108 – SEGNI

 

SEGNI (9.300 abitanti, detti segnini. A 668 m slm). A ridosso del Monte Pianillo e immersa in un ambiente naturale di castagneti e faggeti che circondano l’abitato, si affaccia e domina la Valle del Sacco.
 
IL DIALETTO DI SEGNI:
 
  1. I vocabolari e le grammatiche
Il Vocabolario del dialetto di Segni precisa il suo autore Emanuele Lorenzi “non è una semplice raccolta di vocaboli, dei loro significati, e, quando possibile, del loro etimo. È un insieme di notizie, di curiosità, di espressioni tipiche, di aforismi, di proverbi, di soprannomi, di fatti in qualche modo evocati dal vocabolo; richiami alle tradizioni, riferimenti agli Statuti segnini, a personaggi insigni e gente comune di questa terra, che in qualche modo si sono imposti all’attenzione della collettività civile” (Premessa, p. XX).
Prima di lui si sono cimentati nell’opera suo zio, Filippo Rapone, autore di un mini vocabolario (manoscritto) Vocabolario delle parole del dialetto segnino, cui aggiunse una piccola grammatica, definita interessante dal Lorenzi che ricorda anche come sua fonte anche Pippo Fagiolo detto Peperone, autore delle raccolte poetiche ’J so’ revenuto e Le nnòmmora segnine. Lorenzi cita pure come prezioso riferimento Cesare Bianchi autore di Saggio di un dizionario “etimologico” del dialetto di Ferentino, Tipolitografia Roma, 1982. Quello di Ferentino infatti è un dialetto molto vicino a quello di Segni per le comuni radici neolatine. Un’altra opera di cui il Lorenzi si dice debitore è quella di don Bruno Navarra La Segninità, appunti di storia locale n. 3, Segni, 1977.
Il vocabolario del Lorenzi è definito da Serge Vanvolsen del Dipartimento Linguistico della Facoltà di Lettere dell’università cattolica di Lovanio “un prezioso strumento di lavoro per il mondo scientifico e per i dialettologi”. Oltre che per il numero dei vocaboli e per la loro puntuale definizione si distingue per “la ricchezza della fraseologia e per la puntuale connessione con il vernacolo parlato” come annota Don Bruno Navarra che annovera tra i pregi dell’opera di Lorenzi anche “quello di aver fissato nella grafia il modo esatto di scrivere il dialetto. Senza precedenti e in assenza di una storia letteraria egli è il primo a stabilire regole per una grafia accettabile e ragionevole”. Oltre a questo contiene in apertura alcune brevi nozioni grammaticali (pp. XXXVIII-LI) e nella parte finale un’appendice (pp. 465-481) con preghiere popolari, filastrocche, proverbi, modi di dire, stornelli.
Ecco un ampio e gustoso repertorio dal dizionario citato: affrojà (mangiare o bere immergendo le froge nel recipiente), allocabballe (laggiù), ammoscà (riposare all’ombra; detto delle bestie), bammaccióne (semplicione, sciocco), bòbbo (spauracchio per bambini), cacaìzzo (albero di giuda), cacciammìtti (vinello annacquato), cacciarella (caccia al lupo), canìzza (vento freddo di tramontana), ciafrocca (naso grosso e largo), ciammarucaro (venditore di lumache), colata (rannata), cubbia (coppia), cugna (culla), curóglia (cercine), déccoci (qui intorno), diàscaci (diamine), doppiàra (donna che ha partorito due gemelli), dùtici (dodici di tutto , nel corredo), éccocia (da queste parti), èssojo, èssola (eccolo vicino a te; eccola sta venendo, sta vicino a te), faìto (faggeto), falló(one) (pizza rustica di granturco cibo dei contadini), falógna (favola; balla), falùni (recinzione dei campi con rami secchi e sterpaglie), famaccio (stomaco; gozzo delle galline), firifischio (vinello di seconda spremitura), forùni (di nascosto), frafuso (pieno di moccio, moccioso), fraja (voglia intensa), fualóne, pl. fualuni (fiumara), gerùggico (chirurgo), ghèlli (soldi), gnàgnara (indumento troppo largo), izzo (puzzo di sporco), jàjo (viaggio), làbbise (matita), léppa (piccola quantità di qualcosa; fiocco di neve), ’llatèlla (grossa cesta di vimini eo di canne), locìno (elcino, leccio), luccicandrella (lucciola), mammòccio (bamboccio), màtroma, móglima (mia madre, mia moglie), mazzabbòte (torcibudello), mazzaréglio (correggiato, manfanile; arnese per battere il grano o le pannocchie del granturco), méro (vicino, rasente; acrescitivo méro-méro), mucco (faccia), ’nforcellà’(ane) (aggrovigliarsi), ’nganna (in gola; fréchete ’nganna: strozzati), nnazzecacùjo (ancheggiare delle donne quando tirano la sfoglia), nnuvèlle-nuèlle-a nuvèlle (nessun posto, in nessun posto), ’olebbróne (fossa, voragine), pappappéro (uomo di poco coraggio), peddéccoci (da queste parti peddélloci: da quelle parti), pemmontabballe (in su e in giù), pizzàle (sporgenza), portocallo (arancia), prìota, casa prìota (privata, casa di proprietà privata), quinàtemo (mio cognato), ràcano (ramarro), rappéglio (rastrello); rattacàso (grattugia), rattatùglio (scompiglio, confusione), rècojamatèrna (requiem aeternam), recùcca-surici (stare nello stesso letto in troppi), recùnzolo o recunzólo (pranzo offerto dal vicinato alla famiglia colpita da lutto), remonnà (sbucciare; pulire bene), rencriccà’(ane), (ringalluzzirsi), reposaturo (luogo apposito per riposarsi tornando dalla campagna), retìbbio (piega nel vestito; orlo finto), retróbbeco (persona lenta e indecisa nelle sue azioni), rólla (recinto per maiali), ronzà(ane) (cuocere superficialmente), ruspo (rovistare nel terreno per trovarvi qualcosa), sarìcchio (falcetto), sbario (svago), scacciamoschènno (girovagando ficcando il naso qua e là), scàozzo (scalzo), scifa (piatto di legno), scifo (trogolo), scolemarèglio (mestolo), scrià’(ne) (diventare piccolissima cosa; annullarsi per paura o senso di colpa), scurto (finito, esaurito), sdunzo (salto incontrollato), sdrelecóne (acquazzone), séchia (sedia), selacòlle-selacollì’-selacolléro (se ne va, se ne andò, se ne andarono), serlécoja (carruba), sfilapippe (persona eccessivamente longilinea), singa (che io, tu, egli sia…), stenneréglio-stennaréglio-stegniréglio (matterello, spianatoio per sfoglia), stella (aquilone), storzapréiti (prugna selvatica, molto allappante), stramata (prima sommaria strizzata di panni lavati), stramani (fuori mano), sturzo (cottimo), svelocciato (sbocciato, sviluppato), tâota-tarà-tarìata-tèmmota-tèmota (nell’ordine: devono, dovrà, dovrebbe, devemmo e dovevamo), tatatójo (persona goffa e ingombrante), téccoci-téccocia-tèccote-tèccotìglio (ripettivamante: da queste parti, in questa zona, tieniti ed eccoti, èccotelo e tiénitelo), telacollìsti (te ne andasti via), tellùro (terremoto), tònghe-tònghe (lentamente, svogliatamente), trettechènno (barcollando), ttuppetempétto (grande dolore al petto), turumàglio (palo della cuccagna), ùttaro-uttaréglio-uttarèlla-uttarazzo (rispett.: ragazzo, ragazzino, ragazzina, ragazzo alle soglie della pubertà), velòccia (ovolo), véseca (asma, fiatone), vétta (coppia di buoi attaccati all’aratro), vignàno (scala esterna, ballatoio), volandina o ’olandina (ragazza leggera nel comportamento), vòsco (con voi), zallàngaro (passo molto lungo, salto), zappo (ariete, persona rozza), ziglio (piccolo).
Altri vocaboli dal Glossario di Segni a cura di Anna Corsi
affanzia (aspetto), a fa zicatebù (siamo ancora allinizio), a ’guatta (a nasconderci), airo (aria), ammazzochiate (impastate male con dei grumi, le pagnotte j venèro ammmazzocchiate), anguschia (tormento), antrasatta, ’ntrasatta (all’improvviso), a pianda’ maggio (a curare i propri interessi), arnégli (frassini), bonétto (berretto), brumbo (sorso di acqua o di altro liquido, la quantità di liquido che può contenere una boccata), cacaizzi (fiori dellalbero di Giuda), calandrèlle (lucciole; calandrélla: lucciola, farfalla. Persona molto agile, bambina molto vivace, cose molto leggere), callarzélla (paiolo, pentola di rame, nella quale di solito si cuoce la polenta), canasciuni (focacce ripiene di formaggio fresco di prosciutto e di altri ingredienti), canzatora (strada secondari), chiatri ‘chiodi di legno, per lo più di canne, usati dai calzolai per allestire le scarpe nuove sulle forme di legno), ciurli (capelli; capelli radi; capelli arruffati), crischiano (essere umano), culo (goccio, poco di qualche cosa liquida), frustiéro (forestiero; anche furaschiéro), gnuto (nodo) gnito (nido. Si dice anche: agnìto), inòtte (questa notte), licco (boccino nel gioco delle bocce), lummicà’ (rotolare in discesa, cadere delle scatole), maco (chicco; anche vaco), màola (malva), moréa (calata del sole; ombra, freddo), narèi (castagne piccole e selvatiche), ’ncacà’ (fare un tiro più corto del dovuto nei giochi in cui si deve lanciare l’oggetto del gioco; sbagliare), ’ncanà’ (rimproverare con una certa asprezza; ’ncanata: rimprovero), ’ngènne (dolere e dolersi), occhia pò (guarda un po’), oléa-i (scintilla-e che si sprigiona dai tizzoni o carboni accesi; olestra (scintilla che si solleva in alto dal camino acceso), ortécchia (legno di forma sferica che s’infila nella cocca inferiore del fuso per farlo girare più regolarmente), pecoramarónta (coccinella, cetonia dorata), pesticcìo (pochissimo; ’n culo,’n pesticcio, ’n crio), recelà’ (mettere in ordine la casa), remmorì’ (estinguersi spegnersi), sprescià’-ata (spremere, strizzare; strizzata, spremuta), stuà’ (pulire, asciugare), tòtari (il culmo rigonfio delle cipolle terminante in una inflorescenza. Di esso si servivano i ragazzi di Segni per ricavare un strumento–giocattolo), vaglio (gallo), vàlani (castagne lesse).
 
