Tavola rotonda P.P. Pasolini ed Achille Serrao, poeti delle periferie

Gli interventi e i video della giornata del 14 ottobre 2022

Il Festival di Poesia dialettale Altre lingue, nel centenario della nascita del poeta P.P. Pasolini (1922-1975) e nel decennale della scomparsa del poeta Achille Serrao (1936-2012) svoltosi a Roma nel teatro Fortezza Est di via Laparelli, si è aperto il 14 ottobre 2022 pomeriggio, dopo saluto di Paula Gallardo Serrao e l’introduzione del conduttore Vincenzo Luciani con una Tavola rotonda dal tema Pier Paolo Pasolini e Achille Serrao poeti delle periferie, cui hanno partecipato Rino Caputo, Francesco Sirleto, Manuel Cohen, Luca Benassi, Gabriele Scalessa, Cosma Siani, Anna Maria Curci. E a conclusione intervento poetico e musicale di Vincenzo Mastropirro.

VINCENZO LUCIANI

Introduzione

Per amore di Achille. Questa iniziativa è per amore di Achille.

Noi (Paula ed io, il suo coro e la redazione di Periferie) ogni anno lavoriamo perché resti vivo il suo ricordo e perché quante più persone possibile conoscano la sua figura e la sua opera.

Per quello che mi riguarda è un atto di gratitudine per quello che ci ha lasciato.

Cosa mi ha lasciato in dote Achille?

Il dono della sua amicizia e della sua stima e delle opere, iniziate con lui e che continuo-continuiamo a svolgere:

Il Premio Ischitella (XX edizione quest’anno)

Il Premio Scarpellino (XII edizione il 15 novembre la premiazione)

Il Centro di documentazione Vincenzo Scarpellino (ora presso la BNCR)

La rivista Periferie (con la sua prestigiosa redazione)

L’impegno per la ricerca continua dei poeti delle altre lingue

L’impegno a trasmettere i suoi insegnamenti:

che la poesia è pazienza, nel saperla attendere, nella cura estrema, fino allo sfinimento;

che bisogna leggere i testi degli altri poeti viventi e non viventi, con attenzione;

che, se meritano, vanno fatti conoscere; se non meritano, mai fare stroncature: perché la migliore stroncatura è il silenzio;

che la generosità non è fessaggine;

che l’amicizia è sacra;

che lo sguardo periferico e appartato non mente (le cose vista dalle Periferie sono più autentiche e più vitali).

Quindi è per amore di Achille che faremo questa tavola rotonda e il reading dei 12 poeti di domani e tutte le iniziative in programma si inquadrano in questo contesto e saranno fatti insieme con gli altri eventi organizzate da Paula Gallardo e Rita Bastoni e dal suo coro

L’iniziativa di oggi prende spunto dal duplice anniversario di Pasolini (1922-1975) e Serrao (1936-2012) e intende sottolineare la feconda eredità di Pasolini in materia di lingue e di poesia nei dialetti d’Italia sia come poeta in lingua e in dialetto che come compilatore di antologia della poesia dialettale italiana. Eredità raccolta da Achille Serrao poeta in lingua e in dialetto e compilatore di antologie di poeti nei dialetti d’Italia.

Un altro aspetto che lega i due poeti è l’aver operato per la diffusione della cultura in ambito periferico ed in particolare nel territorio del V Municipio

Poesia dialettale del Novecento (Guanda, Parma, 1952) è un fondamentale studio critico di Pier Paolo Pasolini, coadiuvato da Mario Dall’Arco, sulle espressioni della moderna poesia dialettale italiana, rivendicata alla pari dignità di quella in lingua.

In Ragazzi di vita, (1955), si possono cogliere, nell’educazione sentimentale e intellettuale di Pier Paolo Pasolini, nonché nel suo patrimonio linguistico e antropologico-culturale, le incancellabili impressioni ed esperienze che, dal momento del suo forzato trasferimento a Roma, egli ha maturato con la conoscenza della città e delle sue sterminate periferie (le borgate beduine) tra cui in particolare i quartieri del IV e V municipio.

Sulla medesima scia si colloca Achille Serrao importante poeta contemporaneo, di riconosciuta traiettoria e pluripremiato, nonché studioso della poesia dialettale italiana e operatore culturale nelle periferie di Roma, in particolare del V municipio. Preceduta da un’intensa opera saggistica (sulla poesia di Mario Luzi e Giorgio Caproni) e dalla pubblicazione di sue raccolte in lingua, nel 1990 vide la luce Mal’aria, una plaquette di poche liriche, con una nota del poeta Franco Loi, in un dialetto campano arduo e petroso, che non abbandonerà più nella sua opera successiva. Come critico letterario è stato sempre “generoso” e ha mantenuto costante “un impegno senza tentennamenti per garantire spazi e visibilità alle migliori voci poetiche, in lingua e in dialetto”. Soprattutto nei confronti del dialetto ha sostenuto “la necessità di avere adeguati riconoscibilità e rango.”

L’intento della nostra iniziativa è quella di contribuire a rappresentare lo stato dell’arte della poesia dialettale italiana, secondo il metodo e il desiderio di Achille Serrao che alla riscoperta e alla valorizzazione della poesia nelle lingue locali ha dedicato gran parte della sua vita.

Il nostro Festival vedrà alternarsi, nell’arco di due giornate, alcune tra le voci più autorevoli del panorama poetico e letterario di Roma e di tutta Italia e non solo, insieme a cantanti che presenteranno brani “pasoliniani” e serraiani e formazioni corali che eseguiranno canti del repertorio tradizionale dialettale italiano.

L’evento si svolge qui alla Fortezza Est in via Laparelli 62 nel cuore di Torpignattara, uno spazio definito dagli stessi co-fondatori e co-direttori artistici “un contenitore fluido di arte e passione, di letteratura e teatro, di cultura popolare e produzioni contemporanee (…), un teatro, una libreria, una biblioteca, uno spazio d’incontro, ma soprattutto una casa, un luogo aperto a tutti, senza distinzioni, per misurarsi nella creatività, confrontarsi e crescere con e attraverso l’arte…”

Qui di seguito pubblichiamo gli interventi dei relatori

 

COSMA SIANI

L’opera letteraria di Achille Serrao

Achille Serrao ha scritto poesie in lingua italiana e in dialetto, opere di narrativa, e saggi critici  (tra questi, due sul poeta Mario Luzi, personalmente conosciuto negli anni di lavoro che Serrao passò a Firenze).

A trenta anni, nel 1966, Serrao pubblicava la sua prima raccolta poetica, in italiano, intitolata Una pesca animosa. Seguirono altri undici titoli, fra i quali si segnala La draga le cose, del 1997, una selezione di testi da tutti i volumi, italiani e dialettali.

Nel 1976 esordiva nella narrazione con Sacro e profano, ma il suo maggior titolo per la narrativa doveva essere il romanzo breve Cammeo, uscito cinque anni dopo.

Quando pensiamo a Serrao come importante autore dialettale, dobbiamo ricordarci che questa sua produzione comincia tardi. Il suo primo volume in dialetto, Mal’aria, è venuto nel 1990, quando l’autore aveva 54 anni.

