ROMA

ROMA

 
1. I vocabolari e le grammatiche
Grammatiche
 
Tra i testi di grammatica del dialetto romanesco citiamo:
Fernando Ravaro, La lingua de noantri – grammatica romanesca, ed. Centro Romanesco Trilussa, Roma, 1984
Peppe Renzi, Elementi essenziali di grammatica romanesca, ed. Accademia Belli, Roma, 1998.
 
Dal suo libro Dar trapezzio vocalico ar sonetto. Manuale di linguistica romanesca, retorica e metrica con sonetti scelti (Terre Sommerse, Roma, 2010), il glottologo e poeta Claudio Porena ha estrapolato, per il nostro sito, il seguente profilo di grammatica romanesca, semplificandolo, ma senza nulla togliere alla completezza e all’esattezza del quadro.
1) FONETICA. I. Il dittongo italiano , esito della Ŏ breve in sillaba aperta tonica del latino, torna ad essere nel romanesco una ò aperta come nel latino.(p. es. lat. hŏmo < it. uomo ~ rom. òmo; lat. bŏnus-a-um < it. buono ~ rom. bòno; lat. nŏvus-a-um < it. nuovo ~ rom. nòvo ecc.). II. Si conserva la e originaria del latino sia in protonia sintattica, cioè in pròclisi (quando cioè fa parte di una parola atona appoggiata alla parola tonica seguente), sia in ènclisi (quando cioè fa parte di una parola atona appoggiata o, meglio, agglutinata alla parola tonica precedente; p. es. in pròclisi: it. sono romano di Roma ~ rom. sò romano de Roma; it. ti vuole molto bene ~ rom. te vò bene assai; it. mi stai ascoltando? ~ rom. me stai a sentì? ecc.; p. es. in ènclisi: it. mettimi subito il profilattico! ~ rom. metteme subbito er guanto!; it. statti zitta! ~ rom. statte zitta! ecc.). III. Le vocali postoniche di alcune parole sdrucciole o bisdrucciole subiscono un’alterazione qualitativa rispetto alle corrispondenti italiane (es. it. stomaco ~ rom. stommico; it. eccoti~ rom. ecchete; it. màngiatelo ~ rom. màgnetelo ecc.). IV. La pronuncia e l’ortografia romanesca raddoppiano sempre le seguenti consonanti all’interno della parola: la b, la z sorda, la ğ (p. es. it. subito ~ rom. subbito; it. paziente ~ rom. pazziente; it. ragione ~ rom. raggione ecc.). V. La j non si raddoppia nella grafia, ma soltanto nella pronuncia (p. es. rom. fijo non fijjo ‘figlio’ ecc.). VI. Si nota una certa tendenza non sistematica a raddoppiare anche altre consonanti solo in alcuni vocaboli, in particolare la m, in parole sdrucciole (p. es. biricchino, luneddì, marteddì ecc., cuppola, cennere, cammera, cammino ‘fumaiolo’, commannà ‘comandare’, commare, commodino, gommito, nummero, stammatina, stommico, ummido, vommito ecc.). VII. Oltre al sistematico scempiamento della r (p. es. it. terra ~ rom. tera; it. guerra ~ rom. guera; it. sorriso ~ rom. soriso, it. arrivo ~ rom. arivo ecc.), nella pronuncia romanesca si nota una tendenza non sistematica a scempiare certe consonanti solo in alcuni vocaboli (p. es. matina, malatia, quatrini, machina, cica, ucello, davero ecc.). VIII. Vi è assimilazione progressiva totale nei nessi –nd-, –ld– e (arcaico) –mb– (p. es. it. andare ~ rom. annà; it. quando ~ rom. quanno; it. tondo ~ rom. tonno ecc. (ma indove, condannato e sim.); it. caldo ~ rom. callo ecc.; it. cambiare ~ rom. camm; it. colomba ~ rom. colomma; it. gamba ~ rom. gamma; it. piombo ~ rom. piommo ecc.). IX. La l si rotacizza, cioè diventa una r, davanti a consonante sia in fonotassi che all’interno della parola (p. es. it. col cuore ~ rom. cor còre; it. colpo ~ rom. rpo; it. soldi ~ rom. rdi; it. alto ~ rom. arto; it. it. molto ~ rom. rto ecc.; si noti tra parentesi che, per ovviare alla collisione omografica tra l’avverbio mόrto e il participio passato mòrto del verbo morì(re), il romanesco predilige altri avverbi o locuzioni o prefissi con lo stesso valore dell’it. molto: espressioni come è contento assai o è contento ’na cifra o è stracontento saranno quindi preferibili a è mόrto contento). X. La consonante resa dal trigramma gli si realizza come una j raddoppiata o meno, e, nella pronuncia marcata, si dilegua, cioè scompare del tutto, secondo la trafila: [jj] > [j] > Ø (p. es. it. meglio ~ rom. mejo; it. figlio ~ rom. fijo > fìo; it. glialo ~ rom. pijalo > pìalo ecc.). XI. Nel nesso nj la j palatalizza la n precedente trasformandola da nasale alveolare a palatale (p. es. it. niente ~ rom. gnente; it. sbornia ~ rom. sborgna; it. Lavinia ~ rom. Lavigna ecc.). XII. È normale il passaggio (affricazione) a z sorda della s sorda preceduta da n o r o l sia in fonotassi (solo nella pronuncia) che all’interno della parola (p. es. it. penso ~ rom. penzo; it. scarso ~ rom. scarzo; it. polso ~ rom. porzo ecc.). XIII. La l doppia si scempia nelle preposizioni articolate e nell’aggettivo dimostrativo quello /-a /-i /-e se questi precedono una parola iniziante per consonante, ma non se precedono una parola iniziante per vocale (p. es. nelle preposizioni articolate: it. nella casa ~ rom. ne la casa; it. il tetto della casa ~ rom. er tetto de la casa; it. sulla sedia ~ rom. su la sedia; it. coll’anima ~ rom. coll’anima ecc.; nell’aggettivo dimostrativo quello /-a /-i /-e: it. quelle case ~ rom. quele case; it. quell’àlbero ~ rom. quell’àrbero ecc.); secondo alcuni, questo scempiamento si verifica anche davanti a parola iniziante con vocale atona cioè non accentata (p. es. nelle preposizioni articolate: it. coll’animàccia ~ rom. co l’animàccia (ma meglio coll’animaccia) ecc.; nell’aggettivo dimostrativo quello /-a /-i /-e: it. quell’uccellàccio ~ rom. quel’ucellàccio (ma meglio quell’ucellaccio) ecc.). XIV. Solo nel parlato trascurato («Lex Porena», cfr. Manfredi Porena 1925), la l si dilegua, cioè scompare del tutto, negli articoli, nelle preposizioni articolate e nell’aggettivo dimostrativo quello /-a /-i /-e (p. es. negli gli articoli e nelle preposizioni articolate: rom. a le donne > a ’e donne; rom. pe la strada > pa ’a strada ecc.; nell’aggettivo dimostrativo quello /-a /-i /-e: rom. quela vorta > qua ’a vorta; rom. quele stelle > que ’e stelle ecc.). XV. È frequente l’afèresi, cioè la caduta o soppressione di uno o più suoni posti all’inizio della parola; da notare che in romanesco gli aggettivi dimostrativi ’sta, ’sto, ste e sti non andrebbero considerati a rigore casi di aferesi, bensì forme sui generis alla stessa stregua degli infiniti verbali (p. es. embè > ’mbè; it. una grossa casa ~ rom. ’na casa grossa; it. così impari! ~ rom. così te ’mpari! ecc.). XVI. È frequente la sincope cioè la caduta o soppressione di uno o più suoni (generalmente una vocale atona) all’interno della parola (p. es. it. orologio ~ rom. orloggio; it. si còrica ~ rom. se còrca; it. addirittura ~ rom. addrittura; it. lettera ~ rom. lettra; it. per esempio ~ rom. presempio; it. scheletri ~ rom. schertri ecc.). XVII. È frequente l’apocope (troncamento), cioè la caduta o soppressione della sillaba finale di una parola oppure solo della consonante finale o della vocale finale (p. es. it. vieni con me! ~ rom. viè co me!; it. due volte ~ rom. du’ vorte; it. per me sono tutti pazzi ~ rom. pe me so tutti matti; it. mio padre ~ rom. mi’ padre; it. sua madre ~ rom. su’ madre; it. tuo fratello ~ rom. tu’ frate; it. adesso arrivo! ~ rom. mo arivo! ecc.); le apòcopi che troncano la parola in consonante come amor, còr, fior ecc. sono estranee al romanesco tranne nel caso in cui siano seguite in fonotassi da parola iniziante per d (p. es. ar sòn de la campana (cfr. Belli 33, 47); Madon de mezz’agosto (cfr. Belli 108, 11); boccon de colazzione (cfr. Belli 123, 12); vin de Ripetta (cfr. Belli 139, 7); sto cantoncel de monno conzagrato (cfr. Belli 209, 8); man de boja (cfr. Belli 218, 7); cul de la bbefana (cfr. Belli 218, 8); l’amor de la Madonna (cfr. Belli 218, 11) ecc.). XVIII. È frequente la prostesi o protesi, cioè l’aggiunta di un suono (generalmente vocalico) non etimologico all’inizio della parola (p. es. scrittoiscritto; stessoistesso; storiaistoria; stradaistrada ecc.); al limite tra la pròstesi e il prefisso è l’aggiunta della a in formazioni tipicamente romanesche come ariccontà, aricomincià, aripiasse, aritornà ecc., tuttora vive e produttive. XIX. Sono frequenti l’epentesi e l’anaptissi, cioè rispettivamente l’inserzione di un suono consonantico non etimologico all’interno della parola, e l’inserzione di un suono vocalico non etimologico all’interno della parola (p. es. epentesi: PaoloPavolo; paurapavura; poemapovema; poetapoveta ecc.; anaptissi: icsìcchese ecc.). XX. Con parole straniere è frequente l’epìtesi o paragòge, cioè l’aggiunta di una vocale o di una sillaba alla fine di una parola (p. es. ad hocad hocche / adocche (univerbato); filmfilme; icsicse / ìcchese ecc.). XXI. È presente, ma spesso arcaico, il fenomeno della metatesi, cioè la trasposizione di suoni all’interno della parola (p. es. dentrodrento; febbrefrebbe; capracrapa; compràcrompà ecc.).