2. I proverbi e i modi di dire
Dall’opera già citata di Emanuele Lorenzi, ecco alcuni proverbi di Segni: Prima de gnóttete j’osso, penza se glió pô refâne. ’N patre teneva du figli: uno se chiameva Fìdate i ’natro ’Ntefidà. Fìdate era bbóno ma ’Ntefidà era méglio. Jo segnese, tristo addó fa jo mese; addó fa j’anno, o freca la patrò’ o fa qua’ ddanno. Disse S. Crespino alla ranòcchia: “’N só’ ccianghe chésse da portà’ stuvali”. Ed alcuni modi di dire: A ffa’ i ggiòchi (a litigare in pubblico, tra parenti soprattutto); Arecaccià le nnòmmora (tirare fuori i soprannomi); Ammaddè! (per fortuna; non voglia mai Dio); I ppàlemi! (altro che!); Va a ’nsaccà la nebbia! (se non hai altro da fare).
 
3. I toponimi e i soprannomi
A proposito di toponimi per Segni citiamo la divertente poesia “Segni moribonda” in cui il poeta e commediografo Aldo Zangrilli critica la rivoluzione degli antichi toponimi ad opera degli amministratori che spesso si cimentano nel cambiare nomi ai luoghi, rendendo più difficile la vita ai cittadini:
’Na sera mendre steo mero mero
denanzi alla butteca de Maria
s’avicina ’n signore furaschiero
ippó me chiese de viale Ungheria
                Me feci bianco manco fossi ’n cero,
                bbassà jo capo comme ’no pôraccio,
ippó i disse: – Sa’, so’ furaschiero,
me dispiaci, ma própio nonn ’o saccio! –
Certo che, pe mi, fu ’n poco umigliande!
’N’umigliazione fatta a própie spese,
’n fatto che se pô dici repugnande:
a rinungia’, pe’ ’gnoranza, aglio paese!
                ’Gnoranza? Ahó! Ma pone i so’ penzato:
                ma ’na ôta ’n se chiamava Scroccarocco?
                Pró la corba è che Segni s’ha mutato,
                i ’n se capisci manco ’no bajocco. (…)
Allora, a chisto punto, e’ so’ penzato,
quarsiasi via pô fa’ ’sta mutazione.
                Jo Laco, jo chiamimo corso Cina,
                i la Ritta, la chiamimo via Russia,
                o la Frangia, la Spagna, la Bissina.
                I doppo? ’n’accitende che ne sfrussia?
 
Soprannomi – Filippo (Pippo) Fagiolo detto Peperone è autore di una divertente raccolta di soprannomi di Segni: Le nnòmmera segnine. Nella raccolta a cura di Emanuele Lorenzi, ’J so’ revenuto, Segni, Ed. Associazione Porta Saracena, 1988, in una sola poesia “J’appéglio a nnòmmora”, Fagiolo arriva ad elencare ben 506 soprannomi. Di questa poesia, una sorta di appello dei suoi concittadini riportiamo l’introduzione: A nnòmmora mo’ chiamo tutti chigli / che mme revévo pe glio rentennacchio. / Niciùno a mmale, spero, se la pigli. / Se sse la piglia, no mme ’mporta ’n cacchio (Col soprannome adesso chiamo tutti quelli / che mi ritornano nella memoria. / Spero che nessuno se la prenda a male / Altrimenti non me ne importa niente)
 Lorenzi nel suo Vocabolario così spiega il termine nnòmmora: “Dal latino nomen-inis, nome, pl. nomina. Sono numerosissimi i soprannomi segnini . Ne ho pubblicato una raccolta, certamente non completa: Le nnòmmora segnine. Sono caratteristici e molto coloriti, questi soprannomi. Quasi sempre si attagliano perfettamente alla persona o al casato delle persone cui si riferiscono. Sono lo strumento più idoneo o immediato per l’individuazione di una persona; più del nome e del cognome.” Lorenzi ne ha raccolti ben 1.403, pubblicati appunto in Le nnòmmora segnine (Ed. Associazione Porta Saracena, Segni, 1987) e prima di lui Mons. Bruno Navarra ne aveva raccolti 846 nel libro Segni la città che scompare, Segni, Centro Studi Interdiocesano, 1979).
Infine si sono aggiunti ai 1.403 soprannomi del Lorenzi ulteriori 160 nnòmmora, ad opera di Silvano Tummolo, che li ha riuniti tutti insieme nel libro da lui curato Le nnòmmora segnine, edito recentemente dall’assessorato alla cultura del Comune di Segni. E così, l’anagrafe, per nnòmmora è quasi completa. Quasi, perché l’appioppare nomignoli è un “gioco” cui partecipano anche i giovani della comunità segnina.
Da questo lunghissimo elenco scegliamo solo alcuni: Acquacàlla, Bella cavalla, Cacastracci, Fraccanappa, Gnoriapressèlia, Lèttrica, Merdasecca, Nnicchetennàcche, Pappappéro, Picchiapòcchio, Riccopulóne, Santaciocia, Scarpalèggia, Stiracanasse, Straccamóre, Tempobrugliato.
 
4. Canti – filastrocche-indovinelli – giochi – gastronomia – feste&sagre-altro
Il 27 gennaio viene celebrata la Festa di San Vitaliano animata dalla tipica fiera mercato; il 18 luglio nella Festa di San Bruno si tiene una grande fiera di merci e bestiame; la seconda domenica di agosto, dopo il corteo storico in costume tipico segnino si svolge la pittoresca e insolita Giostra del Maialetto (un maialino viene lasciato libero con un campanello intorno al collo, mentre i giostratori, bendati e anch’essi dotati di un campanello, cercano di colpirlo con una scopa). La terza domenica di ottobre si svolge l’importantissima Sagra del marrone, tipico prodotto segnino.
 
4.1 Canti
Le parole dei giorni cantati è il felice titolo di una piccola pubblicazione che raccoglie ballate e stornelli di Segni i cui testi sono stati compilati e recuperati da Annalisa Ciccotti. Essa si è avvalsa del contributo delle associazioni locali (Gruppo Amici Loredana, Quelli che il canto, Jo Precojo, Peometeo, Santo Stefano) e soprattutto del Gruppo Folkloristico “J’Arlero” (traduzione: La Confusione) che ne ha favorito l’edizione, con il patrocinio del Comune, in occasione della XLIV Sagra del Marrone Segnino nell’ottobre del 2001.
Si tratta di un’esemplare operazione di recupero della tradizione orale, fondamentale soprattutto nella attuale fase di globalizzazione che da un lato spinge verso la omogeneizzazione, ma che paradossalmente può riservare spazi per la riscoperta e la valorizzazione di ciò che è locale. Lo sottolinea nella prefazione al volumetto Daniele Adamo che, a proposito delle ballate e degli stornelli segnini, afferma “sono sì, prima di tutto, il frutto di un bel gioco, il risultato di un esercizio collettivo di socialità, ma sono anche la testimonianza della vivida volontà di una comunità di non voler rinunciare (al tempo della globalizzazione) alle sue radici, alla sua storia, alla sua cultura, agli strumenti della sua creativa espressività. (…) Erano giorni cantati quelli dei nostri contadini e braccianti al lavoro, (…) quelli delle osterie, quelli della festa e della ritualità, quelli del corteggiamento e della lite di vicinato. Ossia le occasioni in cui la gente comune prendeva la parola. Una parola spesso negata. Una parola restituita dallo stornello, appunto. (…) Ma i tempi moderni presentano un’ultima piccola insidia ed un ultimo grande paradosso: la storia e la tradizione orale, per essere preservate e tramandate, hanno bisogno di essere scritte. Ed è quanto, semplicemente si è proposto di fare questo piccolo lavoro editoriale.”
Ed ecco alcuni stornelli segnini tratti dal libricino citato.
Stornégli d’amore – Fiore de riso, / te ’olaria da’ ’no mùzzico a ’sso naso, / te ficiarìa veté’ jó paratiso.///
Quanno ch’a mmaggio sbocciano le rose, / sento bbollì’ la sango pe lle vene / i mme spernuccio comme lle mimose. (spernuccio: spoglio) ///
Spicchietto d’aglio, / quanno te veto a ttì tutto me squaglio, / comme ’n ghiacciòlo a ’glio mese de luglio.
 
Stornégli a ddispétto – A ’ssa finestra che tt’affatti a ffane? / Le raccia te sse stâo a ddormentane;/ j’amore alla luntana ’n se pô fane./// Non te mette co mmi ca non gni spéri; / te ’j faccio sbarcà’ quattro lunari, / te faccio règgi tòrci e canneléri. ///Non te mette co mmi a stornellane, / te faccio mette drénto a ’n cucoccione / i tte porto a Velletri a ttrammutàne
(cocuccione: grosso vaso ricavato da una zucca secca; ttrammutàne: svinare).
 
Stornégli a còlle j’órto* (durante la raccolta del granturco): Affàttate alla finestra, muccozzózza, / mucco de callaròsta reppezzata;/ i puci te sse magnano la vita, / i petucchi te fâo la serenata (muccozzózza:faccia sporca, cioè monella; mucco: faccia; callaròsta reppezzata: padella rappezzata). /// A gli’ autunno cadano le fògli, / atti te calarâo le mmutanne, / se non te sbrighi, Cicco, a ppiglià’ mógli. /// I fammélla veté’ cà ’n té la tòcco / la cupellétta co llo firifischio; / aqquanno te la scròpo, po te la reccappo (cupelletta co llo firifischio: botte col vinello di seconda spremitura; reccappo: ricopro).
 
* Dal dizionario di E. Lorenzi p. 108 I’ a còlle j’orto (andare a raccogliere il granturco) come pure alla mietitura (i’ a mmète) e alla vendemmia (i’ a vitigna’), erano “ momenti pregnanti per il contadino che vede in quelle attività o scadenze stagionali, il coronamento di lunghe e a volte angosciose fatiche. Questi appuntamenti con la loro terra sono accompagnati da precisi cerimoniali, sottolineati da canti e da abondanti desinari bagnati da vini genuini che si tracannano dalle capaci cupellétte (piccole botticelle). Un tempo si ballava sull’aia al suono dell’organetto, mentre stornellatori di classe lanciavano dispettosi o amorosi endecasillabi a destra e a manca. Una tradizione anche questa scomparsa o quasi”.
 
