Silvio Ornella, Ùa  /  Uva. Poesie 1996-2020

Recensione di Nelvia Di Monte

 

L’introduzione di Giuseppe Zoppelli, curata con precisi riferimenti testuali e viva partecipazione, presenta in modo puntuale le sei raccolte finora pubblicate dall’autore, qui riproposte insieme ad alcuni inediti, scritte in una variante del friulano occidentale della provincia di Pordenone. Un passaggio riferito alla silloge Timp in motu (2016) può essere preso come snodo di tutta la poesia di Silvio Ornella: «Un itinerario che attraversa paesi (…) peraltro non idilliaci, incontra genti, volti, gesti, sguardi, vite anonime, a volte segnate dalla fatica e dal dolore, ma ricche sempre di umanità (…) ma anche un cammino attraverso la natura, protagonista in molti di questi versi».

I testi delle prime sezioni di Rudinàs. Detriti (2001), prevalentemente brevi, hanno talora il sapore dell’inizio, quando si procede in tante direzioni con molteplici argomenti, quali  i riferimenti a luoghi e persone conosciute e riflessioni sulla poesia, che troveranno in seguito una più ampia attenzione. Più compatta e incisiva la sezione sulla guerra in Kosovo (gli aerei americani partivano dalla vicina base di Aviano).

Davvero notevole la successiva raccolta Ùa / Uva (2005), con uno stile ormai perfettamente in grado di esprimere al meglio la drammaticità delle tematiche affrontate in testi più narrativi, che spesso prendono spunto da notizie di cronaca. Come la poesia di apertura che ha per protagonisti quei morti In attesa di sepoltura perché mancano i loculi, “in una stazione d’afa / timidi di essere lì così / storditi come bambini sgridati (…) un frugare di parole / la segatura dei discorsi / fine fine / che vola sopra gli occhi”. Non è una scelta casuale, poiché per Ornella il mondo della vita comprende sempre coloro che, pur scomparsi, restano ben presenti nella memoria. Come la madre, figura aspra ma il poeta capisce l’origine di questa mancanza di sintonia nel loro rapporto (“Tu la seta della vita non l’hai mai accarezzata”) mentre va descrivendo un periodo che mostra i cambiamenti nella società contadina durante il boom economico italiano. Più solare e protettiva appare la figura paterna – nella poesia che dà il titolo e suggella l’intera raccolta – che si prendeva cura della vigna e della terra, e con i suoi gesti ha saputo infondere fiducia nel futuro. Se tutto cambia e scompare, se anche i ricordi si fanno confusi, almeno “i suns a no morin” (i sogni non muoiono), perché non sono astratte chimere, ma l’aspettativa di qualcosa che la nuova stagione può offrire: “Solo i tuoi gesti in alto / incontro al cielo di febbraio / ad accompagnare la vite / a sognare l’uva”.

Si intersecano continuamente l’ambito locale ed eventi di un mondo globalizzato e mai pacificato da cui giungono notizie e immagini. Guerre, persone dimenticate o trascurate,  figure ignote alle quali va una sincera empatia che si esprime con “peràulis di aga” (parole d’acqua) che assai poco possono contro morti e distruzioni, parole “come chicchi di grandine / dentro la bocca” di fronte a esistenze segnate dal dolore.  Una lingua, il friulano scritto ma non parlato dall’autore, che è fonte di contraddizioni: “lingua bambina” per lasciare sassolini e non smarrire la strada, e insieme lingua paterna, di un’esistenza contadina faticosa alla quale ben si adatta una “lenga di blava / ch’a tàia a zighi in miès” (lingua di granoturco / che taglia ad andarci in mezzo). Complessa e contraddittoria non è la lingua della poesia, è la realtà del vivere che le parole cercano di fissare, anche quando ormai troppo sembra scomparso: “Ma non è vero che non ci sono più luoghi: / si sognano nelle parole / e ti svegliano e ti colmano / come una terra leggera”. E di luoghi trattano i testi de Il paesagiu sculpìt (2007), di una “terra che è tua / adesso che non è di nessuno / come una lepre spaventata”. A ragione Zoppelli sottolinea la concretezza delle figure retoriche e delle immagini di questa scrittura: «corpose, terrigne, materiali».