2) ORTOGRAFIA. I. In romanesco vengono espressi graficamente soltanto i raddoppiamenti di –b-, –z-, –ğ- e solo all’interno della parola, non in fonotassi (p. es. it. subito ~ rom. subbito; it. collaborazioni ~ rom. collabborazzioni; it. paziente ~ rom. pazziente; it. ragione ~ rom. raggione ecc.); le consonanti –gn– e –j-, benché pronunciate intense o doppie, non vengono raddoppiate graficamente (p. es. sogno non *soggno; mejo non *mejjo ecc.). II. Viene espresso graficamente il passaggio di s a z dopo n, r o l, solo all’interno della parola, non in fonotassi (p. es. it. penso ~ rom. penzo; it. scarso ~ rom. scarzo; it. polso ~ rom. polzo > porzo ecc.). III. In romanesco ci sarebbe la possibilità di esprimere graficamente il passaggio di č ad una quasi sc (sci prima di a, o, u) mediante la c cedigliata (ç) (cfr. D’Achille, Giovanardi, 2001, p. 89) oppure con la sola lettera c, ma non con il digramma sc (p. es. in fonotassi: it. la cena ~ rom. la çena oppure it. di cena ~ rom. de çena oppure it. dopo cena ~ rom. doppo çena ecc. ma a cena oppure pe cena ecc.; all’interno della parola: it. bacio ~ rom. baçio; it. pece ~ rom. peçe ecc.). IV. Il segno grafico dell’apostrofo (’) si usa ormai solo nei casi di apocope e di aferesi, e solo per facilitare il lettore, mai altrove, tranne nel caso di po’ apòcope di poco; in romanesco, a differenza dell’italiano, è consentita, anzi obbligatoria, l’elisione dell’articolo determinativo femminile le (plurale di la) e con tutte le preposizioni articolate formate con esso anche davanti a parole che iniziano con e. Per risparmiare segni diacritici, che possano complicare la fruizione del testo scritto da parte di un utenza popolare, nell’ortografia del romanesco si eviterà sempre l’uso dell’accento circonflesso, atto in italiano, presso gli scriventi cόlti, a rappresentare la coalescenza (fusione) di due vocali adiacenti all’interno della parola (studî, giudizî, criterî ecc., dove la sta per –ii); quindi si contrassegnerà il monottongamento di non già con l’accento circonflesso, bensì con l’accento grave (p. es. non *pôi ma pòi (it. puoi); non *scôla ma scòla (it. scuola); non *vôi ma vòi (it. vuoi) ecc.); gli infiniti verbali ossitoni (tronchi), i quali – per inciso – non dovrebbero essere considerate forme apocopate, bensì forme sui generis, non verranno pertanto contrassegnati dall’apostrofo, ma dall’accento, grave o acuto a seconda del grado di apertura della vocale finale (p. es. non *anna’ ma annà (it. andare); non *di’ ma (it. dire); non * sape’ ma sapé (it. sapere) ecc.); a rigore, anche gli imperativi verbali monosillabici sono in romanesco meglio contrassegnati dall’accento grave o acuto (a seconda del grado di apertura della vocale finale), anziché dall’apostrofo (p. es. non *di’ ma ; non *vie’ ma viè; non *va’ ma ecc.); negli aggettivi dimostrativi deittici di prima persona ’sta, ’sto, ste e sti (it. questa, questo, queste e questi), i quali, come si è detto, non andrebbero considerati a rigore casi di aferesi, bensì forme sui generis alla stessa stregua degli infiniti verbali, si può contrassegnare con l’apostrofo soltanto le forme singolari di questi aggettivi (’sta, ’sto) e non le forme plurali (ste, sti), semplicemente perché nel sistema del dialetto romanesco, mentre le seconde non entrano in collisione omografica con nessuna altra forma di significato diverso, le prime entrerebbero in collisione rispettivamente con sta (III pers. sing. dell’indicativo presente del verbo it. stare / rom. stà) e con sto (I pers. sing. dell’indicativo presente del verbo it. stare / rom. stà); sempre conformemente a questo criterio potremo tranquillamente scrivere senza apostrofo forme come mo (it. adesso), co (it. con), pe (it. per) ecc., in ragione del fatto che queste forme così scritte non entrano in collisione omografica con nessuna altra forma di significato diverso nel sistema del romanesco.
3) MORFOLOGIA. I. L’articolo determinativo ha il seguente paradigma: er / lo / l’ (singolare maschile; p. es. er gatto; lo sposo; l’omo ecc.), la / l’ (singolare femminile; p. es. la casa; l’anima ecc.), li / l’ (plurale maschile; p. es. li sorci; l’arberi ecc.), le / l’ (plurale femminile; p. es. le stelle; l’erbe ecc.). II. L’articolo indeterminativo ha il seguente paradigma: un / ’n / uno / ’no (singolare maschile; p. es. un gatto; un omo / ’n omo; uno sposo / ’no sposo; ’no sbirro ecc.), una / ’na / ’n’ (singolare femminile; p. es. una casa / ’na casa; ’na barca; un’anima / ’n’anima ecc.). III. I sostantivi sono spesso soggetti a metaplasmi di declinazione, cioè a passaggi da un paradigma flessivo ad un altro, solitamente a causa di spinte analogiche tendenti a regolarizzare i paradigmi stessi: i sostantivi femminili con desinenze irregolari verranno tendenzialmente declinati con le desinenze più regolari -a / -e (p. es. la moglie / le mogli ~ la moglia / le moglie ecc.) oppure i sostantivi maschili indeclinabili in –o verranno tendenzialmente declinati al plurale con la desinenza –i (p. es. un Eurodu’ Euri; l’auto(bus) → l’auti ecc.) e via dicendo (si tratta di un fenomeno linguistico marcato diastraticamente verso il basso, cioè come tipicamente popolare, e in quanto tale presente non solo nel romanesco più popolare, ma un po’ in tutte le varietà popolari dell’italiano; un fenomeno che rivela l’effettiva sovrapponibilità tra la dimensione diatopica, diastratica e diamesica, cioè tra dialetto, lingua popolare e lingua parlata). IV. Gli aggettivi possessivi sono mio, mia, mii / mia, mie (I persona singolare); tuo, tua, tui / tua, tue (II persona singolare); suo, sua, sui / sua, sue (III persona singolare); nostro, nostra, nostri / nostra; nostre (I persona plurale); vostro, vostra, vostri / vostra, vostre (II persona plurale); loro (III persona plurale); gli aggettivi dimostrativi, sono rom. ’sto, ’sta, sti, ste ~ it. questo /-a /-i /-e (deittico di I persona, indica vicinanza al mittente); rom. Ø ~ it. codesto /-a /-i /-e (deittico di II persona, indica vicinanza al destinatario; caduto in disuso, vivo solo in toscano); rom. e it. quello /-a /-i /-e (deittico di III persona, indica lontananza sia dal mittente che dal destinatario); gli aggettivi indefiniti sono tutto /-a /-i /-e, ogni, quarche, certi /-e, poco /-a /-chi /-che, tanto /-a /-i /-e ecc. V. Si registra l’uso aggettivale di alcuni avverbi (enàllage: scambio di una parte del discorso con un’altra; p. es. it. il migliore vino ~ rom. er mejo vino; it. il peggiore delinquente ~ rom. er peggio dilinquente ecc.). VI. I pronomi personali sono io (I persona singolare); te/tu (II persona singolare: it. tu; in romanesco, come pure nelle varietà colloquiali e nelle varietà basse in diafasia e/o diastratia, cioè nell’italiano parlato contemporaneo, nell’italiano scritto informale e nell’italiano popolare, c’è dunque neutralizzazione dell’opposizione tra pronome soggetto e pronome complemento: tu ~ tete ~ te); lui, lei (III persona singolare maschile e femminile: it. egli, esso, (lui), ella, essa, (lei); in romanesco, come pure nelle varietà colloquiali e nelle varietà basse in diafasia e/o diastratia, cioè nell’italiano parlato contemporaneo, nell’italiano scritto informale e nell’italiano popolare, i pronomi tonici lui e lei risultano dunque le uniche forme usate come soggetti oltreché, ovviamente, come complementi, e tanto per gli esseri umani quanto per gli animali); noi (I persona plurale); voi (II persona plurale); loro (III persona plurale: it. essi, (loro), esse, (loro); come detto qui sopra a proposito di te, lui e lei, anche loro risulta dunque l’unica forma usata come soggetto oltreché, ovviamente, come complemento, e tanto per il maschile quanto per il femminile); i pronomi personali complemento tonici, cioè accentati, di I e II persona singolare sono rispettivamente me e te come in italiano (p. es. l’ha dato a me ecc.; l’ho detto a te ecc.) oltreché lui, lei, noi, voi, loro; i pronomi personali complemento clitici, cioè atoni, sono me (I persona singolare accusativo e dativo: it. me, mi; p. es. it. spòsami subito! ~ rom. spόseme subbito! ecc.; it. mi vuoi dire perché? ~ rom. me vòi dì perché? ecc.; it. = rom. me lo dai? Dammelo! ecc.); te (II persona singolare accusativo e dativo: it. te, ti; p. es. it. ti spezzo in due! ~ rom. te spacco in due!; it. se non fai silenzio immediatamente, ti do un pugno! ~ rom. Si nun t’azzitti subbito, te do ’n cazzotto!; it. = rom. te ne vai? Vattene! ecc.); lo, je (III persona singolare e plurale accusativo e dativo: it. lo, gli, le, li, le; p. es. it. = rom. me lo dai? Dammelo! ecc.; it. le sono corso dietro ~ rom. je sò corzo appresso ecc.; in romanesco c’è dunque neutralizzazione dell’opposizione tra pronome dativo maschile e femminile tanto alla III persona singolare quanto alla III persona plurale: gli ~ le ~ loro je ~ je ~ je); ce (I persona plurale accusativo e dativo: it. ci, ce; p. es. it. ha detto che vuole spezzarci in due ~ rom. ha detto che vò spaccacce in due o, meglio, con risalita del clitico ha detto che ce vò spaccà in due ecc.; it. = rom. ce l’hanno detto loro oppure diccelo! ecc.); ve (II persona plurale accusativo e dativo: it. vi, ve; p. es. it. ha detto che vuole spezzarvi in due ~ rom. ha detto che vò spaccavve in due o, meglio, con risalita del clitico ha detto che ve vò spaccà in due ecc.; it. = rom. ve l’hanno detto? ecc.). In romanesco, come pure nelle varietà colloquiali e nelle varietà basse in diafasia e/o diastratia, cioè nell’italiano parlato contemporaneo, nell’italiano scritto informale e nell’italiano popolare, si registrano ridondanze pronominali del tipo a me me piace (it. a me mi piace / a me piace / mi piace), che illustreremo e spiegheremo meglio sotto. I pronomi possessivi sono morfologicamente identici agli aggettivi possessivi. I pronomi relativi si riducono in romanesco tendenzialmente al solo che col valore di soggetto o di complemento oggetto (che in declinato, con o senza clitici di ripresa; p. es. it. ho parlato con una signora la cui figlia è infermiera ~ rom. ho parlato co ’na signora che la figlia è infermiera senza clitico di ripresa; it. che strano, un gatto al quale non piace la carne! ~ rom. che strano, un micio che nun je piace la carne! con il clitico je di ripresa ecc.). I pronomi dimostrativi, sono questo /-a /-i /-e (deittico di I persona come in italiano), quello /-a /-i /-e (deittico di II e terza persona come nell’italiano). I pronomi indefiniti sono antro /-a, quarcuno /-a, quarchiduno /-a, ognuno /-a, ciaschiduno /-a, tutti /-e, gnisuno /-a o nissuno / –a ecc. (usati in riferimento a persone); quarcosa, quarchecosa, nunzocché, socché, gnente ecc. (usati in riferimento a cose). VII. Per quanto riguarda il verbo, il romanesco evita la forma passiva, in luogo della quale usa la dislocazione a sinistra con il pronome clitico anaforico la carne se l’è magnata er micio invece di *la carne è stata magnata dar micio ecc.).
Per la coniugazione di alcuni verbi romaneschi: gli ausiliarî èsse (it. essere) e avé (it. avere) e i tre campioni di verbi regolari per ciascuna coniugazione magnà (it. mangiare), chiede (it. chiedere) e dormì (it. dormire) rinviamo al libro di Claudio Porena prima citato.
Sorvolando sulla coniugazione dei verbi irregolari, basti segnalare alcune forme di participio passato con suffisso Ø che alternano con le forme regolari: tocco / toccato, trovo / trovato, provo / provato ecc. (cfr. G. G. Belli, 66, 13: «E si la lama ha tocco l’interiori»; Idem, 88, 2: «Io te l’avevo trovo a mutà stato»; Idem, 145, 13-14: «Che si de tante e poi tante quarelle / me n’hanno provo dua, grasso che cola!» ecc.). VIII. Gli avverbî si classificano secondo due criterî: in base alla forma, si hanno avverbî semplici (p. es. assai, , forse, mai, sempre, troppo ecc.), avverbî composti (p. es. armeno ‘almeno’, soprattutto, tratanto ecc.), avverbî derivati (p. es. pesantemente ecc.), locuzioni avverbiali (p. es. de certo, de sicuro, in pratica, senza dubbio ecc.); in base al significato, si hanno avverbî di modo (p. es. serenamente, volentieri ecc.), avverbî di tempo (p. es. abbonora ‘presto’, mai, sempre, stanotte, tardi ecc.), avverbî di luogo (p. es. accosto ‘accanto’, davanti, deddietro, drento / dentro, fòra / fòri, lontano, sopra, sotto, vicino ecc.), avverbî di quantità (p. es. abbastanza, assai, meno, parecchio, più, poco, troppo ecc.), avverbî di valutazione (p. es. davero ‘davvero’, manco / nemmanco ‘neanche’, propio ‘proprio’, quasi ecc.) e avverbî interrogativi (p. es. Come?, Indove? / ’ndove? / indó? / ’ndo? ‘dove?’, Perché?, Quanno? ‘quando?’, Quanto? ecc.). Gli avverbî, come gli aggettivi, possono esprimere il loro significato con differenti gradi d’intensità: si hanno avverbî di grado positivo (p. es. tardi ecc.), avverbî di grado comparativo (p. es. meno tardi de jeri, più tardi de jeri, tardi come jeri ecc.), avverbî di grado superlativo (p. es. tardi assai, tardissimo ecc.); questa graduazione di intensità può essere espressa sia, come si è appena visto, in modo analitico, mediante l’aggiunta degli avverbi di quantità meno (comparativo di minoranza), più (comparativo di maggioranza), come (comparativo di uguaglianza), assai, troppo, un sacco (superlativo), sia in modo sintetico, mediante la suffissazione in –issimo (p. es. benissimo, malissimo, pochissimo ecc.), sia anche mediante suppletivismo, cioè mediante ricorso ad una parola distinta radicalmente (p. es. benemejo ‘meglio’ → ottimamente, malepeggiopessimamente). Da notare la tendenza del romanesco a rafforzare pleonasticamente comparativi e superlativi (p. es. più mejo, più peggio ecc.). In romanesco è frequentissima l’enallage avverbio-aggettivo, cioè l’uso dell’aggettivo in funzione avverbiale (p. es. it. ho camminato lentamente verso il porto ~ rom. ho camminato lento verzo er porto; it. lo ha fortemente sgridato ~ rom. j’ha strillato forte ecc.), spesso con la duplicazione dell’aggettivo per esprimere il grado superlativo (p. es. it. ho mangiato lentissimamente ~ rom. ho magnato lento lento ecc.). IX. Le preposizioni si classificano in preposizioni proprie semplici e articolate (p. es. a, co ‘con’, da, de ‘di’, fra, pe ‘per’, su e ar ‘al’, cor ‘col’, dar ‘dal’, der ‘del’, ner ‘nel’ sur ‘sul’; le preposizioni all’, coll’, dall’, dell’, nell’, sull’, articolate davanti a parola iniziante per vocale, si scrivono a lo / a la / a li / a le, co lo / co la / co li / co le, da lo / da la / da li / da le, de lo / de la / de li / de le, ne lo / ne la / ne li / ne le, su lo / su la / su li / su le, disarticolate davanti a parola iniziante per consonante), preposizioni improprie (p. es. sott’er letto, drent’er fosso ecc.) e locuzioni prepositive (p. es. assieme co, deddietr’a me, sott’ar letto, drent’ar fosso ecc.). X. Le congiunzioni si classificano secondo due criterî: in base alla forma, si hanno congiunzioni semplici (p. es. e, ma, , o, però, puro / pure, quanno ‘quando’ ecc.), congiunzioni composte (p. es. nemmanco / nemmeno, perché, oppuro / oppure ecc.) e locuzioni congiuntive (p. es. ’gni vorta che ‘ogni volta che’, pure quanno ‘anche quando’ ecc.); in base alla funzione logica, tra le congiunzioni coordinanti si hanno le copulative affermative e negative (p. es. e, pure e , nemmanco / nemmeno ecc.), le disgiuntive (p. es. o, oppuro / oppure / oppuramente ecc.), le avversative (p. es. ma, però ecc.), le conclusive (p. es. allora, ardunque, percui, quinni ‘quindi’ ecc.), le esplicative (p. es. cioè / ciové, defatti ‘infatti’ ecc.), le correlative (p. es. , nun soloma pure ecc.) e, tra le congiunzioni subordinanti, si hanno le dichiarative (p. es. che, come), le finali (p. es. acciò ‘affinché’, in modo che ecc.), le causali (p. es. perché, pe via che, siccome (che), visto che ecc.), le temporali (p. es. finacché ‘finché’, finamente che, finattanto che ‘fintanto che’, inzinenta / inzinente che, inzino che, mentre (che), quanno ‘quando’ ecc.), le consecutive (p. es. in modo che, sicché ‘così che’, tanto che ecc.), le condizionali (p. es. caso che, caso mai, incasomai, ner caso, si ‘se’ ecc.), le concessive (p. es. abbenanche / abbenanco, abbenché ‘benché’, co tutto che, sibbè (che) ecc.), le avversative (p. es. mentre invece ecc.), le modali (p. es. come si ‘come se’, come ecc.) e le comparative (p. es. piuppresto che ‘piuttosto che’, così come ecc.). XI. Le interiezioni si classificano in interiezioni proprie (p. es. Ah!, Bua!, Eh!, Uffa! ecc.), interiezioni improprie (p. es. Cacchio!, Cavolo!, Cazzo!, Daje! Gesù!, Forza! ecc.) e locuzioni interiettive (p. es. Dio mio!, Dio serenella!, Peccristo! / Peccrisse! / Pettristo!, Per dio! /Peddio! / Per bio! / Pebbio!, Per dina!, Perdinanòra!, Santoddio! ecc.).
