20th Century Vox

Poema cinematografico in nove scenari di Sergio D'Amaro

In un tenero quanto più intenso e conciso gioco di flash, fotogrammi, istantanee, illusioni, speranze e passioni, Sergio D’Amaro, autore di 20th Century Vox (Carabba Editore, Lanciano, 2009, euro 12), libro misto di prosa e poesia, nonché piacevole parafrasi della major cinematografica americana, trascina con sé il ricordo di storie e di celebri personaggi del cinema targato anni sessanta, tinto di bianco e nero, semplice, reale e popolare, tracciando contemporaneamente dettagli di un’epoca dove “niente, proprio niente, poteva scalfire quella condizione di bontà, quella sensazione di sicurezza che ci circondava e teneva lontane le tempeste del mondo”.

In un labirinto di versi dal retrogusto mediterraneo, costellato di flash-back e feedback nostrani, memoria storica e memoria personale coincidono e si intrecciano lungo il perimetro di pellicole sfuggenti ma vive, sempreverdi ma sbiadite dal controcanto a un cigno rimpianto e quasi alla deriva. Erano i western di John Wayne, le farse di Totò, la saga di Peppone e Don Camillo, il ritmo di Carosello, i Vitelloni di Fellini, la Grande Guerra, il Sorpasso, la Dolce Vita. il Cinema come promontorio e belvedere di paesaggi lontani, terre aride e sconosciute, binocolo di un’Italia che abbracciava il suo destino di modernità. Zoom di città sperate e sognate, crocevia di un’epoca proiettata al futuro, al cambiamento, scatola di segreti, racconti ritrovati e fino ad allora inimmaginabili.

Fu così che nel 1957 il Cinema risucchiò anche l’autore: “E fu allora che per me sorse il ‘900 e mi tenne avvinto al suo racconto/primi e primissimi piani/campi lunghi e giostre di dolly/ inquadrature motori scene/film di tutti gli altri e mio/pellicola incessante di nascite e morti/Fu allora che una grande mano decise frammenti di tempo/distinti fatali fotogrammi/sulla vecchia macchina da presa”. Cinema come gioco, come azzardo, il buio delle sale un vortice di fascino, seduzione, abbandono e inganno. Scoperta, necessità e poi bisogno. Cinema custode della storia, di un paese diviso dal desiderio di modernità, proiettore dell’occhio umano di immagini che si sono fissate nella coscienza degli individui in un’epoca di decisivi cambiamenti.

Ma quel desiderio di abbandono, quell’alone di mistero, quella scatola di sensazioni che solo il grande schermo era stato capace di suscitare, presto sarebbe stato tallonato da un nuovo immaginario, in cui, come afferma D’Amaro nell’ultimo dei nove scenari, “tutto si laicizzava, per dir così, perdeva quel suo alone sacrale, quel fascino della distanza, e diventava perciò presa diretta, compresenza di realtà vissuta e realtà trasmessa”. La televisione cambiò la nostra percezione della realtà e fu così che diventammo registi e protagonisti delle nostre stesse storie. “Giapponese è bello! Dopo tanti anni siamo diventati individui globali ognuno col filmino in videocamera. Zoom, primi piani, il film del ‘900 lo giriamo in sedicesimo/piccoli petulanti adoratori del reale. In sottofondo la memoria di un secolo si prolunga in fotogrammi seducenti/siamo noi gli attori, noi la storia e la vita che ora ci sfugge/correndo fino all’ultima sua scena”.

In un dialogo mai domo tra la coscienza e il suo passato, quindi l’autore scopre che il tempo sembra quasi tutto scorso, per cui tutto appare scontato, conosciuto e raggiunto. L’augurio di Sergio D’Amaro è che questo poema aiuti i giovani a non fermarsi e stimoli la fantasia a ricercare qualcosa di più grande.

Massimiliano Nardella