4.2 Filastrocche, indovinelli, invocazioni, scongiuri
Filastrocche e cantilene – Da Segni: Chie vè’ a Ssegni i nn’è segnato, e ssegno che a Ssegni no gni-ha stato. E Pecuraro magnaricotta / va alla cchiesa i ’n se ’ddenócchia / non se caccia jo cappellitto, / pecuraro mmaletitto. E infine la cantilena del gioco della piastrella: pisa-pisèllo / colore ccosì bbello / la dì santo Martino / Martino la molenara, / nciòcc’alla scala, / la scala ’glio scaló’, / la penna del picció/scàttola, scàttola vai per mare / bella zitella / tòcca piastrèlla / figlia del re, / azza pète che ttòcca a tte. E quella per la caduta del dente: Quando a un bambino segnino adeva il dente si usava recitare la cantilena: titto titto, fammìglio revenì’ ritto (e si gettava il dente verso il tetto. Oppure: tèra, tèra, fammìglio revenì’ comm’era (e si nascondeva il dente sotto terra). Oppure ancora: fóco, fóco, famìglio revenì’ a glio lóco (e lo si buttava nel fuoco).
Pisa-pisèlla: cantilena che accompagnava il gioco della piastrella che recitava, in un miscuglio di dialetto e lingua, così : pisa-pisèllo / colore ccosì bbello la dì santo Martino / Martino la molenda, /’nciòcc’alla scala, /la scala ’glio scalò’, / la penna del picció; /scàttola, scàttola vai per mare /bellazitèlla /tòcca piastrèlla/ figlia del re, / azza pète che ttòcca a tte’
 
4.3 I giochi
In Piazzélla de sa’ Stefano, Pippo Fagiolo ricorda con emozione i giochi di una volta:
Écco giochèmmo allécri a castelluccio, / i patùni zmpiummàti spaccarégli, / a gli scalini della Giachimuccio, / o, méglio, a cchigli della Cimminégli. // Gnènt’ócchi chiusi, gnènte alla rizzata; / i passi ’j fa jo primo i lla pettétta. / Chella cósa… se fa reddirizzata… / comme càtano i ssópre gni sse ètta! // A llippa: lippo fóco se lla ’ncachi / gnènte redderizzi i pperditticcio. / Se no va trénto aglio cappéglio, pachi; / te ne refràj de giocà’ ’n pesticcio! // A ttòto, vènga l’oste, a crucittòppa, / sarda-la-quaglia, a cciómma, a ccuccitèlla, / a piccolo, la cócoja, la stròppa, / accantona pató’, a pprimierèlla. // Chi fa mmarìa-giulì, a mmaroncino, / gli-ambasciaturi co llombrì-lombrèlla, / accomp’accompagnata, aglio trenino, / aglio muretto a ffa’ sciuvicarèlla. // Co lla ’nfanga de piéna a pantanèlla, / a ggiro-girotondo, a ttira i mmòlla, / agli quattro cantuni, a ccianciarèlla, / a ddama, a ttana, a ppòrta ’n cóglio ’ncòlla. // Jo licco a bòccia, buzzico a ppiastrèlla, / a battimuro, sénti bòtt’a nnaso, / a ppònzi , a ccelandró’, a gguattarèlla, / i a mazzócchio. Qua’ atro n’è remaso? // Campana, a ffio, chi jó tè’ j’anéglio? / La curicórza, a ccappellitto a ccòrda; / pisa-ppisèlla, vòta votaréglio. / I ddella guèra, chi ’n se ne recòrda? // ’No bbonétto de carta, de cartone, / ’n fucile de cannucci a baionetta, / ’no sciabbolone a ccénta de vastone, / ’no mérco de sassata, ’na collétta. // De tòtari ’na bbanda; tammurèlle, / du’ cupérchi de latta pe gli piatti, / ttettè ócca, sgunfio de mascélle, / baj de cani, gnao-gna de jatti. // Se déva che qqua’ llippa, qua’ ppatóne / ésse a ffenì’ de sotto aglio Sticcato, / sfascésse la vetrina de Bettone / o qua’ finestra deglio vicinato. // Comme fra ttante stelle degli fòchi, / ’n fa’ a ttémpo a scélle qua’ è lla ppiù bbèlla, / così la curicórza de ’sti giochi / me fa jo sardaréglio alle cervèlla. // Revédo a cchigli témpi della scòla / i fatti bégli i bbrutti de tant’agni. / U gni cretìte, ca ’no gnuto ’n gola / me strégni i qquasi me fa sbottà’ a ppiagni! // ’No muccozzuzzo, scàozo, ridènno, / me disse: – Tu, bégli’ò’, co cchi fa’ a ppalla? / ’J responnì, confuso, trettechènno: / “Co gli compagni mè…. a…. Santa Calla!”
 
Ecco alcuni giochi di una volta di Segni: attacicarella, acciomma, bùzzico, caggiòssa, campana, quattro cantuni, castelluccio, celandró(ne), crócoja, crucittòppa, ’gguattarèlla, lippa, locchitto, maroncino, mazzócchio, musa, ’ncavallitto, ’otaréglio e votaréglio, piccolo, pisa-ppisèllo, ruzza-razza, sardalaquaglia, stampantera, zomba-accostamuro. E qualche definizione: castelluccio (gioco per ragazzi fatto con nòccioli di pesca. Se ne dispongono tre per terra a forma di triangolo, un quarto si poggia su di esse, se ne costruiscono più di uno , poi a sorte il primo che tira cerca di farne cadere il più possibile; cernimmonéta (gioco di bambini; più che un gioco è una nenia che cantava così: cernimmoneta le donne so dde seta j’omméni so dde stoppa a Giovagni la caramélla mmócca. E così cantando e dondolando, il bambino si addormentava); maroncino (gioco tra ragazzi con monete di metallo. Su queste monete,sistemate a pila e tutte mostranti la stessa faccia, si colpiva con un sasso ben levigato per rovesciarne l’altra faccia).
 
Dalla tesi di Anna Corsi informa che ad opera di Henry P. Leland – un pittore-viaggiatore americano che ha scelto di visitare Roma e i suoi dintorni. Apparsi a puntante sul Continental Monthly,tra il 1802 e il 1863, i suoi resoconti di viaggio diventeranno il testo Americani a Roma (1863) – nella seconda parte di questo libro, dedicata a Segni ed ai suoi abitanti si può rintracciare una testimonianza interessante delle tradizioni locali (raccontate dai nostri poeti). Nel capitolo VI dell’opera citatatroviamo testimonianza della “giostra del maialetto”:
“Poi arrivarono sei contadini, giovani, robusti, ognuno armato di una scopa lunga tre o quattro piedi, fatta di vimini legati, che assomigliava alle nostre verghe prive di manico. Entrarono nell’arena o cisterna e si tolsero il cappello: avevano un grande sacco di lino a punta legato sulla testa e sul collo in modo che non potessero vedere. Su ogni sacco, in maniera rozza, era dipinta una faccia buffa. Alla gamba destra di ciascuno era legato un campanaccio. I sei, pronti ad iniziare la giostra, si preparavano roteando le scope. Il maialino fu introdotto nella cisterna e la sua presenza su sottolineata dal pubblico con ura e applausi. Finalmente si diede inizio alla giostra: le scope agitate qua e là sibilavano nel tentativo di colpire il maialino”(H. P. Leland, Americani a Roma ( a cura di Elisa Tordella), Marco Lamberti Editore, Cassino, 2002, p. 160-161).
 
Pippo Fagiolo detto Peperone rievoca le tradizioni popolari segnine, non solo La córza ’glio porcèglio ma anche quelle dei paesi vicini: i Muntellanichisi jo “Romaglio” / fâo, che nu dicîmo la “Cuccagna”: / du’ fiaschi, quattro ’gline co ’no vaglio.
 
4.4 La gastronomia
Ricette d’autore sono quelle del poeta di Segni Remo Fagiolo che dedica alle specialità gastronomiche locali la godibilissima sezione “Penzènno i pastechènno” (pensando e masticando) della raccolta Tra lume i llustro. Qui vengono descritti ingredienti e modalità di: le fregnacci, i cazzacci, i spachétti alla carbonara, frascatégli alla ricotta, pane sótto co gli faciòli, baccalà ’n quazzetto, pellastro i ppeperuni, pummitòri repîni de riso, e naturalmente, non poteva mancare J’appallócco, cioè un impasto di fave cotte infrante con aglio e olio.
Ed ecco la ricetta di Fagiolo:
Quanno le fave se só’ sframaccate,
scóla l’acqua aglio sciacquaturo;
tógli ’na cucchiara de legname
i ggira alla pignata comme ’n tartùro;
smóvi le fave co ffòrza reggirata,
fa’ cunto de sta’ a ffa’ la marmellata
’Ntanto óglio i aglio sfrìj a ’n tecamino
co ppó de sale i ppeperongino.
Quanno ch’è beglio i rrosolàto,
ètta tutto trénto alla pignata.
Lo sfritto co lle fave s’è ’mpattato;
’i da’ ccosì l’ùrdima reggirata.
Revòteca tutto a ’n piatto spianato
I gli’appallócco è bbéglio i ppreparato.
È bbono callo co lla pizza o jo fallone;
se è friddo è mméglio: è comme glio turone;
i se tté jó magni la dì apprésso,
pe ’n par de giorni non conùsci cèsso.
Infine un’ultima citazione di Remo Fagiolo: dalla poesia “Comme se fâo i mmaccaruni”: Ècco i maccaruni bbégli i ffatti, / stisi aglio capistéro pe èsse còtti; / sénti le vuci comme ttanti canti, / repète appiù non pozzo: frégna quanti!
 