4) MORFOSINTASSI. I. In romanesco, specialmente marcato basso in diastratia, cioè nelle sue varietà più popolari, è frequente l’uso di concordare in genere e in numero l’avverbio con l’aggettivo a cui si riferisce (cfr. G. G. Belli, 186, 1: «Sta chiesa è tanta antica, gente mie»; Idem, 241, 11: «Co quelli [queli] farajoli tanti cari»; Idem, 444, 7: «Lei è p’er mi’ penzà troppa lunatica» ecc.). II. È buona norma concordare in genere e in numero il participio passato con il complemento oggetto (cfr. G. G. Belli, 213, 5: «Che appena j’ebbe chiuse le lenterne»; Idem, 248, 6: «Quanti cucchieri ho fatti stà a la fetta»; ibidem, 9: «Ho guidate parije io co la voce» ecc.). III. È frequente l’uso della concordanza a senso o concordanza logica tra pronomi o sostantivi collettivi singolari e la terza persona plurale del verbo: è una concordanza logica, anziché grammaticale, perché il verbo concorda in questi casi non con il significante marcato dal numero, bensì con il significato o, meglio, con il referente del pronome o del sostantivo stesso (cfr. G. G. Belli, 113, 12: «Ognomo hanno d’avé li su’ mestieri»; Idem, 289, 6: «e poi tutto pe te cose nove!»; Idem, 390, 5-6: «Ma un’antra compagnia come che quella / c’un anno recitaveno a Libberti / me ce giuco er salario co l’incerti / c’a Roma tanto nun se pò più avella» ecc.). IV. È frequente la ripetizione pleonastica, cioè superflua, dei pronomi personali (cfr. G. G. Belli, 1, 12: «Mo sentiteme a me: “Fiore de menta / […]”»; Idem, 8, 12: «Ar fin de fine che me preme a me?»; Idem, 19, 10: «viecce a trovacce all’Osteria der Moro» ecc.). V. È frequente l’uso di accumulare pleonasticamente due preposizioni (cfr. G. G. Belli, 5, 6: «quarmente in ner passà pe la Minerba»; Idem, 9, 11: «te do l’arma in der culo e te lo sfregno»; Idem, 12, 7-8: «[…] manco Didona, / che squajava le perle in de la tazza» ecc.). VI. È frequente l’uso di accumulare pleonasticamente due congiunzioni o un avverbio e una congiunzione o anche una congiunzione e una preposizione (cfr. G. G. Belli, 4, 11: «quanno che sarà cotto er pajariccio»; Idem, 170, 2: «dove che vedi tanti piedistalli»; Idem, 213, 2: «doppo d’avé cenato con Lionferne» ecc.).
5) SINTASSI. Ecco qui di séguito alcuni costrutti caratteristici del dialetto romanesco, in quanto varietà popolare. In generale, l’ordine dei costituenti della frase in romanesco è di tipo Soggetto-Verbo-Oggetto (SVO) come l’ordine basico dei costituenti in italiano; a differenza dell’italiano, però, il romanesco presenta una generale tendenza alla posposizione dei determinativi (siano essi aggettivi, avverbî o complementi), non ammette anastrofi, cioè inversioni, e non presenta mai costrutti «marcati» che non siano autentici popolarismi e colloquialismi come i temi sospesi, gli anacoluti, le cosiddette frasi scisse e frasi pseudoscisse, dislocazioni a destra e dislocazioni a sinistra; altri popolarismi e colloquialismi sintattici frequenti nel romanesco, in quanto varietà diastraticamente bassa e diamesicamente orientata verso l’oralità, sono alcune tipiche perifrasi aspettuali, il che polivalente, il che indeclinato, il si enfatico-pleonastico e l’a allocutivo. Vediamo questi tratti a ritroso, cominciando dalla posizione dell’aggettivo. I. La grammatica dell’italiano registra la distinzione tra gli aggettivi cosiddetti «qualificativi» o «descrittivi» e gli aggettivi cosiddetti «determinativi» o «restrittivi» o «limitativi»: in romanesco l’aggettivo, a qualunque delle due categorie appartenga, è sempre posposto al sostantivo (p. es. un cane grosso non *un grosso cane), tranne in rari casi tipo: ho visto ’na bella fica ma non *ho visto ’na fica bella, casi in cui l’aggettivo in posizione pronominale, quasi fosse un aggettivo esclamativo, veicola un forte carico emotivo; in altre parole, la posizione prenominale dell’aggettivo è «marcata» emotivamente più di quanto non sia la collocazione postnominale, «neutra» da questo punto di vista. II. La particella allocutiva a seguita dal vocativo spesso apocopato, sostituisce a Roma la forma toscana e letteraria o, rinforzando l’allocuzione e permettendo un più agevole riconoscimento del vocativo (p. es. a dottó! ‘ehi dottore!’, a signó! ‘ehi signora!’, a regazzì! ‘ehi ragazzino!’ ecc.). III. Nel romanesco è frequente, anche se non sistematico, l’uso di un si ammirativo o enfatico in unione pleonastica con aggettivi esclamativi o avverbî (cfr. G. G. Belli, 158, 3: «Ma guarda qui si che colore, guarda!» ecc.). IV. È presente l’uso del che polivalente, una congiunzione dal valore subordinante indistinto o comunque ibrido (cfr. G. G. Belli, 405, 4: «Pe carità che me la faccio sotto» ecc.). V. È presente l’uso del che indeclinato, con o senza pronome clitico di ripresa (cfr. G. G. Belli, 225, 14: «L’acqua che ce se laveno la fregna» ‘l’acqua con cui ci si lavano la vulva’ [con pronome clitico di ripresa (ce)]; Idem, 252, 9: «Ma la Madonna che lui fu devoto» ‘ma la Madonna alla quale egli fu devoto’ [senza pronome clitico di ripresa] ecc.). VI. È frequente l’uso della perifrasi AVÉ + da + infinito, per esprimere il senso del dovere (cfr. G. G. Belli, 21, 5-6: «S’ha da vede, per dio, la buggiarata / ch’er cristiano ha d’annà senza carzoni» ecc.). VII. È frequente l’uso della perifrasi DOVÉ + da + infinito, per esprimere sempre il senso del dovere (p. es. quer libbro me lo devi da ridà ‘mi devi restituire quel libro’ ecc.). VIII. Le perifrasi STÀ e ANNÀ + a + infinito tendono a sostituire quasi sempre il costrutto italianeggiante STÀ e ANNÀ + gerundio (cfr. G. G. Belli, 124, 7-8: «E poi viè marzo, e se po’ stà de fora / a fà du’ passatelle e una partita»; Idem, 138, 3: «ve ciannate a spregà sto fior de manna»; Idem, 144, 2: «Che, annate a fà un giretto ar Culiseo?» ecc., ma cfr. anche Idem, 231, 4: «che sta speranno ne li tu’ conforti»; Idem, 335, 13: «senza annamme accattanno cor cerino» ecc.). IX. È possibile la sistole, cioè l’arretramento dell’accento intensivo, negli infiniti dipendenti dai verbi annà e venì (cfr. G. G. Belli, 183, 14: «La frebbe è bona? annàtevel’a magna»; Idem, 306, 9: «Vammel’a tròva un’antra riliggione» ecc.). X. È frequente la dislocazione a sinistra con il pronome clitico anaforico o di ripresa (cfr. G. G. Belli, 50, 3: «Tu ste parole mietiettele a mente» ‘tieni a mente queste mie parole’ [con pronome enclitico anaforico, cioè di ripresa (-le)]; Idem, 135, 14: «Voi er budello lo volete pieno» ‘voi volete il budello pieno’ [con pronome proclitico anaforico (lo)] ecc.). XI. È frequente la dislocazione a destra con il pronome clitico cataforico o di anticipazione (cfr. G. G. Belli, 58, 9: «Pe me je l’ho avvisato a mi’ sorella» ‘per quanto mi riguarda, ho avvisato mia sorella di questa cosa’ [con pronome clitico cataforico, cioè di anticipazione (je ‘le’)]; Idem, 144, 9: «Ma già che c’è cascato in ner malanno» ‘ma già che è caduto nel malanno’ [con pronome proclitico cataforico (c’ = ce ‘ci’)] ecc.). XII. È possibile trovare la cosiddetta frase scissa (p. es. è la paura che te frega ‘la paura ti buggera’, dove la paura è il cosiddetto «tema», cioè ciò di cui si dice qualcosa [topic], e te frega è il cosiddetto «rema», cioè ciò che si dice di qualcosa [comment]). XIII. È possibile trovare la cosiddetta frase pseudoscissa (p. es. [quello] che te frega è la paura ‘la paura ti buggera’, dove il «tema» e il «rema» sono invertiti rispetto alla corrispondente frase scissa). XIV. È possibile trovare il cosiddetto tema libero o anacoluto, cioè il susseguirsi nello stesso periodo di due diversi costrutti o progetti sintattici, il primo dei quali resta incompiuto, un tratto più d’ogni altro caratteristico della sintassi popolare (cfr. G. G. Belli, 869, 3-4: «Tutt’er giorno se smania, e le nottate / beato lui chi requia e pija sonno» ‘[…] e le nottate… / beato chi riposa e prende sonno’; Idem, 1523, 3: «Li medichi, se sa, tutto fa danno» ‘I medici… tutto fa danno’ ecc.). XV. È possibile trovare anche il cosiddetto tema sospeso, cioè un anacoluto mancato grazie alla presenza di una ripresa pronominale del tema stesso (cfr. G. G. Belli, 1342, 4: «Li sovrani portateje rispetto» ecc.). XVI. È possibile trovare la cosiddetta risalita del pronome clitico, in netto contrasto con il corrispondente costrutto italianeggiante senza risalita (p. es. l’hanno voluto menà de brutto ~ hanno voluto menallo de brutto ‘hanno voluto picchiarlo violentemente’ ecc.).
 