I suoi esordi dialettali ebbero l’approvazione di personalità illustri. Mal’aria porta la prefazione di Franco Loi; il volume seguente,’O ssupierchio, del 1993, quella di Franco Brevini; il terzo,’A canniatura, dello stesso anno, quella di Giacinto Spagnoletti; due anni dopo Cecatella era introdotto da Giovanni Tesio.

Il 1995 apre un altro scenario dell’attività di Serrao. In questo anno infatti ’A canniatura viene pubblicato da una casa editrice svizzera nella traduzione inglese di Luigi Bonaffini, docente di letteratura italiana al Brooklyn College della City University di New York.

È l’inizio di una collaborazione che avrà sviluppi notevoli in seguito. Infatti fra i meriti di Serrao dobbiamo ricordare quello di aver contribuito alla diffusione dei poeti dialettali italiani negli Stati Uniti e in Canada.  Grazie all’apporto di Serrao, Bonaffini traduce e fa tradurre in inglese numerosi dialettali da tutte le regioni d’Italia, raccolti nei volumi Dialect Poetry of Southern Italy (New York, Legas, 1997) e Dialect Poetry of Northern and Central Italy (ivi, 2001).

Poco prima di passare al dialetto, Serrao pubblicava una scelta di propri scritti italiani, Cartigli (1989), che ci dà modo di ripercorrere tutto il suo cammino tanto in poesia quanto in prosa, da Coordinata polare, 1968, al romanzo Cammeo, 1981.

Cartigli vorrebbe dire “striscette di carta”, e Serrao chiama così le proprie poesie giocando sull’ambiguità della parola. “Cartigli” come lacerti, brandelli di realtà, soggetti a mescolarsi e ricomporsi in un ordine-disordine nuovo. E in fondo ogni tipo di scrittura rappresenta uno sforzo, consapevole o no, di mettere in un nostro “ordine” le percezioni della realtà che affollano la mente.

Serrao affida al peso dei cartigli, e cioè di ogni singola parola, molta parte delle sue intenzioni dirompenti:

  • “rasento la vita la / sento sfrigola sghemba forse per distratta / biogenia”; [nascita ed evoluzione degli esseri viventi]
  • “e abbarra, oh se abbarra la palizzata dei rifiuti”; [ostruisce]
  • e altri lemmi peregrini come gocciori, asperula, callida e callipigia, adèspota, ungheggia.
  • e invenzioni in cui il senso comune di un aggettivo si rinnova per l’insolito accostamento: “pelosa inerzia”, “angoscia plurale di settembre”, “amori intrighi saraceni”.

Non si tratta solo di lessico. Serrao gioca abilmente con le immagini, e ne crea di suggestive, come quando dice, in una delle sue poesie dialettali più belle (“Ducezza cimmarella”):

  • “E astipamìlle dint’ê mmane ’ncroce / ddoje suspire ’e vucchèlla arrubbacòre” (“Conservami nelle mani in croce / due sospiri di bocca rubacuori”)

È una poesia che val la pena di leggere per intero, nella versione italiana, e poi nell’originale in dialetto:

CIMA DELLE DOLCEZZE. Pensami che ti sto pensando / e fermala quest’aria, dolcezza cimmarella / dei giorni miei a venire, quest’aria / addolorata senza più colombelle, senza vigilia d’aria… // Per me conserva nelle mani in croce / due sospiri di bocca rubacuori, la voce / mentre ti sogna un merlo / merlo di serenata / mentre ti canta dolcemente un canto / al culmine della notte.

Tiéneme a mente ca te stò penzanno
e aparamèlla st’aria, ducezza cimmarella
d’’e juorne mieje ’a venì, chest’aria
’ntussecata senza chiù palummèlle, senza na veglia d’aria…
E astipamìlle dint’ê mmane ’ncroce
ddoje suspire ’e vucchèlla arrubbacòre, ’a voce
tramènte ca nu miérulo te sonna
miérulo ’e serenata
tramènte ca te canta doce ’a nonna
’mpont’â nuttata.

Complessivamente, possiamo ben dire che tutte le sue caratteristiche di scrittura collocano Serrao su un versante moderno, sperimentale, avanzato, nella produzione letteraria del Novecento italiano.

 

ANNA MARIA CURCI

Achille Serrao e Pier Paolo Pasolini scrittori della pluralità di lingue, di linguaggi, di culture

La pluralità di lingue, di linguaggi e di culture, scelta in un tempo in cui tutto sembrava andare in direzione di un auto compiaciuto monolinguismo, è segnale di una spinta al dubbio, di un invito a prendere in considerazione la varietà, la molteplicità, a dispetto dell’appiattimento, della banalizzazione, dell’omologazione. È una risposta alla versione unica, solo apparentemente unitaria e condivisa.

La scelta della pluralità va oltre il pur comprensibile vagheggiamento di una lingua primigenia, ‘autentica’, da opporre alla massificazione della parlata; è una scelta che esplora, e continua a percorrere, più vie. Seppure diversificato nelle origini, nelle manifestazioni e negli esiti, tale percorso accomuna la scrittura e, in senso più ampio, il processo di creazione artistica in Achille Serrao e Pier Paolo Pasolini.

In entrambi la critica al monolinguismo come espressione di una volontà di controllo e di manipolazione è evidente. Essa deriva da uno sguardo attento ai fenomeni di massa, alla evoluzione – o meglio, ai loro occhi, all’involuzione – della società; è una critica che si avvale di un udito finissimo per le cadenze, tanto per l’intercalare quanto per le note stonate, spie della menzogna. Sguardo attento e udito finissimo si riversano a loro volta nella creazione artistica, alla quale è poi l’intenzione del singolo autore a dare fogge diverse.

Un esempio delle affinità e delle differenze che può essere preso in esame al riguardo è il romanesco nel romanzo Ragazzi di vita di Pasolini e nel racconto-testo teatrale di Achille Serrao Storia di Francesco che guardava sempre con occhi di meraviglia.

In entrambi i casi, separati da cinque decenni di distanza quanto ai tempi di redazione, è evidente il carattere programmatico della scelta del dialetto romanesco, che contraddistingue i dialoghi e le parlate dei personaggi, mentre la descrizione del contesto narrativo è lasciata all’italiano. Il romanesco è legato indissolubilmente ai personaggi che lo parlano, ed è interessante notare che sono gli ultimi anni della seconda guerra mondiale e l’immediato secondo dopoguerra a costituire lo sfondo storico in tutte e due le opere. Tuttavia, proprio per la diversità dei personaggi e delle periferie prese in esame, la varietà linguistica scelta assume coloriture proprie in ciascuno dei testi.

Il gergo di Riccetto e degli altri ragazzi, che emerge per lo più in scambi di battute brevi, quasi ridotte all’essenziale, sembra infatti voler esaltare le asperità e gli scontri quotidiani. Il romanesco di Francesco, Checco, e di suo padre Felice, invece, introduce a una dimensione affettiva di confidenza e di sollecitudine, di autentica familiarità.