5. I testi in prosa: il teatro, i racconti
 A Segni l’Associazione Porta Saracena ha condotto numerose attività, soprattutto teatrali (frequenti e seguite con passione dalla popolazione) in particolare in dialetto segnino, protagonisti Remo Fagiolo e Aldo Zangrilli, ambedue eccellenti poeti e attori di straordinaria duttilità interpretativa. Altro personaggio che ha fatto la storia del teatro dialettale segnino la signora Maria Corsi-Ribechi, insegnate nell’elementare di Segni per tatnti anni, autrice di testi, regista ed animatrice di tante manifestazioni culturali. Tra gli anni sessanta e settanta furono portati sulle scene: Non è mai troppo tardi, I decreti delegati e La Funtana (commedia tragicomica sulla grande sete segnina).
A Segni è nato e si è sviluppato un dialetto in prosa di Enrica Fagnani che si ispira ai “Racconti della Segninità” (chiamati così da Emanuele Lorenzi), come Margarita i lle scarpe, Cappellitto. Il teatro è utilizzato anche a scopi didattici, infatti Ernesta Tosco da molti anni propone ai bambini originali commedie in dialetto e riscritture di opere .
Il teatro in dialetto a Segni è rappresentato soprattutto dall’opera del poeta Aldo Zangrilli che ha all’attivo un gran numero di componimenti in dialetto: Jo condomigno (1985); Viva er duce, Teatro in dialetto segnino (1991); La pizza (1992); Sor Ginetto. Commedia in dialetto segnino (1994); Jo fidanzamento (1997). “Zangrilli, dice Vincenzo Rori presidente dell’Associazione Pro-Loco “ha saputo armonizzare con un’efficace creatività la sua ispirazione più genuina, simbolo di quella esperienza di vita e di cultura popolare che lo ha portato ad una riscoperta di Segni, nella varietà dei suoi paesaggi, della sua gente, delle sue tradizioni per la cui connservazione egli si è sempre prodigato con ogni sua energia.”
Zangrilli nelle commedie in dialetto segnino in due atti Jo fidanzamento e Sor Ginetto tocca nella prima il tema dell’amore e nella seconda quello dell’attaccamento al denaro. Lo fa in quartine di endecasillabi con rime alternate (forma metrica quasi invariabile sia per le sue commedie che per le sue poesie) con un lessico ricco e vario, intimamente dialettale, con acutezza di indagine psicologica e con un austero giudizio morale pur in un contesto che sa sorridere e far ridere delle debolezze e dei vizi umani. Zangrilli “evoca – come sottolinea Ezio Colaiori – un mondo che va scomparendo, ma che si ricorda con tanto piacere nell’efficacissimo dialetto segnino dai ricchi valori semantici e di grande pregnanza, espressivo ed icastico per la sua notevole incisività.”
Riportiamo innanzitutto un brano da Sor Ginetto in cui Giuseppe (che fu interpretato sulla scena da Aldo Zangrilli in persona) replica ad una tirata in cui il protagonista giustifica la sua parsimonia e l’attaccamento alla roba:
 
Sì! Chésso è vero, caro sor Ginetto!
L’egoismo degli’òmo è nnaturale!
Nu ’j nascîmo co ’sto ròspo ’n pétto:
la léggi pprò ’nn è soprannaturale.
Iddio t’ha creato indipendente;
t’ha ditto: – Nône! Jo pomo gn’jó magnà’!
La córba, pró, è lla tè’ se ssi ffetente,
perché la léggi s’ha da rispettà’!
Comunque tu, pe staggi a cchésta vétta,
vòrdì’ jo posto jó sî mmeritato.
Dio è ggrande, ’n conosci la vendetta,
i ssenza meno a tti t’ha repescato.
Perciòne refrettàmo tutti quanti:
niciùno campa sempre, caro figlio.
Quanno che li capigli ’n só ppiù ttanti,
stîmo ggià quasi pe Ssant’Antoniglio!
’N credàmo ddura sempre la portrona.
’N tèra ’n se campa p’arivà’ pe pprima.
’Nne renghiudàmo trénto a qquarche ccòna,
tanto lo véro bbè’ sta écco ’n cima!
 
Da Jo fidanzamento ecco il primo dialogo tra Francesca (interpretata dallo stesso Aldo Zangrilli) e Arberto:
 
FRANCESCA
Cèrto, che se cchésta me sse sposésse…
sarìa comme di’: – Me sò’ spicciata!
Sarìa ’n ósso che se gl’jó consumésse…
Ma comme fa’ co cchélla sbreognata?
La pòzzan’ammazzàlla! E’ conosciuta
più éssa che Poppea i Messalina!
Aho! Me sembra ’na vacca ben pasciuta!
Se no sta a casa, sta alla Casilina!
Jo figlio sì, è ’no bravo giovenòtto!
Ma educato pro da chella matre!
Ma manco se vengésse ’n terno a llòtto!
I ppó, che penzarìano chess’atre?
 
ARBERTO
Quanno me vajo a ddormì, doppo magnato,
me rizzo sèmpre co ’na occa ’mara;
è comme se non fosse conzumato.
Sarâo i maccaruni alla chitara?
Fa’ po’ ’na cucometta de caffène
ca me sse rendorgésse ’sta occaccia!
 
Però jo suco tu, gno fa’ mmai bbène.
 
FRANCESCA        
Te pozzan’ammazzà’ a tti ’ssa lenguaccia!
Levamétte da tórno. ’N fa’ jo saputo.
’N piazza, de ti ne dâo tanti a mmazzo.
Te sî magnato sèmbre pane i sputo,
i mmo’ écco trénto va rombènno er “canzio”?
Comunque sa ’tte dicio: già sta fatto.
Stórzate! Prò ’sse labbra no nne sbatte’.
Ca simbri la sumara Buciofatto! (…)
 
6. I testi di poesia
Nella presentazione al Vocabolario del dialetto di Segni, opera fondamentale per il dialetto segnino e non solo (pregevoli e preziose, ad es. sono le citazioni inserite nel suo libro di brani poetici dei poeti segnini editi ed inediti ad illustrare questo o quel vocabolo) Emanuele Lorenzi afferma: “Né mancano i poeti in dialetto segnino, che hanno saputo tramandare l’antica (ormai) parlata segnina: Remo Fagiolo, Aldo Zangrilli, Luciano Vittori, Fernanda Spigone, Alfonso Sessa. Tra questi ancorché per diversa attività, va annoverata la signora Maria Corsi-Ribechi, autrice di testi e regista teatrale, per le rappresentazioni in dialetto, sempre molto apprezzate”. Emanuele Lorenzi ricorda tra i poeti defunti: “Pippo Fagiolo detto Peperone, Remo Fagiolo, Aldo Zangrilli e Francesco Iannucci, detto Passètto. Con quest’ultimo, malato e impossibilitato a uscire, ho trascorso molti pomeriggi a parlare il dialetto, a ricercare vocaboli e a ricordare vecchie tradizioni segnine.”
Non è stato possibile reperire altre notizie e testidi Fernanda Spigone, Alfonso Sessa e Francesco Iannucci, detto Passètto.
Da Filippo (Pippo) Fagiolo detto Peperone, autore della gradevolissima silloge poetica ’J so’ revenùto e della citata raccolta Nnòmmora segnine, servendoci del Lorenzi (p. XX – XXI) citiamo: Comme qquanno rappégli, jo rappéglio (rastrello) / qua’ ttutto pô lassa o qua’ mmeruglio, / qua’ nnòmmora, ccosì, a chist’appéglio, / se pèrde ’n méso a ttanto rattatùglio (confusione).
Sempre da Pippo Fagiolo, da “Le Missiuni”: Non dura tanta rascia aglio ranàro! / S’appésta de cruciacci i sse ’nforcèlla; / lo dóci è sopreffatto dallo ’maro, / recìccia pe’ gli còri l’ardichella. E dalla stessa poesia: Portamo l’armi de tutte le razze: / stigli, pugnali, stócchi, ’nfirzaturi, / puncoli, crastaporci, chióvi, mazze, /trincétti, rónche i llame de rasùri. Dedicata a Segni: Parto… ma non te scordo / spisso te remmentuo; / comme me tte recòrdo… / ’na lacrima me stuo. Da “Jo Laco” (un incantevole ritratto della zona, allora, meno abitata del paese): La cotanzìnzia vola / zigliènno co gli’ arìglio, / ficènno ’nganingòla / fra chisto ramo i cchiglio (La cutrettola vola, /frinendo con i grilli, / facendo l’altalena / fra questo ramo e quello). Da “La dì de San Bruno” di Pippo Fagiolo: Quant’òva rotte pe ffa’ tanta sagna! / Quanto lavoro pe glio stigniréglio! / Ój è San Bruno! Ój è festa magna, / la dine de San Bruno nóstro bbeglio! E sempre dalla stessa poesia: Vincenza tè’ la tóta: ’n arberito / ’na cèsa ch’è ppiù ranne télla méa / ’n po’ bbruttarèlla, mbè, de colorito / i più anziana…
Già da queste esemplificazioni emerge un poeta attento alle vicissitudini della vita di paese che sa abbozzare storie e personaggi locali con concisione e precisione di immagini e di termini del più arcaico dialetto segnino e spesso con coinvolgente ironia.
La “poesia di Peperone è soprattutto e, direi, in assoluto la rappresentazione viva, reale, immediata, di quella straordinaria commedia umana, animata e vissuta dai nostri padri” (E. Lorenzi, prefazione a ‘’J sorevenuto”, Ass. Porta Saracena, Segni, 1988). Una rappresentazione che, aggiunge Anna Corsi
nasce da un dialetto, aspro e spigoloso, che non accetta i cambiamenti apportati dall’italiano. E così nella poesia che dà il titolo alla raccolta troviamo un accorato e commovente saluto al paese dopo un lungo periodo di separazione. Saluto che si trasforma in triste rammarico a causa dei cambiamenti avvenuti e sopratttutto per la perdita del dialetto: Na cósa so’ nnotato, / i cche m’ha fatto effétto: / quasi se só’ scordato, / jo vécchio dialétto. Il dialetto è oggetto di un amore sincero, quasi morboso ed è rievocato attraverso un elenco, stupefacente, di termini ormai scomparsi: Me frùmica alla récchia, / comme parlèmmo nune. / La cócoja (trottola), l’ortécchia (fusaiolo) / peddélloci (da quelle parti), petùne (ad ognuno), / Se lùmmica, me ’ngènne, la léppe (neve), la raniccia (grandine), / rejàmo, tòccanénne, / la ’glina pentericcia (gallina colorata).
In Piazzélla de sa’ Stefano rivive il ricordo dell’infanzia e dei giochi antichi: “A llippa: lippo fóco se lla’ncachi / gnènte redderizzi i pperditticcio. / Se no va trénto aglio cappéglio, pachi; / te ne refràj de giocà’ ’n pesticcio! (un po’)” . (…) Ma il paese è anche fatto di litigi fra vicini e di pettegolezzi, e i divertenti quadretti di Segni allo frisco incarnano perfettamente questo aspetto: Ssa monicaccia scàoza (scalza), zamputa; / occhi pe ttèrra i ffa la santarella. / Co chélla zellacóta de Gertrùta / vâo a ccaccia la notte pe lla Rèlla.
 
Sappiamo meno del segnino Filippo Rapone. Dal nipote Emanuele Lorenzi ci sono trasmessi alcuni suoi versi nel Vocabolario, quali quelli tratti dalla poesia “Il dotto e l’ignorante”: Sor curà’, ’n’òmo gnorante / fa te bbatto a glio curato, / te ’na cósa mmés’a ttante / che ’na vòta so’ ’mbarato, / téngo tanta confusiò’ / me darìsti spiegazzió. (Signor curato, un uomo ignorante, / viene a dibattito con il curato; / di una cosa tra le tante, / che un tempo ho imparato, / ho una grande confusione, mi daresti spegazione?)
 