Vocabolari
 
Tra i vocabolari romaneschi citiamo:
Filippo Chiappini, Vocabolario Romanesco, Leonardo Da Vinci, Roma, 1933.
Gennaro Vaccaro, Vocabolario Romanesco Belliano, Romana Libri Alfabeto, Roma, 1969.
Gennaro Vaccaro, Vocabolario Romanesco Trilussiano, Romana Libri Alfabeto, Roma, 1971.
Vincenzo Galli, Vocabolario e rimario in dialetto romanesco, Rugantino Editore, Roma, 1982.
Giorgio Carpaneto, Luigi Torini, Dizionario italiano-romanesco etimologico-storico, Ed. Pagine, Roma, 2003.
 
Proponiamo qui un elenco di vocaboli e di locuzioni autenticamente romaneschi, tratto dal libro SPQR – Sproloqui, Proverbi, Quisquilie, Ricordi – Roma e il suo popolo di Claudio Sterpi e Rosangela Zoppi.
abbuscà (guadagnare; ricevere percosse), ammazzatora (macello, mattatoio), annà a l’inzecca (andare alla cieca, provare a indovinare), anvedi! (esclamazione di stupore), aranchellasse (affannarsi), arimucinà (rovistare; rimuginare), arinnaccià o rinnaccià, (rammendare; riprendere un discorso interrotto), arintorzasse (andare di traverso), ariocà (ripetere, riprovare), aritinticà (stuzzicare, solleticare), attaccaja (gancio, rampino; (fig.) pretesto, appiglio), avecce gusto (compiacersi), aveccela co (provare astio per qualcuno), azzuppà (inzuppare), babbilano (impotente), baccajà (protestare rumorosamente), baciapile (bigotto), bacio (ar)(di massimo gradimento), badiale (squisito, genuino), baggeo (imbecille; cascamorto), bagnarola (tinozza), baillamme (grande confusione), bajocco (moneta dello Stato Pontificio); (pl.) denaro), balucano (persona dalla vista debole), barbozzo (mento), bavarola (bavaglino), bazzicà (frequentare), beccamorto (becchino), benzinaro (benzinaio; ubriacone), bocchè (mazzo di fiori), bojaccia (cattivo soggetto), bojata (cosa mal fatta), bojeria (furfanteria, cattiva azione), borghiciano (nativo o abitante del rione Borgo), breccola (sassolino, frammento di ghiaia), bua (male, malattia), bùcia (buca, fossa), bubbola (bugìa), buggiarata (sciocchezza; inganno), buscherà (ingannare), buzzico (recipiente con beccuccio per versare l’olio), buzzuro (persona rozza, volgare, ignorante), cagnara (confusione), canoffiena o canofiena (altalena), caratello (piccola botte), casacalla (inferno), cazzarola (casseruola), ciafrella (pantofola), ciafrujo (pasticcio, garbuglio), cianca (gamba), ciancicà (masticare), cica (mozzicone di sigaro o sigaretta), ciorcinato (disgraziato, infelice), ciriola (anguilla), ciufeca (vino o bevanda di cattivo sapore), cojonà (prendere in giro, raggirare), Commare, la (la morte), concallato (sudaticcio, rancido), confinerà (garbare, soddisfare), contentino (sovrappiù, per ammorbidire una persona), corda lenta (persona flemmatica), cottìo (mercato del pesce all’incanto), crocetta (fame, digiuno), cúccumo (caffettiera), cucuzza (zucca), cunnolà (cullare), cunculina (bacile), cupella (bariletto da 10 fojette: 5 litri), daje sotto (Dedicarsi a un’impresa con il massimo impegno), de sguincio (di traverso), dindarolo (salvadanaio), disdossa, a la (sulla nuda pelle; fig., senza perdere tempo), dufodere, sor (persona male in arnese, dimessa; famoso il personaggio radiofonico impersonato da F. Fiorentini), estlocanna (affittasi), ètte (cosa piccola senza valore, inezia), fa bùcia (fallire il colpo), faciolo, annà a (andare a genio, gradire), fanello (piccolo uccello; ragazzetto), fiara (fiamma), fiatone (respiro grosso), fiotto (pianto sommesso; getto, spruzzo), fojetta (misura per il vino pari a mezzo litro), fottìo (grande quantità), fracicume (insieme di cose marcite), fregnaccia (sciocchezza), friccicà (fremere, frizzare), fusaje (lupini), ganassa (ganascia, mascella), giannizzero (mercenario turco del XVI sec. ma anche uomo di fiducia), gnagnera (cantilena lamentosa), gnommero (gomitolo), gricciore (brivido), grinza (ruga), grugno (viso), guainella (carruba; fagiolo a corallo), guazza (rugiada), guazzabujo (mescolanza di varie cose), guazzetto (intingolo), guja (obelisco), imbottatore (imbuto), impozzà (accumulare denaro e nasconderlo), incarognisse (intestardirsi), inciampo (ostacolo, impedimento), inciarmà (incantare, ammaliare), in ciurmato (imbronciato), infojato (eccitato sessualmente), infuscasse (adombrarsi), intisichì (perdere le forze, la salute) intorcinà (attorcigliare), intuzzà (sbattere con violenza contro un ostacolo), inzecca, a l’ (a caso), lampena (lume), luccicarello (oggetto che brilla), luccicore (lucentezza), luscia (pioggia violenta e dirotta), mandritta (mano destra), maruame (resti lasciati dal mare), misticà (mischiare), montarozzo (cumulo, mucchio, di terra o altro), mortorio (funerale), mosciarella (castagna sgusciata ed essiccata), mosca, fa (tacere), nazzicà (dondolare), onto onto (con andatura lenta), oremuse e capimose (invito a parlare chiaro), panzanella (fette di pane bagnato condite con sale olio pepe, aceto e pomodoro), papagno (sganassone), paranza, fa (fare amicizia), patacca (oggetto di nessun valore fatto passare per rarità, per raggirare persone ingenue; macchia di unto), patume (densa fanghiglia appiccicosa), pèrza (maggiorana), prescia, de (di corsa), pupazza (bambola), quermifò, a (fatto come si deve, dal fr. comme il faut), quonia (annà o arivà) (arrivare al dunque; dal lat. quoniam), radica (radice), rampazzo (grappolo d’uva), sampietrino (blocchetto di selce usato per lastricare le strade, romane; operaio della Fabbrica di San Pietro), santo, fà tutto der (fare la parte del leone), sbacito (sfinito, tramortito), sbajoccà (fare piccoli guadagni in moneta spiccia; da bajocco), sbambolà (richiamare alla realtà un sognatore), battezzasse (affannarsi invano), sbeccà (scheggiare), scordarello (smemorato), screpante (bravaccio; da Sacripante, personaggio dei poemi cavallereschi), Secca, la (la morte; detta anche Commare secca), semmoloso (lentigginoso), serqua (dozzina), servizziale (clistere), sfiarata (fiammata alta e violenta), sfonnino, san (santo immaginario protettore di chi accumula denaro o mangia e beve troppo), sgoccettà (bere centellinando un sorso alla volta), sguincio, de (di traverso), sottopanni (come una persona è realmente), spatoccà (suonare di campane), svario (           passatempo, vacanza), tacchia (scheggia di legno), tatanai (confusione), tortore (randello), torzone (frate converso che non ha pronunciato i voti), tosto (duro), tritticà (tremare), urione (rione), uso, a (secondo l’usanza), vaga (chicco d’uva o altro), varzente (denaro in genere), vascellaro (vasaio), vassallo (canaglia, birbante), vellutello o villutello (muschio), venì a tajo (giungere a proposito), vergaro (capo pastore e sovrintendente alla fabbricazione dei formaggi (detto così perché munito di un lungo bastone, detto“verga”), zampana (zanzara), zella (sporcizia, sudiciume), zeppa (cuneo, bietta), zinale (grembiule), zinna (mammella femminile), zizzola (vento freddo e pungente; colpo secco e violento), zozzo (sporco, sudicio
 
