maranese, S.l., s. e., 2007
Occhigrossi, Marco, Vicinu agliu camminu: raccolta di poesie in dialetto maranese, Marano Equo, 1973.
Occhigrossi, Marco, Camminenno pe’ Maranu, Marano Equo, 1986.
Occhigrossi, Marco-Panepuccia, Cesare, Marano Equo, Amministrazione Comunale di Marano Equo, 1990.
Occhigrossi, Marco, Divérsi vérsi spérsi…, poesie in dialetto maranese, 1997.
Occhigrossi, Marco, Storie d’ari tempi, Marano Equo, 2002.
Occhigrossi, Marco (a cura di), A Camilla, i proverbi di nonna Margherita, s.n., s. d., Anticoli
 
Webgrafia