A differenziare gli esiti linguistici e le varietà espressive del romanesco nelle due opere di Pasolini prese in esame concorrono indubbiamente sia i segmenti di vita – situazioni, strati sociali, personaggi – che si fanno portatori di quella particolare varietà linguistica, sia, dall’altro, l’intenzione compositiva dell’autore.

Ragazzi di vita, del 1955, è un’opera che assume i tratti del romanzo picaresco e che, d’altro canto, si articola in episodi-capitoli che potrebbero costituire una sceneggiatura cinematografica.

Francesco che guardava sempre con occhi di meraviglia, la cui prima redazione risale al primo decennio del XXI secolo, è un testo teatrale che racconta le vicende di Checco e di suo padre Felice, carrettiere a vino che viaggia da Vermicino, dove abita, ai Castelli, da lì a Roma; incontra la storia dei tempi di guerra e dei primi anni del dopoguerra e di quella storia fa parte, osservando, apprendendo e insegnando, non depredando e imbrogliando, o tentando di farlo, bensì mostrando compressione, compassione e solidarietà.

Il testo di Serrao è costruito inoltre come un itinerario che abbraccia dialoghi, narrazioni e canzoni, itinerario che può essere seguito ed eseguito anche insieme a giovanissimi, tanto che ne nacque un progetto con gli alunni di una scuola elementare di Casal Bruciato.

La realtà che Pasolini presenta in Ragazzi di vita con esattezza documentaria, almeno nelle sue intenzioni, è di fatto una realtà già irrimediabilmente degradata e quella lingua violenta, aspra e non di rado smozzicata non potrà mai essere veicolo di riscatto sociale, sì che la desolazione dell’epilogo e l’inconcludenza delle avventure sembra anticipare le conclusioni di Mamma Roma, film del 1962, seconda pellicola con la regia di Pier Paolo Pasolini.

Non è possibile tacere, a tanti decenni di distanza, l’impressione che ebbe a caldo Elio Vittorini, il quale, in Diario in pubblico (1957), affermava: «Pasolini presenta, travestiti da  realistici, interessi [… ] essenzialmente filologici»; d’altro canto, è proprio la varietà del gergo scelta per presentare la quotidianità dei “ragazzi di vita” a mostrare, a una lettura odierna, la traccia forte del tempo trascorso.

Accompagno queste mie brevi riflessioni con due brani da ciascuna delle due opere, con l’invito a leggerle, a rileggerle e a coglierne gli accenti e le sonorità.

«Ma pecché?» rifece scuotendo la testa, tanta era la convinzione di quello che stava a dire, «si quarcheduno te chiede un piacere, perché ‘un je ‘o devi da ffà? N’artra vorta pe’ portatte un paragone, poteressi avè bisogno te, è regolare?» «Tu c’hai raggione,», disse il Riccetto, «ma si perdo ste du piotte domani che magno?» (Pasolini, Ragazzi di vita, cap. IV)
Per lunghi minuti tacquero. Felice ogni tanto si schiariva la gola con colpetti di tosse, Checco teneva gli occhi fissi sul disastro intorno. Intuendo le riflessioni del figlio, Felice sbottò a denti stretti: – Quante ferite! Pe’ ricucì sta Roma ce ne vorà de filo … – e “de filo” gli uscì in falsetto come se avesse cambiato voce. Checco commentò con amarezza: – Penza se tutto sto casino nun succedeva … mo’ ce starebbe gente pe’ strada … e invece, guarda, nun c’è nisuno … ma ndò’ stanno le persone? – Lungotevere vòto, ma dimme te … nun l’avevo mai visto – aggiunse Felice – Na vorta qui ce se ntruppava ce se, nun se poteva proprio camminà pe’ quanti annaveno e vienivano, così, tanto pe’ svagasse… –
Prese fiato, si schiarì la voce, poi continuò: – Na vorta qui era na goduria affacciasse a guardà l’acqua de Fiume, pijà na grattachecca ar chioschetto, verde, rossa, mischiata, come te annava … era bello, ah si era bello! – (Serrao, Storia di Francesco che guardava sempre con occhi di meraviglia, ora in Per Achille Serrao. A cura di Vincenzo Luciani, Cofine 2013, pp. 21-22).

 

ANNA MARIA CURCI, è nata a Roma, dove vive e insegna lingua e letteratura tedesca. Nata a Roma nel 1960,  Anna Maria Curci insegna lingua e cultura tedesca in un liceo statale. È nella redazione della rivista “Periferie”, diretta da Vincenzo Luciani e Manuel Cohen; per il sito “Ticonzero” di PierLuigi Albini ha ideato e cura la rubrica “Il cielo indiviso”. Ha tradotto, tra l’altro, poesie di Lutz Seiler (La domenica pensavo a Dio/Sonntags dachte ich an Gott, Del Vecchio 2012), di Hilde Domin (Il coltello che ricorda, Del Vecchio 2016) e i romanzi Johanna (Del Vecchio 2014) e Pigafetta (Del Vecchio, 2021) di Felicitas Hoppe.

Ha pubblicato i volumi di poesia Inciampi e marcapiano (LietoColle 2011), Nuove nomenclature e altre poesie (L’arcolaio 2015), Nei giorni per versi (Arcipelago itaca 2019), Opera incerta (L’arcolaio 2020), Insorte (Il Convivio 2022).

 

 

FRANCESCO SIRLETO

Sui luoghi della poesia di P.P. Pasolini

Che la poesia sia l’espressione dell’intuizione lirica del poeta e che, di conseguenza, sia del tutto irrilevante il rapporto tra l’artista e il luogo o i luoghi nei quali egli si trova a vivere e ad interagire con gli altri, è stato più volte sostenuto, anche da critici ed esperti di gran fama. Sappiamo, però, che la verità è ben differente. Su tutti gli artisti, infatti, il contatto con la realtà esteriore, soprattutto quando si tratti di una realtà difficile, che presenta un gran numero di situazioni problematiche dal punto di vista sociale, storico, ambientale, urbanistico, gioca un ruolo molto spesso determinante.

In questa sede, e nella circostanza di un evento dedicato a celebrare il centenario della nascita di Pasolini e il decimo anniversario della morte di Achille Serrao, non si può non trascurare il rapporto (affettivo, emotivo, conoscitivo, morale) che entrambi i poeti intrattennero con i quartieri (si tratta dei medesimi quartieri) della periferia est della Capitale.

Voglio, in particolare, dedicare questo breve intervento a spendere qualche parola sull’influsso che questi luoghi degradati ed emarginati (come lo erano allora, all’inizio degli anni cinquanta) svolsero sulla formazione di Pier Paolo Pasolini, tanto sulla lingua da lui prevalentemente usata in molte sue opere, quanto sull’ideologia e sulla poetica dell’intera sua produzione, almeno quella degli ultimi venticinque anni di vita.