Vizi e difetti delle persone nel lessico romanesco
 
Ed ecco un campionario di termini relativi a vizi e difetti delle persone nel lessico romano, tratto dal libro SPQR – Sproloqui, Proverbi, Quisquilie, Ricordi – Roma e il suo popolo di Claudio Sterpi e Rosangela Zoppi.
Anche il romanesco, come ogni dialetto, ha vocaboli atti a mettere in risalto i vizi e i difetti delle persone. Si tratta in genere di lessemi che in molti casi, letti o pronunciati, forniscono già un’indicazione semantica di massima.
Precisiamo che molti di questi termini sono ormai caduti in disuso, rimpiazzati, come in genere accade in ogni lingua e in ogni dialetto, in quanto materia viva e soggetta a modifiche, da neologismi, spesso coniati dalle nuove generazioni.
Molti altri lemmi hanno invece resistito a questo rinnovamento, e sono quelli che costituiscono le fondamenta del nostro idioma, quelli che resteranno sempre perché parte strutturale della nostra impalcatura linguistica.
Qui di seguito forniamo un nutrito esempio di epiteti, in alcuni casi immediatamente qualificativi, in altri casi metaforici, che danno conto della tendenza tipica del dialetto alla descrizione aggressiva, mordace e a volte cattiva.
 
Abbramuccio (Persona avara), addannato (avido; arrabbiato), alletterato (cólto), attaccalite (persona litigiosa), baggeo (imbecille, sempliciotto; spasimante), balucano (miope), becalino (miope), beccaccione (credulone), berzitello (appellativo ironico rivolto a un giovanotto azzimato), birba (cattivo soggetto, termine spesso usato con intento affettuoso), birbaccione (peggiorativo di birba), boja (cattivo soggetto), bojaccia (peggiorativo di boja), bonalana (cattivo soggetto), broccolo (sciocco, stupido), brugnoletto (ragazzetto bruno, paffuto e piccolo di statura), budellone (persona grassa e panciuta), buzzurro o buzzuro (persona rozza e ignorante), cacchione (sciocco), caccoloso (cisposo, sporco), cannavota (persona magra e alta), capiscione (persona che si vanta di capire tutto, tuttologo), cazzabbubbolo (            persona di poco conto), cecato (che vede poco), cicciabbomba (persona obesa), ciorcinato (disgraziato), cocciamuffa (persona calva), coccialone (testone), cravattaro (strozzino, usuraio), cucuzza (persona stupida), falloppone (vanaglorioso), fregno (uomo strano), galletto (ragazzo vivace e intraprendente), gnappa, gnappetta (persona piccola di statura), impreciuttito (magro e rugoso), incecalito (annebbiato dall’ira), intrujone (pasticcione), intruppone (sbadato, distratto), linguacciuto (pettegolo), linguasciorta (persona dalla parola facile), magnaccia (sfruttatore di prostitute), mardoccheo (persona sciocca, credulona), martajato (persona dalla figura sgraziata), mezzasega (ragazzo piccoletto), minchione (sciocco), moccioloso (bimbo con il moccio al naso), monnarolo (uomo di mondo), moscetto (senza polso), pacioccone, pacioso (bonaccione), padreterno (che si dà arie, borioso), paino (bellimbusto, falso elegantone), pallonaro (persona che gonfia i discorsi), panzone (persona che ha un addome prominente), pancottone (sempliciotto), pappagallo (persona che sa solo ripetere), pappolaro (persona che racconta frottole), pappone (persona che vive sulle spalle degli altri), paraculo (persona che pensa soltanto ai propri interessi), pataccaro (spacciatore di oggetti falsi), pecorone (persona servile), pescecane (approfittatore, sfruttatore), piagnone (persona che si lamenta continuamente), pinzocchero (baciapile, bigotto; ipocrita), pisciacquasanta (persona che sta sempre in chiesa), pistamentuccia (cacciatore inesperto), pivello, pivetto (giovane inesperto), pizzangrillo (bambino magro e irrequieto), pocaluce (persona che non vede bene), pomicione (uomo che non perde occasione per provarci con le donne), porocristo (persona che conduce una vita misera), praticone (persona che riesce cavarsela in molte situazioni), prescioloso (frettoloso, confusionario), quattrocchi in vetrina (persona con gli occhiali), racchia (donna brutta; un tempo donna carina), rafacano (tirchio), rasotera (uomo basso, donna bassa), rincojonito (rimbecillito), rompicojoni (scocciatore), rubagalline (ladruncolo), ruffiano (mezzano, non soltanto in questioni amorose), santarello, a (persona ipocrita), santomasso (persona incredula), saputo (saccente), sarapica (donna linguacciuta, attaccabrighe), sbrodolone (persona che nel mangiare s’impatacca), sbruffone (millantatore, vanaglorioso), sbuggenzatico (capriccioso, strambo), scaciato (trasandato, trascurato), scarcagnato (persona che indossa abiti vecchi e logori), scarcinato (persona mal ridotta, misera), scagnozzo (tirapiedi, guardaspalle), scarmanato (persona che si agita con veemenza), scarzacane (artigiano o artista di poco valore), schicchignoso (schizzinoso), sciamannone (persona poco curata nel vestire), scinicato (persona malaticcia, smagrita), sciroccato (persona svanita, con la testa tra le nuvole), scojonato (            persona che non si appassiona a nulla), sconocchiato (ridotto male, pestato), scrocchiazzeppi (persona magrissima, ridotta pelle e ossa), sderenato, sdilombato (stanco; che ha mal di reni), sempriciano (persona ingenua), sgallettata (donna di facili costumi), sganghenato (malandato), smandrappato (trascurato nel vestire, disordinato), spiccialetti (medico frettoloso, poco affidabile), spilungone (persona alta e magra), spostato (persona senza cervello o inaffidabile), sputasentenze (persona che crede di saper giudicare ogni cosa), stortignaccolo (deforme, con le gambe storte), stramicione (trascurato nel vestire; da stramen, paglia; che ha dormito sulla paglia), strucchione (persona alta, magra e sgraziata), stufarello (incostante), svampito (svanito), taddeo (sciocco, babbeo), tappetto, a (uomo/donna di bassa statura), tardona (donna non più giovane ma ancora piacente), tarmato (butterato), tarpano (          persona rozza, rustica), tempimpace, trottapiano (persona tranquilla, lenta), tignoso (caparbio, ostinato), tontolomeo, tontolone (persona tonta), traccagnotto (persona bassa e robusta), trafichino, traficone (persona che cerca sempre e solo il guadagno), trappolaro (bugiardo, imbroglione), trippone (persona con il ventre prominente), trucido (persona malvagia e volgare, capace di cattive azioni), tutero (persona ottusa), vanoso (vanitoso), vassallo (canaglia, birbante), vassallone (accrescitivo di vassallo), vorpone (persona astuta), zagajone (persona che tartaglia), zelloso (sudicio), zonzolone (girandolone), zozzone (sporcaccione), zurugnone (persona pacifica ma un po’ misantropa)
 