Nell’introduzione di Fausta Cialente alla raccolta poetica in lingua e in dialetto di Luciano Vittori Segni da interpretare, la scrittrice insignita del premio Strega 1976, dice di apprezzare la “forma più incisiva” della sua poesia quando, esprimendosi in dialetto “esce dai confini della realtà locale per includere nella propria osservazione comportamenti e valori più universali. (…) Nel suo linguaggio l’io, gli altri, le cose, il paesaggio si risolvono in una poesia ‘onesta’… incisiva eppur struggente come quando il discorso è dettato dal cuore e dalla mente di un vero e spontaneo poeta.” Si veda ad esempio la poesia “Stato d’animo”: Me so’ rizzato / co’ glio’ vénto della festa; / sarà ca è vacanza / o perché e ’na bella / giornata de primavera. // Mo’ vajo a glio’ Sticcato / pe’ azza la stella(aquilone). Graziosa anche un’altra composizione di Vittori, dedicata al vocabolo “Nuèlle” (in nessun luogo): Unico i assoluto / ’n tutto jo munno, / tra tante cóse strane / ippuro bbelle / a Segni ’j sta ’no pósto / che se chiama nuèlle / a ddó’ ’j vâo tutti / o no gni va niciùno.
 
L’opera poetica di Aldo Zangrilli, sia edita che inedita, in dialetto romanesco (quella giovanile) e in dialetto segnino (quella della maturità) è stata riunita nel volume antologico Aldo Zangrilli poeta segnino, a cura dell’Associazione Artisti dei Lepini, con presentazione di Ettore Mario Cappucci. Del Zangrilli c’è poi l’opera teatrale di cui trattiamo nella sezione a ciò dedicata.
Nella produzione in romanesco sono rilevabili i primi ed ancora incerti tentativi del poeta e vi prevalgono temi legati alla favola e al racconto per trarne una morale. Pur pagando il tributo ai maestri Belli e Trilussa non usa mai il sonetto ma quartine di endecasillabi, in numero vario (da una in su), in rima quasi sempre alternata. Le quartine in rime alternate rimarranno il suo metro fisso sia nella produzione poetica più matura che pure nelle opere teatrali. Zangrilli si riappropria del suo habitat naturale e la sua poesia, come osserva E. M. Cappucci: “acquista la completa facoltà di scegliere secondo il proprio calibro mentale e psichico; rivitalizza pensiero ed espressione perché meglio insinuabili tra le quinte del paese e più aderenti ai personaggi che si muovono sul palcoscenico locale.”
Aldo Zangrilli ha composto poesie in romanesco (ispirandosi a Trilussa) e in segnino. Le poesie in segnino sono più fluide e disinvolte rispetto a quelle in romanesco, grazie alla profonda familiarità linguistica. Infatti, come annota E. M. Cappucci “hanno i tratti di una filosofia densa, di un umorismo accentuato, e traducono in effetti timori e malumori e rasserenamenti temporanei, vigilati dalla speranza di recuperare a sé medesimo il significato integrale della vita”. Timori e malumori, come in Cardi i Castegni (altra raccolta di poesie dell’autore), in cui troviamo un rapporto speculare fra gli avvenimenti duri e pungenti della vita e il dolce frutto che in essi può nascondersi. 
A. Corsi fa notare come,
a differenza di Remo Fagiolo, Zangrilli usa una metrica più regolare, con sistemi di quartine con rime alternate, con madrigali come “J’occhi tei”, e sonetti come “Illusioni”. Non manca una propensione per i componimenti brevi e ricchi di ironia, ma anche per dei testi che con la loro comicità e la scioltezza di battute richiamano il teatro. Naturalmente il dialetto di Zangrilli è spontaneo, è una “voce popolare, certe volte stridula per certi passaggi audaci che oltretutto sono propri del parlare segnino” (E.M. Cappucci). È un dialetto meno ancorato alla tradizione rispetto a quello di Fagiolo. Oltre alle differenze linguistiche, Zangrilli tratta alcuni temi in modo diverso; l’amore è presente in maniera più esplicita ed è più “lirico”, senza accenti di ironia.
Nell’antologia citata una parte cospicua è dedicata a Segni o, per meglio dire alla “segninità” che l’autore avverte con singolare partecipazione, toccandone i vari aspetti: le vie, le usanze, i costumi, i personaggi, i mutamenti (alternando l’ironia, la tenerezza, l’indignazione). Di questa sezione citiamo dalla divertentissima “La patende”: I allora mo’ ’sti pôri giovenotti / j’amore te jo fâo in machinetta, / rendórti tra ssetili i gli cruscotti / comme gli serpi quanno stâo all’erta; dall’ironica “J’oggetto misteriuso”: Chesta,’nn’ene ’na cuffia fatta a dôa? – / – Ma che sta’ a dici? Fa’ po vede’! Uh! cetto! / Chessa, mo’, la si ’itta propio nôa! / Ma chesso ’nn ’o sa’ che è? È reggipetto! –; dall’intrigante “Jo vicinato”: Fin quanto che glio sole ’nn’ha calato, / ogni femmena anziana o sia zitella, / se fa fa’ tardi tra glio vicinato / a fa’ tra esse ’n po’ de communella. // I allora, mendre dici Filicetta, / Ida sende, però fa la cazzetta; / mendre Marietta, ch’è, po, la più zella, / resta a ôcca ruperta pe sentilla. Struggente infine è “I sette de marzo” (1944, data del bombardamento aereo su Segni da parte degli americani) con una mater dolorosa protagonista: Comme sentì la matre ’sto rumore, / se messe a côre abballe pe la Porta. / Ma tutt’a ’n tratto: Buum! ’no gran dolore / che te la stese a tera quasi morta. // Comme se resbiglià, ’sta pôra donna, / a fianco essa i steva ’n uttareglio; / co gli-occhi bboni comme la Madonna / se la guardeva comme ’n canucceglio!
Nella nostra scelta antologica si può leggere, tratta ancora dalla sezione “Segninità” la poesia “La piazza di Santa Maria” dedicata ad un suo luogo dell’anima (m’ha dato li natali). Dalla sezione del libro intitolata “Pensieracci” riportiamo in antologia “Jo miracolo” in prodigioso equilibrio tra il drammatico ed il comico. Ancora una volta protagonista una madre sopraffatta dal dolore. Nella parte intitolata “Liriche” commuove nel profondo “Destino”, il ricordo scarnificato di un primo appuntamento in cui due innamorati si incontrano, si guardano, non sanno spiccicare una parola (i gi ne potte dici una, una sola). Poi lei ’No mese doppo steva a Camposanto! In antologia un piccolo tenerissimo capolavoro dedicato a una donna-Leppa de neve (fiocco di neve). Tra gli “Epigrammi” una citazione dalla poesia “La morte”: – Tu che si’ ’n po’ poeta – me fu chiesto – / te’ paura della morte? Sii onesto! – Pe mi la morte, cara amica Rita, / è cosa che fa parte della vita. –
Remo Fagiolo, autore delle raccolte poetiche Cóse seri, scherzi i passonate, raccolta di poesie segnine, Tutto S. Bruno e Tra lume i llustro ha il grande merito tra gli altri di essere stato fedele custode di notizie e di vicende di persone di ogni levatura sociale della sua comunità e di avere dato forma scritta alla storia orale di Segni.
Per la conoscenza e le caratteristiche della sua poesia è fondamentale la disamina critica svolta da Luigi Volpicelli nella presentazione al libro Cóse seri, scherzi i passonate che, a nostro avviso, racchiude il meglio della sua produzione. Dice Volpicelli che “quello che maggiormente colpisce di queste poesie, è l’osservazione minuta ed accorta delle cose e degli uomini, e l’efficacia nel rappresentare. Ma in quelle che hanno per tema i vari aspetti e motivi della vita e dei costumi del paese nativo, questi due tratti assumono spesso una coloritura nascosta e sorniona di ironia, come un segreto compiacimento che le ravviva ben oltre il mero rappresentare.”
Ciò accade ad esempio in “La biastema più grôssa”, in “Jamericano”, “Jò telegramma”, “Jo portafoglio”.
“Ma la raccolta – prosegue Volpicelli – mostra una grande varietà di motivi e di temi” e se permane la caratteristica di fondo detta prima, la poetica di Fagiolo “si snoda e si articola in un modo quanto mai vario e ricco.” E ci sorprenderà quindi un’illuminazione lirica al termine di una favola, tutto sommato convenzionale (“La mula i gljo sumaro”): La notte remmomà co na ragliata / i la luna se sbiancà de tenerezza; seguirà l’avvicendarsi rapido e turbolento delle nubi (“Nuvole”): Nuvole bianche, nuvole nere / nuvole sparse o ammucchiate / stracinate dalle bufere / i daglio vento reccantonate. // Vao allammonte / vao allabballe che come i pensieri vote pesanti, vote liggeri / se non se scaricano non pó fà gnente.
Altre volte emozionerà il trepidante racconto di un’insonne attesa dell’arrivo di una befana di tanti anni fa: La notte ne giremo pe glio letto / atticchienno le recchi aglio rumore / ne sentemo sbatte jo core mpetto / contenno coglio arloggio tutte l’ore!; la potenza evocatrice del disastroso bombardamento di Segni in “7 marzo 1944 ore 15”, racchiusa in questi potenti versi: A chell’ora pe nisciuno i fu scampo / se rizzero puro i morti a Camposanto; la tenera rimembranza dei bambini azzimati nel giorno della prima comunione (“I Munichegli”): Tutti politi i bene remmonnati, / coglio vestito novo i glio libretto / camisa i pozzini ricamati, / cogl’jabitino i la mudaglia mpetto; una stoccata satirica (“Carnuvale”): Però se ne guardimo ntorno / carnuvale mò, è tutto janno oppure un’invettiva (“La superbia”): Oh! Oh! I chi sì tu? / Jò figlio deglio principe Colonna? / Cammini i guardi coglio naso nsù / i non saluti manco la Madonna! (…) Ma che te cridi de sta sempre écco? / i de tené longa la capezza, / prima o doppo te se chiudarà jo becco / immeci deglio addore lassi la puzza.
In altri casi, scrive giustamente il Volpicelli “non si sa se ammirare maggiormente l’intensità del sentimento, o la compostezza dell’espressione” ed un esempio di “efficace contenutezza” lo si trova in “Rimpianto”: Quanno no limó jò si spresciato / è nutile glio strigni e glio regiri, / jo sugo che teneva, te j’hà già dato / i na goccia ncaccia più manco se spiri. // Così succede a chi lavora tanto, / senza resparagnà sonno i fatica, / che gi remane? Solo jo rempianto / dav’è chiusa pe sempre la partita. In questa poesia e non solo, annota ancora Volpicelli, cogliendo il nucleo centrale della poetica di Fagiolo, “proprio il vernacolo segnino, il più stretto e autentico possibile, il più ‘chiattuto’ vorrei dire segninamente, diventa esso stesso materia e motivo ispiratore di efficace poesia. (…) L’uso del dialetto trova nella poesia del Fagiolo una sua piena giustificazione: non si tratta di un mondo poetico che poteva essere espresso in lingua, ad esempio; nasce intimamente e interamente dalla parlata segnina, e proprio da essa trae il suo maggiore motivo di ispirazione e il più felice contenuto, come non sempre capita negli altri poeti dialettali, anzi come capita raramente, il soggetto reale dell’ispirazione, insomma, è lo stesso dialetto.”
Significativa e da sottoscrivere anche la conclusione di Volpicelli che confessa il suo personale divertimento nella lettura di questo libro di Remo Fagiolo che ci aiuta a chiarire meglio “il perché dell’amore che portiamo al nostro paese, la sua stessa e più profonda singolarità di universo morale e culturale, che ha lasciato in ciascuno di noi qualcosa che gli altri (poveretti!) non potranno mai avere.” In antologia riportiamo da questa raccolta: “Piove-piovizzica!”.
In una dedica al libro, scritta di suo pugno da Fagiolo per Silvano Tummolo, sono sintentizzati il senso e le finalità dell’opera dedicata al santo patrono Tutto San Bruno: “perché possano trovare in queste pagine il motivo del nostro amore per Segni, genitrice feconda di civiltà millenaria, di uomini illustri, di lavoratori autentici, probi e tenaci, ricchi di mente e di braccia, che seppero in ogni tempo e dovunque tenere alto l’ingegno della Segninità!”. Il libro contiene anche una gustosa rievocazione (in prosa e in lingua) delle celebrazioni di San Bruno del 18 luglio 1933, poesie in dialetto dedicate a personaggi ecclesiastici e laici di Segni, alcune delle quali sono contrappuntate da simpatici ritornelli in calce di cui ne citiamo due: quello dedicato allo storico segnino don Bruno Navarra: Fiore d’Arnéglio, / tu scrivi i canti peggio deglio vaglio, / osservatorio si’ ’ncima a Pianiglio! E l’altro (presago) dedicato al celebre segnino Giulio Andreotti: Fiore de Pruno / se l’amarezza t’è venuta da vicino, / tanta dolcezza te la dà San Bruno.
La poesia di Remo Fagiolo si estende dagli anni Trenta alla seconda metà degli anni Ottanta del Novecento. Egli è quindi dapprima testimone dell’ultima fase di una civiltà ed economia caratterizzate dall’agricoltura, dalla pastorizia, dall’artigianato e da un grave disagio e poi dello sviluppo seguito al disastro del dopoguerra. I due diversi periodi storici si riflettono nella sua poesia dialettale. Acutamente Emanuele Lorenzi, massimo depositario del dialetto segnino, annota a tale riguardo: “Nella prima fase predomina incontrastato un dialetto ancora arcaico, caratterizzato da un lessico di difficile accesso, forte e aspro nella inflessione, anche se sempre vivace e colorito nella rappresentazione di situazioni serene e aperte alla speranza, sorrette dall’arguzia e dall’ironia…” Quello del dopoguerra e dello sviluppo economico è invece “un dialetto, un linguaggio più morbido, più duttile, più vicino alla lingua nazionale – perciò avviato inesorabilmente alla decadenza e al degrado…” Tuttavia il suo dialetto ha saputo opporsi alla diffusione della lingua italiana (indotta dalla scolarizzazione di massa, dalla televisione, dalla rottura dell’isolamento delle comunità lepine e dai rapporti di lavoro più intensi con le città e con la Capitale) attraverso “l’uso e il riuso di termini e vocaboli del vecchio dialetto” e adattandosi al nuovo rendendo dialettali le nuove terminologie. Ciò fa della poesia di Remo Fagiolo un punto di riferimento essenziale della cultura e della storia “minuta e quotidiana” di Segni.
Fagiolo, anche secondo Anna Corsi
utilizza un dialetto arcaico alle volte anche spigoloso, soprattutto nelle poesie precedenti la guerra. Si vedano termini come aglitégli (funghi), chiacchi (grappoli), scruccugliato (privo di forze), cència (straccio). Nel dopoguerra invece mostra la predisposizione ad accogliere termini italiani, sottoponendoli però ad una vera e propria dialettizzazione. Il dialetto nella sua vivacità permette di utilizzare un tono colorito e ironico nel dipingere la realtà e non presenta quei grandi limiti espressivi che si potrebbero immaginare. E così tutto si tinge di ironia, anche l’amore. In “Parla la mogli”e “Parla jo marito”, due componimenti speculari che con toni vivaci descrivono il rapporto di coppia, il marito è presentato come ’n’accrócco tutto scroccugliato e la moglie come ’na serlécoja. Accrócco non trova un riscontro diretto in italiano, perché il suo valore semantico è abbastanza complesso; può significare “oggetto di cui non si conosce il funzionamento” ma anche “uomo pieno di acciacchi e privo di forze”. Allo stesso modo serlecoja (dal latino siliqua: baccello, carruba) ha il valore di donna allampanata e prosciugata non solo nel corpo ma anche nell’anima. Eppure il finale mitiga l’apparente durezza di questi componimenti con una dichiarazione, seppur restia, di fedeltà coniugale e di amore. (…) Non manca in altre poesie il sentimento religioso, una religiosità che si fa semplice e disincantata come in “Quanno mme moro”e in “Mumenti”, dove Dio si fa bambino: Quanno me fissa co gli-òcchi ’n bambino, / sénto mme sfiora jo sguardo de Ddio.
 