Vorrei premettere che ci troviamo in un quartiere, Torpignattara, da Pasolini conosciuto e frequentato fin dal primo momento (fine 1950, inizio 1951) nel quale egli andò ad abitare a Rebibbia. In un quartiere nel quale egli conobbe i fratelli Citti, Sergio e Franco, che fecero da “maestri” nell’apprendimento del dialetto romanesco, non più quello del Belli, bensì quel miscuglio ibrido e imbastardito di romanesco e vari dialetti dell’Italia meridionale che era la lingua parlata in quell’ambiente. In un quartiere nel quale, a circa trecento metri da qui, in via Torpignattara n. 18, sorgeva la famosa trattoria-pizzeria “L’Aquila d’oro”, da lui e dai fratelli Citti e dai loro amici frequentata per anni, ameno una volta a settimana. In un quartiere, infine, nel quale Pasolini ambienta molte delle scene dei suoi primi film; senza dimenticare che, a circa un chilometro da qui, sulla Casilina, là dove finisce Torpignattara, inizia l’attuale Parco Archeologico di Centocelle (l’allora “pratone”), teatro di frequentazioni notturne del poeta, narratore e regista friulano.

Insomma, siamo nella periferia rappresentata nelle migliori e più famose opere pasoliniane, attraverso descrizioni di una realtà effettivamente molto difficile (le baraccopoli, le borgate “beduine”, polverose d’estate e fangose d’inverno), da ben lui conosciuta, fortemente e profondamente, e fin nelle viscere, nella sua caoticità e materialità, nella sua corporalità, ma anche nei suoi aspetti spirituali (sebbene l’accostamento tra materialità e spiritualità possa apparire un ossimoro).

L’incontro con la realtà sociale delle borgate periferiche, infatti, indusse Pasolini ad approfondire le problematiche, soprattutto letterarie ed educative (imperniate, queste ultime, sul ruolo degli intellettuali in una riforma intellettuale e morale del popolo) affioranti dalle riflessioni di Antonio Gramsci, che egli aveva già incominciato a studiare fin dalla pubblicazione, nel 1948, della prima edizione dei Quaderni del carcere. L’importanza e l’esito di quest’incontro e degli studi condotti da Pasolini sono rappresentati da quella raccolta di poemetti, pubblicata da Garzanti nel 1957, che si intitola Le ceneri di Gramsci, all’interno della quale si pone, quasi come dichiarazione di poetica, il poemetto, del 1954 (frutto di una visita di Pasolini alla tomba di Gramsci nel cimitero acattolico), che dà il nome alla raccolta stessa. L’altro e più importante poemetto della raccolta è “Il pianto della scavatrice”; sono entrambi componimenti nei quali Pasolini – come già aveva fatto nelle prime raccolte di poesie in lingua friulana e come continuerà a fare in raccolte successive, come “La religione del mio tempo” e “Poesia in forma di rosa” – rivela e rafforza la sua principale caratteristica, quella cioè di essere (sulla scia di Dante e di Leopardi) un poeta “civile”.

Per poesia “civile” ma, più in generale, per letteratura “civile” o, in termini gramsciani, “nazional-popolare”, Pasolini intende una letteratura che non rimanga (come era rimasta per secoli) nella ristretta cerchia dei pochi intellettuali (la maggioranza dei quali da sempre al servizio dei potenti), ma che si apra alle classi più umili e, soprattutto, sia rappresentativa dei problemi, della vita quotidiana, delle istanze e delle rivendicazioni di queste classi, svolgendo così una funzione educativa e proponendosi quindi come formidabile strumento di riscatto sociale. Tale tema, durante gli anni della dittatura fascista, era stato ricacciato e oscurato come marginale, così come erano state oscurate tutte le espressioni e manifestazioni linguistiche dialettali, periferiche, “allogene”.

Era invece proprio questo aspetto, quello cioè di voler dare voce, attraverso la letteratura, alle “marginalità”, che più attraeva un intellettuale come Pasolini, proveniente da una zona del tutto marginale come il Friuli e piombato nella realtà altrettanto marginale delle borgate e delle periferie romane. Niente, infatti, era più marginale dei personaggi che popolavano queste periferie, marginali perfino rispetto al modello di “masse proletarie” che il partito comunista si era creato come necessaria base sociale (nonché di militanza ed elettorale) di riferimento. Erano marginali quei Ragazzi di vita (Riccetto, Lenzetta, Caciotta, Alduccio, Begalone, Sgarone, ecc.) che popolavano le storie e i racconti confluiti nell’omonimo romanzo del 1955 e che, in seguito, riappariranno con altri nomi e nomignoli in Una vita violenta, del 1959. Quei personaggi (così amorali e privi di aspirazioni di rinnovamento politico, e rinchiusi in un loro asfittico piccolo mondo, tra baretti e furtarelli, e nel quale l’unica ragione di vita sembrava essere la sopravvivenza quotidiana) risultavano però “sospetti” ad una certa intellighenzia comunista (critici letterari soprattutto) che stentava ad assorbirli nella tradizionale nozione di “proletariato”. Rispetto a questi critici, autodefinitisi intellettuali organici del PCI, che si atteggiavano a ortodossi interpreti del pensiero gramsciano (un esempio tra tutti: Carlo Salinari), Pasolini si sentiva distante e portatore di una diversa visione del concetto di “classi subalterne”.

D’altra parte, soltanto un “marginale” ed “emarginato” e/o “diverso” come lo stesso Pasolini si era sentito dopo la cacciata dal Friuli e la sua discesa nell’inferno di borgate e baraccopoli (come, in quell’epoca, erano Rebibbia, Ponte Mammolo, Tiburtino III, Pietralata, Centocelle, Quarticciolo, Torpignattara, Pigneto) costituenti la periferia est di Roma, poteva sentire in sé la scissione che si porterà dietro fino all’ultimo istante della sua vita.

La scissione, si è detto; da una parte vi è la “coscienza”, vale a dire la consapevolezza della missione di cui, come intellettuale, egli si sente investito: lo sforzo educativo nei confronti di un sottoproletariato fermo allo status naturae, nel quale prevalgono gli istinti più elementari; dall’altra l’estetica passione, anzi l’amore per una vita “proletaria” ancora pura, primigenia, agitata dal calore degli istinti. E questa sensazione di contraddittoria scissione, nella quale a prevalere non è tanto l’aspetto del magistero intellettuale, quanto piuttosto l’intima e sentimentale partecipazione e condivisione, viene mirabilmente espressa nei versi de Il pianto della scavatrice, che si apre con le parole “Solo l’amare, solo il conoscere/ conta, non l’aver amato,/ non l’aver conosciuto. Dà angoscia/ il vivere di un consumato/ amore. L’anima non cresce più”. E, nella seconda parte dello stesso poemetto, Pasolini (che, nel momento in cui scrive, ha ormai raggiunto una posizione di intellettuale borghese non più coinvolto dalla dura lotta per l’esistenza nella quale era stato costretto nei tre anni, 1951-1954, di residenza nella lontana borgata di Rebibbia) esprime la sua struggente nostalgia per la città delle borgate e dei ragazzi di vita.