 
2. I proverbi e i modi di dire
 
Tra i modi di dire ne segnaliamo alcuni di cui è possibile rinvenire origine e spiegazione nel libro SPQR – Sproloqui, Proverbi, Quisquilie, Ricordi – Roma e il suo popolo di Claudio Sterpi e Rosangela Zoppi:
Nun c’è trippa pe gatti; Bacià la vecchia; Ariconzolasse co l’ajetto; Dor Farcuccio né mantello, né cappuccio; Co sti chiari de luna (non si va a rubare); Carma e gesso; Er santaro se frega ’na vorta sola; Nun è morta bene Margherita; Nun sai manco quanti giri fa ’na boccia; Occhio a la penna!; Er sor Carluccio che viè da l’Olanna; So finite le messe a San Gregorio; Oste nun annerà sempre così!; Quann’è che famo sto pangrattato?; Come me soni te ballo; Chi nun risica nun rosica; Ma che l’hai letto sur libro der panonto?; Mamma li Turchi!; Vale quanto l’Acqua Paola;San Giovanni nun micca e nun inganna; Chi tocca er pupo diventa compare;A te va sempre l’acqua pell’orto; M’hai detto un prospero; Bonanotte Gesù ché l’ojo è caro!; fà vedé li sorci verdi; Te fo ’na faccia come un santo vecchio!; Possi morì abracciato a un prete; Cianno er mèle su le mano e nun lo sanno leccà; E lèvete la maschera!; Taja ch’è rosso!; Burino scarpe grosse e cervello fino; Le cianche me fammo Giachimo Giachimo; Ce piove a Roma?
 
La giornata di un romano attraverso i proverbi
Dal libro già citato di Claudio Sterpi e Rosangela Zoppi, per gentile concessione degli autori, preleviamo il capitoletto intitolato “La giornata di un romano attraverso i proverbi”
 
La giornata di un romano comune, da quando si alza il mattino a quando va a coricarsi la notte, potrebbe, attraverso i proverbi, svolgersi così:
La matina cià l’oro in bocca.
Chi nun cià voja de lavorà, prete, frate o sordato se va a fa.
Chi nun suda da giovine diggiuna da vecchio.
Chi se sfregna (si ferisce) pe lavorane, j’entra l’arte ne le mane.
Chi cià er mestiere pe le mane, nun se more mai de fame.
Ognuno all’arte sua e er lupo a le pecore.
Er sartore de ber garbetto, d’un mantello ce fece un corpetto (o zucchetto).
Bisogna èsse prima garzoni e poi mastri.
Chi lavora fa la gobba, chi nun lavora fa la robba.
Chi lavora cià ’na camicia, chi nun lavora ce n’ha dua.
Mejo ar fornaro ch’a lo spezziale (meglio spendere il denaro per il cibo che per le medicine).
L’amico bottegaro te fa er prezzo sempre più caro.
È mejo ’na trista mesata che ’na ricca giornata.
Mejo èsse testa d’alicetta che coda de sturione: il modo di dire fa il verso alla famosa frase “meglio essere primo in Gallia che secondo a Roma”, cheCesare, come scrive Plutarco (46-127) nella Vita di Cesare, avrebbe pronunciato durante la campagna di Gallia mentre a Roma il suo nemico Gneo Pompeo aveva sempre più potere.
Dio te scampi da cattivo vicino e da principiante de violino.
Chi cià la moje bella sempre canta, chi cià pochi quadrini sempre conta.
Chi vò minchionà la su’ vicina: a letto a bon’ora e presto la matina.
A casa sua ognuno è papa.
Un muro a vorta, un legno in piede, ’na donna in piano areggheno tutt’er monno sano.
Cor sugo der letto se popola er monno.
 
 
3. I toponimi e i soprannomi
 
I Toponimi più celebri di Roma sono i Sette Colli: Capitolino, Palatino, Aventino, Esquilino, Quirinale Viminale, Celio.
I Rioni di Roma sono 22: I Monti (Municipio I); II Trevi (Municipio I); III Colonna (Municipio I); IV Campo Marzio (Municipio I); V Ponte (Municipio I); VI Parione (Municipio I); VII Regola (Municipio I); VIII Sant’Eustachio (Municipio I); IX Pigna (Municipio I); X Campitelli (Municipio I); XI          Sant’Angelo (Municipio I); II Ripa (Municipio I; XIII Trastevere (Municipio I); XIV Borgo (Municipio XVII); Esquilino (Municipio I); XVI Ludovisi (Municipio I); XVII Sallustiano (Municipio I);           XVIII Castro Pretorio (Municipio I e Municipio III); XIX Celio (Municipio I); XX Testaccio (Municipio I); XXI San Saba (Municipio I); XXII (Prati (Municipio XVII).
I Quartieri di Roma sono 35:
Q.I Flaminio; Q.II Parioli; Q.III Pinciano; Q.IV Salario; Q.V Nomentano; Q.VI Tiburtino; Q.VII Prenestino-Labicano; Q.VIII Tuscolano; Q.IX Appio-Latino; Q.X Ostiense; Q.XI Portuense; Q.XII Gianicolense; Q.XIII Aurelio; Q.XIV Trionfale; Q.XV Della Vittoria; Q.XVI Monte Sacro; Q.XVII Trieste; Q.XVIII Tor di Quinto; Q.XIX Prenestino-Centocelle; Q.XX Ardeatino; Q.XXI Pietralata; Q.XXII Collatino; Q.XXIII Alessandrino; Q.XXIV Don Bosco; Q.XXV Appio Claudio; Q.XXVI Appio-Pignatelli; Q.XXVII Primavalle; Q.XXVIII Monte Sacro Alto; Q.XXIX Ponte Mammolo; Q.XXX San Basilio; Q.XXXI Giuliano-Dalmata; Q.XXXII Europa; Q.XXXIII Lido di Ostia Ponente; Q.XXXIV Lido di Ostia Levante; Q.XXXV Lido di Castel Fusano.
Completano il Comune di Roma i 6 Suburbi: Tor di Quinto; Portuense; Gianicolense; Aurelio;Trionfale;Della Vittoria
 