E “Segni tèra méa” non a caso è la poesia che apre l’ultima sua raccolta Tra lume i llustro, una vera e propria dichiarazione d’amore e di riaffermazione della “segninità”: Oh tèra dóci, piena de ricordi, / tu me vedisti nasci, cresci i pasci! / Non te crede che dde ti me scòrdi… Di questa raccolta poniamo in evidenza, per le innovazioni dialettali conseguenti alla “novità” dell’auto, la divertente “La màchina” dove passa in rassegna le sue comodità e scomodità: La màchina a nafta o benzina / è na commodità, ’n c’è paragone: / parti de giorno o de mmatina, / retrìnti i réssi senza ’nteruzione; / appicci jo quadro, giri la chiavetta, / la màchina parte comme ’na saétta. Nella poesia c’è pure un vivido flash di un’ormai datata prima uscita domenicale di tutta la famiglia, in auto, con armi e bagagli al seguito: Quanno è la domenica mmatina, / la famiglia parte tutta ’n trómma: / denanti jo patre, la matre, la recazzina; / de rèto, la zia zitella, Giggi i lla nnonna; / ’n cima agl’imperiale, valìggi i cistri, / chirbe, bottigli i ’n paro de canistri. E che dire della saracinesca? … è ’no congégno che funziona bene; / rape i chiude; è féro i lamiera mista: / se repiega comme le catene. // Negozi, butteghe i magazzini / têo tutti la saracinesca; / addo’ i sta la ròbba o i quatrini, / chiude i rape comme ’na fantesca. E se si guasta, nessuna paura, ricorri al fabbro Peppe Machinetta o al fabbro meccanico Nino Lampìa. Ed ecco come mirabilmente descrive l’ascensore (“J’ascenzore”): E’ comme ’n credenzone a pennoluni / che ppassa pe lla trómba delle scali; / i ’mméci d’azzeccàlle a pecoruni, / te fa volà’ i tte posa senza l’ali. / Te’ jo spérchio i dde fianco la tastiera, / ch’è lluccichènte comme ’na dentiera. // Primo, secondo, terzo i quarto piano / stâo segnati co glio nnummerétto; / a ddó’ te vó fermà’ mitti la mano; / quanno parti, sénti la bbòtta ’n petto. In antologia da questa raccolta riportiamo: la divertente “’Na cóccia de caffè” e la malinconica “Settant’agni”.
 