Una bella e intensa raccolta è anche Il polver ta la mània (La polvere sulla manica, 2011), testi dedicati a tante persone: gente del posto, pittori, familiari, amici, esseri umani in generale, tutti ugualmente importanti e verso i quali l’autore mostra un atteggiamento di comprensione, talora con una velata ironia ma sempre con una sincera condivisione emotiva sia dei (rari) momenti di serenità sia delle situazioni drammatiche, come la poesia dedicata a Giuseppe Englaro che ha per titolo la frase con cui il primario dell’ospedale di Udine informava il padre di Eluana che la figlia “Je lade vie” (È andata via).

Nei testi di Timp in motu (Tempo incerto, 2016) emerge una caratteristica particolare della poesia di Silvio Ornella, che nasce sovente da una visione mobile, un movimento fisico lungo geografie reali che diventano mappe temporali dove restano impresse tracce di esperienze dentro un’atmosfera che tutto avvolge e comprende: “Lontàn a suna l’armonica / dai poi tal vint. / Li’ ombrenis lungis di setembri / coma il bras di un amigu ta la spala”  (Lontano suona la fisarmonica / dei pioppi nel vento./ Le ombre lunghe di settembre / come il braccio di un amico sulla spalla). Tanti gli argomenti toccati, colti dal paesaggio o da momenti vissuti, documenti e ricordi, come la cagnetta dell’infanzia, sognata “sola all’imbrunire: il pelo color miele / un velo sopra gli occhi buoni”, il fante morente della prima guerra mondiale che scrive alla moglie, i bambini di Bènkovac simili a passerotti che “beccano le briciole / che il mondo gli lascia / e crescono come l’erba matta”. Si tratta di solito di esseri semplici, spesso emarginati se non consunti dalla storia, dei quali “Rimane la crusca delle voci / solo, nel setaccio della pioggia”.

Sembra così poco, eppure la poesia sa cogliere il valore anche di ciò che appare un’inezia nell’economia del mondo, un inutile avanzo, il “grappolo d’uva appeso / frutta dimenticata dell’inverno”, come sintetizzato in un testo di Fadìa (Fatica, 2019). Le diverse immagini dell’uva, presenti qui e nelle varie raccolte, paragoni talora lieti (i “colori da toccare / da assaggiare / come acini maturi” dell’amico pittore), spesso dolorosi se riferiti a chi giace “ridotto come un acino marcio / dopo la grandine”, mostrano che il breve titolo Ùa di questa antologia riassume al meglio l’esperienza poetica dell’autore, che è andata ampliandosi e approfondendosi nella concretezza di percorsi, incontri, memorie, mantenendosi fedele ad un atteggiamento di umana condivisione verso la fatica dei viventi e non perdendo mai di vista l’obiettivo  di “Cusì i slambris. / Cusì i tacòns / ta li’ barghessis dai dìs” (Cucire gli squarci./ Cucire le toppe / sui pantaloni dei giorni). Una poesia che si fa gesto, che suscita quella corrispondenza che, nel testo conclusivo, si può vedere riflessa nell’attività de L’on dai rudinàs (L’uomo delle macerie) che crea sculture con sassi, ferro arrugginito e calcinacci. Simile è l’agire etico del poeta nel suo lavoro letterario: “E ti i u ciapis su / chei tocs dal mont pierdùt / dal mont ofindùt  (…) E lòur a parlin / cun vòus barbota / i vui di azùr vergognòus / ta un odòur carulìt di brea” (E li raccogli / quei pezzi del mondo perduto / del  mondo offeso  (…)  E loro parlano / con voce che balbetta / gli occhi di azzurro timido / in un odore tarlato di tavola).

 

Silvio Ornella, Ùa  /  Uva.  Poesie 1996-2020, puntoacapo Editrice 2021