Rievoca così, con versi a volte accorati e dolenti, il tempo in cui “Povero come un gatto del Colosseo,/ vivevo in una borgata tutta calce/ e polverone, lontano dalla città/ e dalla campagna, stretto ogni giorno/ in un autobus rantolante:/ e ogni andata, ogni ritorno/ era un calvario di sudore e di ansie”. Ed è proprio in contatto con quell’umanità, sottoproletaria, fatta di uomini e di ragazzi “ridenti e sporchi”, “allegri e feroci”, un’umanità di “giovani invecchiati tra i vizi di chi ha una madre dura e affamata”, non ancora “educata” alla lotta di classe per il cambiamento in senso socialista della società borghese, ma dispersa in una realtà “umile e sporca, confusa e immensa, brulicante nella meridionale periferia”, che Pasolini ha conosciuto nel profondo, innamorandosene visceralmente, la “stupenda e misera città”; quella città nella quale egli ha imparato “le piccole cose in cui la grandezza/ della vita in pace si scopre”, come, ad esempio, “andare duri e pronti nella ressa/ delle strade; rivolgersi ad un altro uomo/ senza tremare … a difendermi, a offendere, ad avere/ il mondo davanti agli occhi …/… a capire/ che pochi conoscono le passioni/ in cui io sono vissuto:/ che non mi sono fraterni, eppure sono/ fratelli proprio nell’avere passioni di uomini/”; stupenda e misera città “che mi hai fatto fare/ esperienza di quella vita/ ignota: fino a farmi scoprire/ ciò che, in ognuno, era il mondo”.

Era la medesima realtà, umana e sociale, pre-industriale e pre-capitalistica – che Pasolini, dopo averne appreso il linguaggio e le dure abitudini di vita, descrive, con la più intensa partecipazione, a partire dal 1960, attraverso le immagini di pellicole quali Accattone, Mamma Roma, La ricotta, pellicole che hanno come sfondo i medesimi quartieri e le medesime borgate già descritte nelle raccolte poetiche e nei due grandi romanzi. Pellicole che, oltretutto, usufruiscono della collaborazione e della partecipazione dei fratelli Citti, tanto a livello di sceneggiatura (Sergio) quanto a livello di interpretazione (Franco).

Un rapporto, quello tra l’intellettuale Pasolini e i sottoproletari fratelli Citti, di fondamentale valenza pragmatica e simbolica: il poeta friulano svolge, nei confronti dei due sottoproletari romani, una funzione educativa che permette loro di crescere a livello di apprendimento e di conoscenza del mestiere cinematografico e, nello stesso tempo, di formarsi una coscienza o, per meglio dire, una complessiva “visione del mondo”; d’altra parte essi rappresentano, per il poeta, gli strumenti di mediazione tra sé e il ribollente e controverso mondo delle borgate, un mondo del quale era necessario innanzitutto impossessarsi del linguaggio e, in secondo luogo, delle vicende di degradazione e/o di tentativi di riscatto e di redenzione caratterizzanti le innumerevoli storie personali che formano la complessa e magmatica materia prima delle opere pasoliniane.

Una materia che, attraverso i versi i racconti e le immagini create da Pasolini, diventa “spirito”, cioè sentimento che fa da collante e tiene uniti, in un armonico ed estetico insieme, l’immaginazione e l’intelletto, producendo un’arte di elevatissimo livello artistico.

LUCA BENASSI

L’ambiguità del concetto di periferia nel pensiero e nelle opere di Pier Paolo Pasolini e Achille Serrao.

Pierpaolo Pasolini e Achille Serrao sono due poeti e intellettuali assai diversi fra loro e in certa misura non confrontabili. Non solo perché vi sono aree di esplorazione non coincidenti (il cinema, il giornalismo antropologico e sociale di Pasolini; la divulgazione del dialetto in ambito internazionale di Serrao), ma anche perché le poetiche e le scelte metriche sono sostanzialmente diverse: all’adesione all’ermetismo (da Coordinata polare del 1974 a Lista d’attesa del 1979) e allo sperimentalismo (L’altrove e il senso del 1987) del campano si contrappongono l’esigenza realista e civile del friulano. In Serrao la critica alla borghesia è fondamentalmente esistenzialista (Destinato alla giostra del 1974, Lista d’attesa del 1979 e sul versante della prosa Scene dei guasti del 1978 e Cammeo 1981), mentre assume un valore politico e antropologico per Pasolini. È poi di un certo rilievo, per quello che qui interessa, l’appartenenza a due diversi periodi del Novecento, considerato che quando nel 1975 Pasolini veniva assassinato Serrao aveva esordito da meno di un anno.

In questo panorama di diversità, il concetto di periferia è sicuramente l’elemento che più accosta i due autori e allo stesso tempo può mettere in difficoltà i critici. Vediamo perché.

La periferia nei due scrittori assume connotati diversi. Il primo elemento di rilievo è l’adozione di una lingua periferica che si sostanzia nella scelta del dialetto. La vocazione al plurilinguismo, tuttavia, si rinviene anche nelle attività di ricerca e di compilazione antologica: entrambi gli autori studiano e indagano i dialetti della penisola, e curano fondamentali antologie dialettali. Il rapporto fra dialetto e Pasolini è noto. L’autore di Casarsa cura insieme a Mario Dell’Arco, nel 1952 per l’editore Guanda, un’antologia della poesia dialettale del Novecento, seguita nel 1955 sempre per Guanda da il Canzoniere Italiano, antologia della poesia popolare italiana che raccoglie testi di vario genere e forme, canzoni popolari, testi narrativi, canti di contadini o di soldati, canti funebri, motti, espressioni burlesche e altro. Sono anni cruciali: Pasolini si è occupato criticamente del tema a partire da Dialetto e poesia popolare, testo critico del 1951 dedicato alla differenza esistente tra poesia dialettale e poesia popolare, fino a Passione e ideologia del 1958. Serrao si occupa di dialetto in diversi studi critici e attraverso la cura di antologie della poesia dialettale italiana del Novecento: Via Terra, Antologia di poesia neodialettale, del 1992; Presunto inverno. Poesia dialettale e dintorni negli anni novanta, del 1999 e Dialect Poetry of Northern & Central Italy pubblicata in America nel 2001 in edizione trilingue, dialetto, italiano, inglese. È questa un’operazione di fondamentale importanza in quanto, per la prima volta, il dialetto esce dai confini nazionali, viene tradotto e si impone all’estero come “grande poesia” al pari di quella in lingua.

La periferia, soprattutto urbana ma non solo, è anche un luogo geografico nel quale operare e sviluppare il pensiero. Achille Serrao cura di riviste e lavora nelle biblioteche nella periferia est di Roma. Fonda nel 2002 insieme a Vincenzo Luciani il “Centro di documentazione della poesia dialettale «Vincenzo Scarpellino»” con sede in Roma presso la Biblioteca Gianni Rodari (ora con sede alla Biblioteca Nazionale). Sempre con Luciani fonda e dirige la rivista Periferie e cura l’antologia critica Poeti di periferie (edizione Cofine nel 2009). Per Pasolini la periferia è anzitutto laboratorio di civiltà e umanità; gli fornisce occasione di scrittura (soprattutto narrativa, ragazzi di vita del 1955), materiale fecondo per lo studio antropologico, che trova sbocco nella saggistica e nel giornalismo “luterani” e nel neorealismo cinematografico. Bisogna però rammentare come il “laboratorio della periferia”, ben prima della vicenda romana, era stato per Pasolini occasione di impegno linguistico e civile. L’autore di Casarsa si era fatto attivo promotore nel 1943 di una scuola per l’insegnamento del friulano accanto all’italiano. L’esperimento era stato bloccato sul nascere dal provveditorato di Udine, ma Pasolini lo ripropone due anni più tardi con la fondazione dell’Academiuta di lenga furlana, una sorta di laboratorio linguistico per lo studio e la fruizione del friulano occidentale, che raccoglie intorno a sé alcuni dei migliori poeti dialettali friulani.