Pietro Caporossi su “Cronache cittadine” del 30 gennaio 2005 (p. 3), ricordando le attività benemerite dei più di vent’anni di attività dell’Associazione Artisti dei Lepini, fa un resoconto dettagliato delle iniziative, nelle quali è stato riservato una particolare atenzione ad iniziative riguardanti il dialetto. Da questa fonte autorevole assumiamo, sottoscrivendole le considerazioni che seguono.
In particolare cita: le cinque “Giornate del Dialetto” (Gavignano, Sgurgola, Segni e Carpineto); le speciali sezioni di poesia e narrativa dialettale inserite nelle nove edizioni del “Premio Biennale Letterario Internazionale dei Monti Lepini” (Segni, Sezze, Norma e Carpineto); la premiazione di poeti e scrittori dialettali nelle cinque edizioni di “Autore dell’Anno”; la pubblicazione di raccolte di poesie, commedie teatrali, di vocabolari (Giovanni Baccari, Maenza; Iginio Ronzolani, Montelanico; e Emanuele Lorenzi, Segni) e Grammatiche (come quella di Giuseppe Onorati, Norma) o Antologie curate dal rimpianto Ettore Mario Cappucci (Norma e Sgurgola), hanno offerto, ed offrono, sempre più materiale prezioso per la conservazione e la promozione del nostro dialetto, che è il legame più vivo con le nostre radici.
Caporossi dà giustamente merito ai veri protagonisti, cioè i cultori del dialetto come Ettore Mario Cappucci, Emanuele Lorenzi, Luigi Zaccheo, Ferdinando Micocci, Luigi Roberti, Menotti Morgia, Gioacchino Giammaria e Italo Campagna. Ma “soprattutto – prosegue Caporossi – i poeti: Antonio Campoli, Alberto Ottaviani e Enzo Cavaricci, di Sezze; Antonio Restaini e Luigi Centra, di Roccagorga; Gigina Fasani-Panetti, di Maenza; Tonino Cicinelli e Cesare Chiominto, di Cori; Fernando De Mei, Giuseppe Onorati e Angelo Lampasi, di Norma; Luciano Vittori, di Segni; Nando Morgia, Assunta Trombetti, Lorenzo Spaziani e Italo Gori, di Sgurgola; Angelo Proietti Mancini, di Morolo e Celestino Carpineti, di Patrica. Questi sono personaggi sui quali riposano le nostre risorse dialettali che, purtroppo, si vanno sempre più riducendo. Ma questi, cantoridel nostro linguaggio e della nostra vita, esistono o sono esistiti in funzione di loro illustri antenati che appartengono ad una “rosa” di lepini che nel XX secolo hanno dato lustro alla poesia lepino-ciociara. Sono nomi altisonanti ai quali dobbiamo rivolgere la nostra ammirazione e la nostra gratitudine, che non è, né può essere di circostanza, perché siamo pienamente consapevoli della loro eredità” .
Partendo da Carpinetoricordamo Filiberto Galeotti, e Gioacchino Centra, del quale si sono sempre fatti grandi elogi, ma poco si conosce della sua opera, nonostante la lodevole iniziativa curata da Italo Campagna in “Il Capreo monte di storia e di poesia” (edito dal Comune di Carpineto Romano, è poesia in lingua italiana).
Passando agli altri centri lepini, non si può non citare il più grande di tutti: lo sgurgolano Attilio Taggiche portò la poesia ciociara nella Roma della prima metà del secolo scorso, in locali frequentati dal giovane Aldo Fabrizi, e Luigi Volpicelli e altri poeti romaneschi.
Seguono: Erminio Giuseppe Bufalini di Patrica con le sue “Poesie Patriciane”, pubblicate dall’Associazione Artisti dei Lepini, a cura di Gioacchino Giammaria.
Le poesie di Remo Amici di Gorga, sono state pubblicate dal Circolo Nuovi Orizzonti, nel dicembre 1998.
“I tre segnini Pippo Fagiolo, Remo Fagiolo e Aldo Zangrilli hanno – afferma ancora Caporossi – resa eccezionale una lunga stagione di poesia e di rappresentazioni di commedie nella “perla dei Lepini”. Non da meno fu Annibale Gabriele Saggi, di Norma, e Vincenzo Ronzolani di Montelanico. Interpreti di una poesia dialettale popolaresca: il maentino Arnoldo Sfori e il montelanichese Giuseppe Riccioni. Di Vincenzo Ronzolani, celebre il ricordo a Montelanico presentando la silloge “Na vota e mò” lasciata inedita dal poeta al momento della sua morte.
Ci sono stati certamente altri poeti a Sezze, Roccagorga, Bassiano, Sermoneta, Cori, Rocca-massima, Artena, Gavignano, Morolo e Supino, ma se ne conosciamo alcuni nomi per averli visti citati in qualche pubblicazione che ci è capitata tra le mani, non sappiamo assolutamente nulla della loro opera.”
Concludendo la sua rassegna sulla poesia e sul dialetto dei Lepini, Caporossi rivolge infine un caldo appello, cui ci associamo ben volentieri, alle biblioteche, alle amministrazioni comunali e alle Pro Loco locali “di non seppellire sotto il silenzio dell’indifferenza quanto di buono questi cultori del dialetto e questi poeti hanno potuto lasciare e di dare loro l’onore che meritano.
L’Associazione Artisti Lepini ha riservato ai poeti di cui ha avuto documentazione e opere, una segnalazione nel “Fondo Lepini” della Biblioteca del Centro Studi Italiani dell’Università Cattolica di Lovanio in Belgio e in altre biblioteche romane. Alcuni di essi hanno trovato spazio nell’indagine sul dialetto che la studentessa polacca Joanna Falkowaska ha svolto presso l’università tedesca di Heidelberg.
 
In un articolo di “Cronache cittadine” del 12 settembre 2004 di Fernanda Spigone (in cui si fa il resoconto di “Una giornata dedicata al dialetto segnino”, una manifestazione inserita nell’estate segnina, e tesa a salvaguardare le tradizioni e la cultura locale) vengono citati come intervenuti “poeti noti e meno noti del territorio lepino quali Porfirio Grazioli, Tonino Cicinelli, Giancarla Sissa, Angelo Proietti Mancini, Angelo Morgia, Cesare Maria Lepre, Roberto Ciaschi i quali hanno recitato testi di cui erano autori mentre la Sissa ha declamato versi del bravo poeta corese Cesare Chiominto ed il presentatore della serata, Luigi Proietti, ha dilettato il pubblico con versi del poeta montelanichese Ronzolani.
“Trattandosi di una manifestazione tenuta a Segni – annota Spigone -non poteva mancare l’omaggio ai poeti dialettali segnini tutti, purtroppo, scomparsi. E’ stato compito di Marilena Colaiacomo e di Giuliano Turco, bravissimi declamatori, far rivivere le belle pieces, dipinte più che narrate, nei testi dei poeti dialettali Remo Fagiolo e Pippo Fagiolo soprannominato Peperone. Mentre per Luciano Vittori ed Aldo Zangrilli sono state scelti testi nei quali il dialetto diviene veicolo di sentimenti garbati, nobili, al di fuori della comi-cità, testi in cui viene presenta-to il passato, non con rimpianto o nostalgia, ma viene celebrato poiché ricco di incommensurabili valori.
 
Antologia
 
REMO FAGIOLO
 
Piove – piovizzica!
Rezzecca na nebbietta mpertinente
mero jo fosso va verso la via,
l’aria è diventata strafottente,
jo celo è piino de malinconia.
Frecciano bassi bassi i rundinuni,
fischienno come giregli senza grasso,
l’ummidità s’attacca agli cazzuni
se ficca piano piano fino agl’josso.
La giornata è cupa i desolata,
gni sta speranza che resse jo sole,
la foglia daglio ramo sà staccata,
nsa ddó se posa, non sa addó more.
Prima glio tempo oj s’è fatto notte!
sparita è la grazia i la dorcezza,
sembra de sta, trento alle rotte,
respirenno n’aria de tristezza.
N’acquarella liggera i puncichente,
s’attacca appiccicosa comme colla,
aglio capo, agli vestiti della gente,
la pienara non corre i non fa bolla.
L’unica nota d’allegria
è sentì repete chella cantilena,
che sbiglia a tutti mpò de nostargia,
la dicano i uttari a voci piena:
“Piove i piovizzica
jo bove se reficca
se reficca alla cauta
ressi ressi ciammaruca”.
 
A settant’agni
Sî stupito, rembambito, bóno a gnènte,
guasto de mente i bbrutto de presenza.
Sa’ tutto tu, ma non capisci gnènte
i dde giudizzio no nne té’ ’n’assenza.
Té’ jo capo grusso fatto a mmaglio
i comme ’n caglinaccio té’ jo cóglio.
Quanno ccammini si ccomme ’ntruppaciócchi,
te étti ’n po’ denanti i ’n po’ derèto;
sî llèmme lèmme, sbatti i tenùcchi,
repigli fiato dóppo fatto ’n metro.
Tutto te ss’è ’bbassàto, puro i baffi;
i lla ócca, quanno ridi, fa le smòrfi.
Ippùro quanno che mme tté sò’ ttóto
eri ’no giovenotto tutto fóco!
Mo’ prò si ’no caretto sconucchiato:
te sò’ smorzato bene a ppóco a ppóco.
– Sénti chi parla, coteca spellecciata!
Si ccomme ’na callàra rebbattuta;
sî ppèggio de ’na conca ss’è slabbrata,
mucco de callaròsta reppezzata!
Jo naso appoppiùne tòcca la scucchia,
’no tènte sujo t’ha remàso ’mm ócca!
Sî ffredda pèggio della tramontana;
vista de séra, sî pprópio ’na bbefana!
’N capo t’hâo remasi pe ccapigli
i ciurli che rèssano alle sprógli.
Gnènte té’ denanti, gnènte a rèto,
la rèume te roseca i tenucchi;
a gli Santi pe tti la grazzia pèto,
pe ffatte remanì sarvati j-occhi!
Ma dóppo cinquant’agni de bbattagli
sîmo remasi ’n pétî alla frontiera;
sarâo certamente vécchi i pagni,
ma pe glio còre è ssempre primavera.
Recòrdate, Chetì’, s’ancora stîmo ’nzuno
’na mani ne l’ha data puro San Bruno;
ne l’ha data prima i ddóppo sposati,
i ttanti figli simo semmenati!
Gioventù, gioventù!
Pareva che non feniscésse ppiù.
Bastéva che gli cazzuni poséva a glio létto,
che scottolèmmo ’n atro pargoletto!
Ma quante giòi, quante apprenziuni!
Quanti dispiaceri, quante consolazziuni!
Ne sîmo compatiti i reccappàti
sempre tra nnu ne sîmo reiutàti.
Perciò se gli-agni n’hâo missi i difétti,
repenzamo quann’èmmo giovenòtti,
quanno ne scrocchièmmo i cunfétti
i ficèmmo j’amore a ppizzicòtti.
Comenzèmmo a vent’agni a ffà j’amore,
i mmo’ a settanta è glio stesso còre!
V’écco, Chetì’!
Accucciàmone da pôri vecchiarégli,
resonnàmone chigli témpi bbégli!
’N’assenza: essenza; fatto a mmaglio: testa sformata come una mazza; cóglio: collo; ’ntruppaciócchi: chi cammina disordinatamente; te étti: ti butti; che mme tté sò’ ttóto: quando ti ho sposato; coteca spellecciata: cotica scorticata; appoppiùne tòcca la scucchia: per poco tocca il mento; ’no tènte sujo: un dente solo; i ciurli: folti filamenti delle pannocchie; Chetì: Agatina; scottolèmmo: concepivamo un altro bambino; reccappàti: ricoperti, difesi; v’écco: vieni qui; accucciàmone: nascondiamoci abbracciati sotto le coperte.
 
ALDO ZANGRILLI
 
La piazza de Santa Maria
Ecco la piazza de Santa Maria:
’n trecento metri quadri de serciato
’na chiesa granne come ’n’abbazia,
’na strada indove ce se fa mercato.
È tutta qui, e lo po potete véde:
na scalinata fatta de granito,
che li vecchi se ponno mette a séde’,
p’ariscallasse ar sole quann’è ’scito.
Quattro botteghe fanno da cornice:
er bare, er tabaccaro, er salumiere,
e, manco si ’n bastasse, cara Bice,
l’emporio de Pilozzi er cavajere.
Qualunque via te porta in de ’sta piazza,
perché sta proprio ar centro der paese;
e a l’antre contrade, sarvo offese,
me sembra che ce vôja’ dà la guazza.
Se lo permette perch’è la più bella
de tutto er circondario: senza uguali.
Sbalorditeve, dunque, ner vedella.
Ortretutto, m’ha dato li natali.
 