Ora, fra questi diversi punti attracco al tema della periferia è opportuno soffermarsi sul grado di ambiguità che connota questo concetto nell’opera e nel pensiero dei due autori.

L’annotazione più banale è che mentre Pasolini inizia a scrivere in dialetto per poi rivolgersi quasi esclusivamente all’italiano (esordisce in friulano con Poesia a Casarsa nel 1942 e abbandona definitivamente il friulano nel 1953, salvo riprendere il dialetto nell’antologia finale La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974), Serrao fa l’operazione contraria: scrive in italiano salvo abbandonare definitivamente questa lingua in favore di quella di caivano nel 1990 con Mal’aria.

In entrambi gli autori vi è una scelta di campo, un passaggio nel quale agiscono motivazioni personali ma anche intellettuali. In entrambi gli autori vi è un transito, geografico e linguisticamente inverso, Casarsa- Roma (rispetto al quale vi è coincidenza dal punto di vista del codice linguistico) e Caivano – Roma (dove invece il codice linguistico si muove in senso inverso). Si tratta di un passaggio periferia – centro che non è esente da elementi di fatica, dolore, mancanza e quindi di ambiguità. Esemplare è la vicenda di Pasolini, processato nel 1949 con l’accusa di atti osceni in luogo pubblico e di corruzione di minore, espulso dal partito comunista «per indegnità morale e politica», sospeso dall’insegnamento, il poeta deve riparare nelle Capitale insieme alla madre che si impiega come cameriera. Non si capisce Pasolini e la sua poesia in dialetto se non si parte da questo evento traumatico, da questa frattura psicologica ed emotiva rispetto alla propria terra dalla quale è necessario separarsi. Più borghese e meno traumatica è la vicenda di Serrao, che a Roma nasce a seguito del trasferimento della famiglia dalla Campania e nell’Urbe si laurea in giurisprudenza e trova impiego in un istituto di ricerca statistica. Dalla periferia (intesa qui non nel senso urbano, ma in quello campagnolo delle origini) si fugge e lo si fa geograficamente (trasferendosi nella Capitale) e linguisticamente (scegliendo una lingua). Entrambi gli autori la lingua la scelgono o l’abbandonano – una scelta che è temporalmente inversa – senza quasi mai coltivarla insieme, attraverso un processo che soprattutto di natura intellettuale, ma che affonda in un portato emotivo di sofferenza. Non è un caso che la lingua di Caivano non sia quella materna – dunque succhiata con il latte e praticata in prima istanza come invece accaduto per il friulano di Pasolini – ma quella paterna, virilmente scelta per una resa dei conti esistenziale, frutto di un paziente e attento studio linguistico e filologico. Le conseguenze sul piano tematico sono che la Campania di Serrao non è un luogo del ricordo, un paradiso perduto dell’infanzia, un Mediterraneo limpido e classico dove trovare tradizioni contadine e il piacere delle feste popolari. La terra di Caivano è invece un luogo di fatica, dove ci si sveglia all’alba e si va al lavoro (alla fatica) sotto la pioggia e nel buio che precede il mattino. Si tratta di un luogo stranamente freddo dove nevica, nel quale non si è definita una transizione da un’economia contadina (ormai in via di sparizione) a una industriale (non in grado di compiersi), dove non hanno posto i concetti di sviluppo e progresso (la cui dicotomia è tanto cara al Pasolini “corsaro”). Si tratta di una terra fatta di fessure (‘A canniatura, libro del 1993), grande metafora di un’esistenza a tratti sconvolta dalle cui ferite può passare la luce della poesia e dell’amore. In Serrao, la periferia contadina è dunque un luogo ideale e quasi mai vero, e la sua poesia fugge da intenti realisti e descrittivi. La scrittura di Serrao ricorda piuttosto la poetica di Dante Maffìa il quale affida ai libri in lingua calabrese la riflessione filosofica, mentre quando parla della terra di Calabria e dell’emigrazione preferisce usare l’italiano.

Per Pasolini il dialetto è un argomento complesso ma di natura tanto emotiva quanto intellettuale. Popolare, dialettale, periferico sono innanzitutto categorie antropologiche. Pasolini – nonostante adotti il friulano nella sua prima scrittura – può osservarle e studiarle proprio perché vi è estraneo. Egli scrive e osserva dalla statura e dalla distanza (anche geografica) dell’intellettuale. Vi sono almeno due categorie periferiche nel pensiero del poeta di Casarsa. Da una parte troviamo la periferia urbana: è un laboratorio dove si compie la mutazione antropologica del popolo in massa ad opera della società dei consumi. Un’operazione di asservimento che Pasolini imputa a una sinistra asservita allo sviluppo dell’economia e non al progresso della civiltà, e che nemmeno il Fascismo con la sua retorica e la sua propaganda era riuscito a compiere. Per il Pasolini “corsaro” e “luterano” della metà degli anni Settanta, che osserva una periferia ormai massificata e terziarizzata, impigrita davanti alla pervasività dello schermo televisivo, scrivere di ragazzi di vita freschi e vitali che si bagnano nudi nell’Aniene sarebbe stata cosa ormai impensabile.

Dall’altra parte vi è la periferia costituita dal mondo contadino e i suoi dialetti antichissimi. Si tratta di un luogo edenico fatto di cascine e borghi (l’ultimo Pasolini vede questo mondo nella quiete medievale della Tuscia, nella torre di Chia dove si rifugia a scrivere Petrolio, nei vicoli di Orte, nei boschi di castagni e faggi del monte Cimino), di volti segnati, di linguaggi remoti dove trovare custoditi valori e tradizioni dell’Italia più vera.

L’ambiguità consiste nel fatto che questo mondo non esiste. Lo stesso Pasolini riflette negli articoli raccolti negli Scritti Corsari di come questo mondo – al pari del popolo delle periferie urbane – vada mutando antropologicamente e scomparendo, imputando tale scomparsa almeno in parte alla crisi sociale e culturale della Chiesa cattolica. Il punto è che questa periferia contadina edenica non esiste perché è inventata “dall’alto”, da un’operazione intellettuale.

L’ambiguità di Casarsa, di Caivano, delle dune piene di mirto di Sabaudia o della torre di Chia risiede non solo nella volontà e nella necessità di un distanziamento e motivo e intellettuale che dalla periferia porta al centro, ma soprattutto nel rendere questi luoghi una “metafora dell’intelletto”, oggetto cioè di una scelta. Il loro essere oggetti periferici e distanziati rende possibile una scelta consapevole. Entrambi i poeti debbono non essere (più) periferici per scegliere la periferia, per studiarla, amarla, divulgarla. (Luca Benassi)

LUCA BENASSI è nato a Roma nel 1976 dove vive e lavora. Ha pubblicato le raccolte poetiche Nei Margini della Storia, (Joker, 2000), I Fasti del Grigio (Lepisma, 2005), L’onore della polvere (Puntoacapo, 2009) e le plaquette Di me diranno (CFR edizioni, 2011) e il guado della neve (CFR edizioni, 2012). È nella redazione di Punto Almanacco della poesia italiana. Ha pubblicato la raccolta di saggi critici Rivi strozzati poeti italiani negli anni duemila (Lepisma, 2010). Ha curato l’opera antologica Magnificat. Poesia 1969 – 2009 (Puntoacapo, 2009) che raccoglie l’intera produzione della poetessa Cristina Annino, l’antologia critica Percorsi nella poesia di Achille Serrao (Puntoacapo, 2013) e La casa dei Falconi, poesia 1974-2014 (Puntoacapo, 2014) che antologizza l’intera produzione di Dante Maffìa.

 

 

LE BIOBIBLIOGRAFIE E ALTRI VIDEO 

 

RINO CAPUTO (nato a Ischitella nel Gargano, Foggia, Puglia, nel 1947) è “Docens Turris Virgatae” ed ex professore ordinario di Letterature italiane presso la Facoltà di Lettere e Filosofia delUniversità di Roma “Tor Vergata”.

Noto critico letterario, è membro della Dante Society of America, condirettore della rivista «Dante» e direttore di «Pirandelliana».

Ha pubblicato saggi e volumi su Dante, Petrarca, Manzoni e il primo romanticismo italiano, Pirandello, e sulla critica letteraria italiana e nordamericana contemporanea.

È Presidente del Comitato Scientifico Nazionale per la Celebrazione per il Centenario di Pasolini.

MANUEL COHEN, è poeta, critico e saggista. È condirettore della rivista “Periferie”. Figura nelle redazioni di: «Ali», «Argo», «Carte Urbinati. Rivista di Lett. Ital. e Teoria della Lett. Dell’Univ. Degli studi di Urbino», «Il parlar franco», «Punto. Almanacco della Poesia italiana». Collabora con i periodici: «Atelier», «Letteratura e dialetti», «Poesia». Tra i suoi più recenti lavori: L’Italia a pezzi. Antologia della poesia neodialettale (in co-curatela con V. Cuccaroni, G. Nava, R. Renzi e C. Sinicco, Ancona, 2014); Appunti di Geocritica, per una mappatura della Poesia Italiana Contemporanea (ATM, Monaco di Baviera, Germania 2013). In poesia ha pubblicato: Altrove, nel folto (Roma 1990); e dopo venti anni di silenzio: Cartoline di marca (Teramo 2010); WinterreiseLa traversata occidentale (Sondrio 2012), L’orlo (Sondrio 2014), Tutte le voci (Arcipelago Itaca, 2016).

 

AURORA FRATINI è nata a Roma nel 1961, è laureata in Lettere ed è presidente dell’Associazione Culturale Terzo Millennio di Sambuci. È autrice e regista di 7 commedie in dialetto e 13 in lingua. Per l’Archivio Storico di Poste Italiane ha collaborato a diverse pubblicazioni, alla catalogazione di testi storici, alla realizzazione del fondo storico-fotografico dell’azienda e al recupero di reperti rari e antichi.
Su invito del Comune e della Parrocchia di Sambuci ha pubblicato opere dedicate ai culti e alla tradizione del paese. Si è classificata al primo posto al Premio di poesia e stornelli inediti nei dialetti del Lazio “Vincenzo Scarpellino” nelle edizioni 2011 e 2014; seconda classificata, al concorso nazionale “Salva la tua lingua Locale” 2014; prima classificata nello stesso nell’edizione 2015.Nel 2018 ha pubblicato per Ed. Cofine Aqquantu (All’improvviso), poesie in dialetto di Sambuci (RM).

VINCENZO MASTROPIRRO, poemusico nato a Matera nel 1960, pugliese di Ruvo di Puglia, vive a Bitonto (BA). È flautista, compositore, poeta, didatta.

Ha inciso oltre 20 CD, col Trio Giuliani e col Mastropirro Ermitage Ensemble e altre formazioni con un repertorio che va dal classico al contemporaneo.

Ha pubblicato le raccolte poetiche: Nudosceno (LietoColle, Faloppio 2007); Tretippe e Martidde / Questo e Quest’altro (G. PerroneLab, Roma 2009, ampliata e ripubblicata presso SECOP, Corato 2015); Poésìa sparse e sparpagghiote / Poesia sparsa e sparpagliata (CFR, Piateda 2013); Timbe-condra-Timbe / Tempo-contro-Tempo (puntoacapo, Novi Ligure 2016); Notturni (Terre Sommerse Roma 2017); Sud…ario (SECOP, Corato 2019).

Ha vinto il Premio Lerici Pea – Sezione dialetto nel 2015. Con Pezzecatìdde (Briciole) raccolta di poesie dialetto di Ruvo di Puglia nel 2019 ha vinto il Premio nazionale di poesia in dialetto “Città di Ischitella-Pietro Giannone”. Nello stesso anno la silloge è stata pubblicata da Cofine.

HENOS PALMISANO ha fondato a Roma l’associazione culturale “Polvere di stelle”, l’Officina delle Arti di Centocelle ed è Direttore Centro Studi UILT LAZIO che raggruppa centinaia di associazioni teatrali in tutta Italia. Laureato in medicina e chirurgia, con specializzazioni in Patologia Clinica e in Ematologia, dopo varie esperienze professionali è approdato nell’ospedale di Marino, rimanendovi per ben 37 anni. Contemporaneamente ha iniziato ad organizzare congressi, eventi e corsi di specializzazione di medicina. Negli ultimi anni si è cimentato con corsi di: cucina, sommelier, teatro, incontri culturali. Attualmente come redattore della testata giornalistica Abitare a Roma oltre che curare la rubrica enogastronomica segue gli eventi teatrali e culturali della Capitale.

GABRIELE SCALESSA (1977) ha conseguito il dottorato di ricerca in Italianistica presso la “Sapienza” Università di Roma. Si occupa principalmente di letteratura italiana dell’Otto-Novecento e ha scritto, fra l’altro, su Niccolò Tommaseo e il secondo romanticismo. Si occupa inoltre di poesia in dialetto: ha pubblicato diversi articoli su Salvatore Di Giacomo, Mario dell’Arco, Franco Scataglini, Luciano Cecchinel, la neodialettalità. È socio del Centro Studi “Giuseppe Gioachino Belli”, per cui ha curato il volume di atti Sergio Corazzini. Un poeta fra lingua e dialetto (Roma 2008), Suoi scritti sono apparsi su «Periferie», «Il 996», «Studi medievali e moderni», «Pagine», «Polimnia», «Capoverso », «Studi (e testi) italiani», «Sincronie», «In limine. Quaderni di letterature viaggi teatri», «Il parlar franco», «L’abaco», «Rassegna della letteratura italiana», «Linguistica e letteratura».