Jo miracolo
Teneva cing’agni, pôra criatura,
i ’n poteva cammina’, me recordo!
Benché fu praticata certa cura,
gno potero più struggi chiglio morbo.
Fu ditto de portaglio a San Catallo,
’bbotato co cinturi i co parati,
in moto, se diceva, ca lo callo
poteva sciolle i nervi retirati.
Bbasta; appena la matre entrà alla chiesa
a vedesse denanzi chiglio sando
se messe a striglià’ a voci tanto stesa,
comme Zampitto quanno êtta jo bando.
– Grazzia, diceva, San Catallo mejo!
Reccoglitiglio o mannamiglio all’ara!
Ma se n’abbasta, manname lo pejo! –
E ’ntratando jó sbatteva a chella bara.
’Sta pôra criatura, sembre ’bbotata,
co tutto chello callo i chelle botte,
pe comm’era ormai tanto provata
girà du vote j’occhi, i bonanotte!
San Catallo: S. Cataldo, miracoloso protettore di Supino nel Frusinate; ’bbotato: avvolto; Zampitto: soprannome del banditore comunale di Segni; Reccoglitiglio…: fallo guarire mandandolo all’aia (all’ara) a lavorare oppure portatelo in cielo.
 
Leppa de neve
Finarmende fiocca aglio paese mene!
Dalla finestra me’ repenso a tine.
Leppa de neve, così e’ te chiamane
prechenno Dio che ’n te squaglissi piune!
Bianca eri tu quanno che te sposane,
quanno, commossa, tu dicisti sine!
Leppa de neve, così e’ te chiamane,
leppa de neve, dimme tu ddo’ stane!
La cerco ’gni momento, a ’gni cantone.
Da troppo tempo ormai ’na veto piune!
Bianco vestito chiuso aglio commone,
dimmello tu, dimmello tu ddo’ stane!
Leppa de neve: fiocco di neve; commone: comò, grossa credenza.
 
Cenni biobibliografici
Filippo (Pippo) Fagiolo, detto Peperone (Segni, 12 marzo 1886 – Roma 7 maggio 1966), poeta dialettale, autore di una raccolta di poesie ’J so’ revenuto, a cura di Emanuele Lorenzi, Ed. Associazione Porta Saracena, Segni, 1988. Descrisse il paesaggio e i personaggi locali con grande maestria. La sua poesia è la rappresentazione viva e reale della commedia umana vissuta dalle vecchie generazioni segnine ritratta con spirito arguto e coraggio.
Remo Fagiolo(1917-1989). Gestore dell’albergo ristorante Astoria di Colleferro, poeta dialettale molto noto ed apprezzato, ha collaborato a lungo con Radio Segni. Ha pubblicato le raccolte poetiche: Cóse seri, scherzi i passonate, Tutto S. Bruno, Tra lume i llustro. Attore nato, recitava le sue poesie con garbo ed abilità. È stato protagonista in molti spettacoli e ha messo in scena il suo recital Grazia San Bruno in occasione dell’VIII centenario della canonizzazione del santo protettore di Segni (1984). Un secondo recital Agli témpi de issi è stato messo in scena dopo la sua morte da Maria Corsi Ribechi. Le sue opere figurano nell’Indice Letterario dei Lepini. L’Associazione Artisti Lepini gli ha conferito nel 1991 un diploma honoris causa Cultura lepina alla memoria.
Emanuele Lorenzi. Nato nel 1924, di cultura profondamente cattolica, ha passato la sua giovinezza con gli amici Giulio Andreotti, Vincenzo Fagiolo e altri segnini diventati personaggi di primo piano nelle gerarchie italiane, vaticane e internazionali. Insegnante a Montelanico e Colleferro, è stato direttore del Centro di Lettura e responsabile dei corsi a Colleferro. Cultore del dialetto lepino, è stato segretario dell’Associazione Porta Saracena negli anni ’70 e poi dell’Associazione Artisti Lepini fino al 2002. Ha enormemente contribuito all’affermazione del Premio Biennale Letterario Internazionale dei Monti Lepini del quale è stato il segretario per diverse edizioni. Ha pubblicato nel 1997 il Vocabolario del dialetto di Segni, riedito nel 1998 e nel 2005. Ha elaborato studi critici e presentazioni sulle opere dei poeti segnini Remo Fagiolo, Aldo Zangrilli e in particolare Pippo Fagiolo detto Peperone. Ha curato per molti anni la cronaca locale sul mensile “Cuore della diocesi” di Velletri-Segni. Tra i primi nei Monti Lepini a curare e promuovere opere dialettali di poesia, prosa e teatrali, ha scritto monografie in occasione di convegni per le Giornate del Dialetto Lepino (Segni, Gavignano, Sgurgola, Montelanico e Carpineto Romano) ed è stato protagonista di manifestazioni culturali a Segni, Colleferro e Gavignano. Conoscitore di musica sacra (ha suonato l’organo nella cattedrale di Segni e cantato nella stessa con la sua voce ben impostata salmi e canti religiosi) è stato riorganizzatore con il parroco don Guglielmo Coluzzi della “Schola cantorum” della chiesa di Santa Maria degli Angeli, al tempo in cui il grande maestro e compositore Lorenzo Perosi era a Segni e dimostrava di gradire l’opera del coro. L’Associazione Artisti Lepini gli ha conferito nel 1998 il Trofeo dei Lepini e il giornale “Cronache Cittadine” nel 2003 un riconoscimento per meriti speciali. Le sue opere figurano nell’Indice Letterario dei Lepini.
Bruno Navarra(Segni 1925-2006). Mons. Navarra è stato autore di numerose pubblicazioni, soprattutto a carattere storico, il cui elenco completo è sul numero unico del “Cuore della diocesi” del dicembre 2006. Un suo ricordo è in Premio biennale letterario internazionale dei Monti Lepini, a cura
dell’Associazione Artisti Lepini del 2006. L’attività letteraria del Navarra ha conseguito il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri e il primo premio ex aequo nella prima edizione del premio biennale letterario internazionale dei Monti Lepini.
Filippo Rapone. Dal nipote Emanuele Lorenzi, sappiamo che è autore di un Vocabolario delle parole del dialetto segnino, manoscritto. Sempre Lorenzi cita alcuni suoi versi nel suo Vocabolario del dialetto di Segni.
Fernanda Spigone. Nata nel 1949, docente, poetessa, scrittrice di talento e pubblicista, è coordinatrice per Segni dell’Associazione Artisti Lepini. Dal 1990 è animatrice di incontri culturali come “Poetare perché” in collaborazione con il filosofo Paolo Broussard. È autrice di: I urlo della ginestra. Raccolta di poesie, 1997 e de L’Angelo e il cardo. Dramma in dialetto segnino. Atto Unico per il 54° anniversario
del bombardamento di Segni, del 1998. Ha scritto e scrive per i periodici “Cronache cittadine”, “I lepini” “Silarus”, “Il Cuore della Diocesi”, “Terra nostra”, “Il cittadino” e “La Provincia”.
Luciano Vittori. Maestro di scuola elementare e poeta, nato nel 1926, ha pubblicato ha pubblicato: Segni da interpretare (1983), con presentazione di Fausta Cialente, AsSegni a Vuoto. Una storia quotidiana dimbrogli e damore(1987) ,Per i Segni dAntichi e Nuovi Sentieri (1998), La ragazza di Vicolo della torre e altre poesie (1997). È morto nel 2001. Durante l’occupazione tedesca fu tra coloro che aderirono al gruppo di oppositori guidati da Bonomi e Palleschi. È deceduto nel 2001.
Aldo Zangrilli. Autodidatta, poeta, attore e commediografo, ha scritto poesie in dialetto romanesco e segnino. La sua produzione poetica in romanesco e in segnino è stata riunita nel 1981 nel volume antologico Aldo Zangrilli poeta segnino, a cura dell’Associazione Artisti Lepini. Cardi i Castegni è un’altra raccolta di poesie dell’autore. Zangrilli vanta una ricca produzione di opere riprese nell’Indice Letterario dei Lepini. È autore di: Jo fidanzamento, commedia in dialetto segnino in due atti, di Sor Ginetto, commedia in dialetto segnino in due atti e di Viva er Duce. Teatro in dialetto segnino, del 1991, scritta alcune settimane prima della sua morte.
 
Bibliografia
Fagiolo, Pippo detto Peperone, In dialetto segnino – Bozza primaria per un vocabolario in vernacolo segnino, manoscritto, senza data.
Fagiolo, Remo, Cóse seri, scherzi i passonate, raccolta di poesie segnine, Segni, Associazione Pro-Loco di Segni, s.d.
Fagiolo, Remo, Tutto S. Bruno, Comitato festeggiamenti 800° anni santificazione S. Bruno, Tip. Italprint, Colleferro, 1983.
Fagiolo, Remo, Tra lume i llustro, Segni, Tipolitografia Ferrazza & Bonelli, 1986.
Fagiolo, Vincenzo (a c.), Remo Fagiolo e Aldo Zangrilli: due poeti nella memoria segnina e lepina, Doc. di cultura lepina n. 4, Segni, 1992.
Lorenzi, Emanuele, Le nnòmmora segnine, Segni, Ed. Associazione Porta Saracena, 1987.
Lorenzi, Emanuele (a c. di), ’J so’ revenuto, Segni, Ed. Associazione Porta Saracena, 1988.
Lorenzi, Emanuele, Vocabolario del dialetto di Segni, Doc. di cultura lepina n. 32, Segni, 1997.
Lorenzi, Emanuele, Vocabolario del dialetto di Segni, Documenti di cultura lepina n. 32, Segni-Colleferro, Tipolitografia Ferrazza & Bonelli, 2005.
Luciani, Vincenzo, Le parole recuperate. Poesia e dialetto nei Monti Prenestini e Lepini, Roma, Ed. Cofine, 2007
Navarra, Bruno, La Segninità, appunti di storia locale n. 3, Segni, 1977.
Navarra, Bruno, Segni la città che scompare, Segni, Centro Studi Interdiocesano, 1979.
Rapone, Filippo, Vocabolario delle parole del dialetto segnino, manoscritto.
Spigone, Fernanda, I urlo della ginestra. Raccolta di poesie, Doc. di cultura lepina n. 41, Segni, 1997.
Spigone, Fernanda, L’Angelo e il cardo. Dramma in dialetto segnino. Atto Unico per il 54° anniversa-
rio del bombardamento di Segni, Doc. di cultura lepina n. 43, Segni, 1998.
Vittori, Luciano, Segni da interpretare. Una terra – Una gente, s.l., s.e., s.d., ma 1983.
Zangrilli, Aldo, Viva er Duce. Teatro in dialetto segnino, Doc. di cultura lepina n. 3, Segni, 1991.
Zangrilli, Aldo, Jo fidanzamento, commedia in dialetto segnino in due atti, Segni, Tipolitografia Ferrazza & Bonelli, s.d.
Zangrilli, Aldo, Sor Ginetto, commedia in dialetto segnino in due atti, Segni, Tipolitografia Ferrazza & Bonelli, s.d.
 
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