COSMA SIANI insegna Lingua inglese all’università di Roma Tor Vergata. Ha scritto testi e saggi di glottodidattica (Zanichelli, La Nuova Italia). Collabora all’Indice dei libri del mese. È autore di una raccolta di recensioni letterarie Libri all’Indice e altri (Manni, 2001).

Fra i suoi numerosi contributi sull’opera di Tusiani Le lingue dell’altrove. Storia testi e bibliografia di Joseph Tusiani (Roma, Cofine, 2004), Baretti a Londra e altri saggi su Joseph Tusiani (Firenze, Pagliai, 2013).

Per le Edizioni Cofine ha pubblicato Poesia dialettale del Gargano. Antologia minima (1996), L’io diviso. Joseph Tusiani fra emigrazione e letteratura (1999), In 4 lingue. Antologia di Joseph Tusiani (2001), Dialetto e poesia nel Gargano (2002), Achille Serrao poeta e narratore. Antologia della critica e biobibliografia (2004), Le lingue dell’altrove. Storia testi e bibliografia di J. Tusiani (2004).

 

FRANCESCO SIRLETO, calabrese ma immigrato da bambino a Roma, ha svolto per circa 40 anni (dei quali ben 31 anni nel liceo Benedetto da Norcia) la professione di professore di storia e di filosofia. Come studioso, si è occupato di storia locale e dei movimenti per i diritti alla casa e ai servizi sociali. È stato anche, in periodi diversi, consigliere nell’ex VI Municipio di Roma. Tra le sue pubblicazioni: Le lotte per il diritto alla casa a Roma (Associazione culturale A. Tozzetti, 1998), La storia e le memorie (Associazione culturale Viavai, 2002), Quadraro, una storia esemplare (Ediesse, 2005). Ha tradotto, dal tedesco, con P.S. Neri, il manuale di Patrologia di Hubertus Drobner (Piemme 1998). Ha inoltre collaborato al Catalogo della mostra fotografica di Rodrigo Pais Abitare a Roma in periferia (Gangemi, 2016).

Nel 2020 ha pubblicato per Cofine il libro di recensioni Il piacere dei testi.

Collabora con varie riviste on-line, occupandosi di politica della scuola e dell’istruzione, di filosofia, di storia delle periferie urbane, di manifestazioni artistiche e culturali.

È incaricato del Presidente del V Caliste dei progetti finalizzati alla ricorrenza del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini

 

ACHILLE SERRAO (Roma 1936-2012), poeta, scrittore e critico, è stato direttore fino al 2012 della rivista “Periferie” e del Centro di Documentazione della poesia dialettale “Vincenzo Scarpellino”.

Ha pubblicato i libri di poesia in lingua: Coordinata Polare, 1968; Destinato alla giostra, 1974; Lista d’attesa, 1979; L’altrove il senso, 1987. In dialetto campano di Caivano ha pubblicato: Mal’aria (1990), ’O ssupierchio (1993), ’A canniatura (1993), Cecatèlla (1995), Semmènta vèrde (1996), Cantalèsia (1999), Disperse (2008).

Ha inoltre pubblicato libri di narrativa e saggistica: Sacro e profano (1976), Scene dei guasti (1978), Cammeo (1981), Cartigli (1989), Retropalco (1995) e di saggistica (su Luzi e Caproni), Via Terra. Antologia della poesia Dialettale (1992), Presunto inverno. Poesia dialettale e dintorni degli anni novanta (1999), Il pane e la rosa. Antologia della poesia napoletana dal 1500 al 2000 (2005), Poeti di Periferie (2009).

Una raccolta degli scritti critici sulle sue opere, con cronologia della vita e delle opere e bibliografia completa dei testi e della critica è in Achille Serrao, poeta e narratore, a cura di Cosma Siani (Ed. Cofine 2004).

Le più recenti pubblicazioni: Luca Benassi (a cura di), Achille Serrao. Antologia,  Collana Aperilibri n. 3, ottobre 2016, pp.32, euro 5,00 (raccoglie la selezione di alcuni testi in italiano e in dialetto campano del poeta, scritti tra il 1961 e il 2012).

Achille Serrao, Una pesca animosa. Poesie 1960-64. Prefazione alla II edizione di Manuel Cohen, Collana “I libri di Achille Serrao” n. 1, ottobre 2018; il libro contiene anche una cronologia della vita e delle opere con alcune fotografie,  pp. 64, € 15,00

Achille Serrao, L’opera poetica (1968-1979), prefazione di Luca Benassi, Collana “I libri di Achille Serrao” n. 2, ottobre 2019, Roma, Edizioni Cofine, pp. 136, euro 17,00.

Achille Serrao. Antologia, a cura di Luca Benassi. Collana Aperilibro n. 3, Edizioni Cofine, 2016, p. 32, euro 5,00. (gratuita in PDF).

 

PER CONOSCERE ACHILLE SERRAO

Ecco una guida pratica per conoscere meglio il poeta, scrittore e critico letterario Achille Serrao.

Alla vita e l’opera di Achille Serrao è dedicato un sito, www.achilleserrao.it, amorevolmente curato e aggiornato da Paula Gallardo Serrao.

Nel sito www.poetidelparco.it indichiamo il link https:////www.poetidelparco.it/index.php?pag=9&id_profilo=659

per leggere e scaricare tre opere su e di Achille Serrao

Achille Serrao poeta e narratore, a cura di Cosma Siani, Edizioni Cofine, Roma, 2004

Era de Maggio. Riduzione in quattro atti dalla vita e dall’opera di Salvatore Di Giacomo di Achille Serrao, Edizioni Cofine, Roma,  (2006)

Il pane e la rosa. Antologia della poesia napoletana dal 1500 al 2000 di Achille Serrao, Edizioni Cofine, Roma, 2005

Nello stesso sito ecco il link della descrizione di queste altre opere di e su Achille Serrao

Torino & Roma: poeti e autori “periferici”, a cura di Achille Serrao, Edizioni Cofine, Roma, 2006

https:////www.poetidelparco.it/9_173_Torino-&-Roma:-poeti-e-autori-periferici.html

Poeti di Periferie di Achille Serrao, Edizioni Cofine, Roma, 2009

https:////www.poetidelparco.it/9_373_Poeti-di-Periferie.html

La soglia di Achille Serrao, poesie in napoletano e in italiano tradotte in spagnolo da Emilio Coco, e in inglese da Luigi Bonaffini, Edizioni Cofine, 2013

Per Achille Serrao, a cura di Vincenzo Luciani, Ed. Cofine, Roma, 2013,

il link https://www.poetidelparco.it/9_890_Per-Achille-Serrao.html

Infine la biobibliografia aggiornata di Achille Serrao https://poetidelparco.it/per-conoscere-achille-serrao/