e le 52 Zone dell’Agro Romano (erano 59 prima della creazione del Comune di Fiumicino che ne ha assorbito 7):
Z.I Val Melaina; Z.II Castel Giubileo; Z.III Marcigliana; Z.IV Casal Boccone; Z.V Tor San Giovanni; Z.VI
Settecamini; Z.VII Tor Cervara; Z.VIII Tor Sapienza; Z.IX Acqua Vergine; Z.X Lunghezza; Z.XI San Vittorino; Z.XII Torre Spaccata; Z.XIII Torre Angela; Z.XIV Borghesiana; Z.XV Torre Maura; Z.XVI Torrenova; Z.XVII Torre Gaia; Z.XVIII Capannelle; Z.XIX Casal Morena; Z.XX Aeroporto di Ciampino; Z.XXI Torricola; Z.XXII Cecchignola; Z.XXIII Castel di Leva; Z.XXIV Fonte Ostiense; Z.XXV Vallerano;
Z.XXVI Castel di Decima; Z.XXVII Torrino; Z.XXVIII Tor de’ Cenci; Z.XXIX Castel Porziano; Z.XXX Castel Fusano; Z.XXXI Mezzocammino; Z.XXXII Acilia Nord; Z.XXXIII Acilia Sud; Z.XXXIV Casal Palocco; Z.XXXV Ostia Antica; Z.XXXVI; Z.XXXIX Tor di Valle; Z.XL Magliana Vecchia; Z.XLIV La Pisana; Z.XLV; Z.XLVIII Casalotti; Z.XLIX Santa Maria di Galeria; Z.L Ottavia; Z.LI La Storta; Z.LII Cesano; Z.LIII Tomba di Nerone; Z.LIV La Giustiniana; Z.LV Isola Farnese; Z.LVI Grottarossa; Z.LVII Labaro; Z.LVIII Prima Porta; Z.LIX Polline Martignano.
 
Nel bel libro di Claudio Sterpi Onomastica di Roma tra l’ufficialità e l’arguzia popolare (nomi, soprannomi, ricordi e curiosità relative a strade, palazzi e monumenti cittadini), Roma, 2004, c’è una trattazione completa dei toponimi romani finora indicati ed in aggiunta alcuni capitoli interessantissimi relativi a Soprannomi entrati nell’onomastica ufficiale (es. Acqua Acetosa, Acqua Bullicante, Alberone, ecc.); Soprannomi rimasti nel linguaggio popolare (es. Acquedotto Felice, Arcacci, Camposanto degli Inglesi, Cortile delle Palle, Fritto Misto, ecc.), Nomignoli modellati dalla cultura (es. Angelo Puntello, Arco del Ladrone, Caffè del Papa, ecc.).
Sempre a proposito di Luoghi e cose notevoli di Roma segnaliamo anche il libro di Willy Pocino, Dizionario di curiosità romane, Roma, Edilazio, 2010.
Segnaliamo pure una trattazione scientifica della materia segnaliano infine L’onomastica di Roma. Ventotto secoli di Roma – Atti del Convegno – Roma 19-21 aprile 2007, a cura di Enzo Caffarelli e Paolo Poccetti, Società editrice romana, 2009.
 
Soprannomi
 
Nel poema eroicomico L’Incendio di Tordinona di Giuseppe Carletti del 1781 c’è un’ottava ricca di nomi propri e soprannomi: (…) Conosco Turro, Fracassin, Cremente, / Agnoletto, Brodoso e Frappa, e Bruno, / Squatrassa, Pappafico, Mezzoprete, / Nasino, Castagnola e Spaccacuno, / Capoccioine, Coccetta, Cacarola, / Marrano, Panzarosa e Cucuzzola.
Il sonetto (n. 379) “Uno mejo dell’antro” di Giuseppe Gioachino Belli allinea ben 37 soprannomi: Miodine, Checcaccio, Gurgumella, / Cacasangue, Dograzzia, Finocchietto, Scanna Bebberebbè, Rosscio, Panzella, / Pelagrossa, Codone, Merluzzetto. // Cacaritto, Ciosciò, Sgorgio, Trippella, / Rinzo, Sturbalaluna, Pidocchietto, / Puntattacchi, Lecchestrèfina, er Bojetto // Manfredonio, Chichì, Chiappa, Ficozza, / Grillo, Chiodo, Tribuzzio, Spaccarapa, / Fregassecco, er Ruffiano e Mastr’Ingozza (…)
Marta Abbate nella sua relazione al convegno del 19-21 aprile 2007 “Soprannomi fuorilegge” contenuta in in L’onomastica di Roma. Ventotto secoli di nomi, Società editrice Romana, 2009, riporta alcuni soprannomi raccolti a Regina Coeli: er Coniglio, er Tronco, Operaietto, er Negro, er Cinese, L’Indiano, er Tedesco, er Francese, o Sceriffo, er Muratore, er Fettina, er Moro, er Biondo, er Pischello, er Secco, er Palla, er Patata, Zucchina, Pomodoro, er Pelato, Tarzan, er Caciara, er Braciola, Pippanera, Zagaglia, Zagaglione, Pallesecche, Ulcera, er Mostro, er Pidocchio, Pidocchietto, a Rana, Scimmietta, er Tigre, er Pantera, er Gatto, er Micio, er Cane.
Nello stesso libro è riportata anche una relazione di Veronica Adriani, Valentina Nerone e Annalisa Pagliuso su. “I soprannomi dei cittadini di Tor Bella Monaca”. Ne riportiamo alcuni con la relativa motivazione):
Alieno (per la forma della testa),
 
L’uso dei soprannomi a Roma è ormai quasi del tutto scomparso. Anche quando era piuttosto diffuso, però, i rioni che maggiormente ne facevano uso erano quelli più popolari, come Trastevere, Borgo, Parione e Ponte. La fantasia del romano, notoriamente fervida, si sbizzarriva alquanto nel creare ipocorismi, che facevano riferimento a difetti fisici, a stranezze del carattere, a particolari abitudini di una persona. Ne ricordiamo qui di seguito alcuni in uso qualche decina di anni fa in Borgo: Er Zelletta, Er Panzone, Er Purcetta, Er Cecato, Er Cagnara, Er Macchiato, Er Quattrosordi. Ogni rione della città aveva i suoi soprannomi, ovviamente diversi da un rione all’altro.
 
 
4.  Canti – filastrocche-indovinelli – giochi- gastronomia- feste&sagre-altro
 
4.1 Canti
 
4.2 Filastrocche, indovinelli, invocazioni, scongiuri
 
4.3 I giochi
 
Giochi di strada e d’osteria
 
Dalla Passatella alla Morra, dalla Ruzzica alla Zecchinetta, dal Rubbacantoni al Tre-tre-giù-giù, dal Sartalaquaja a camminà a Zipidì, zipidè, da Chi tocca pe’ primo er gangheno a Topa-topa, da Pilaccia in canoffiena a Madama Dorè, più di 400 giochi, creati originariamente dagli adulti e divenuti solo in seguito patrimonio dei ragazzi, sono presenti nel libro I giochi a Roma di strada e d’osteria di Giorgio Roberti a rammentarci il volto popolare della Roma di ieri. Giochi poveri, ma fantasiosi, che si è soliti ricordare come “i giochi del nonno” e che ricompongono un suggestivo spaccato di una Roma che non c’è più. Ai bambini e ai ragazzi di oggi, costretti a convivere in angusti spazi con i loro giocattoli che nulla più lasciano all’immaginazione e obbediscono solo alle leggi inique del mercato, è dedicato questo libro che – attraverso la ricostruzione puntuale delle autentiche voci gergali che definivano comportamenti e regole del gioco – fa rivivere invece il fascino antico, la vivacità popolaresca, l’ingenua riproposizione di antichi miti e riti di quei divertimenti di strada e di quei passatempi d’osteria che anche i più grandi solevano concedersi con allegria e che pure ci aiutano a ricomporre il mosaico della vita quotidiana della Città Eterna.
 
4.4 la gastronomia
 
5. I testi in prosa: il teatro, i racconti
 
Tra gli autori teatrali romani segnaliamo
 
Ettore Petrolini (1884-1936) Attore, drammaturgo, scrittore, Petrolini fu uno dei massimi esponenti del varietà e dell’avanspettacolo romano. Fu autore, oltre che di cele- bri macchiette, di atti unici e commedie, tra cui ricordiamo: Nerone; Romani de Roma; Amori de notte; Radioscopia; 47 morto che parla; Donnaiuolo;Farsa di Pulcinella; Gastone;Il padiglione delle meraviglie;Benedetto fra le donne; Chicchignola.
 
Ercole Pellini (1873-1953) Più noto con lo pseudonimo di Leone Ciprelli, Pellini fu poeta e autore di testi teatrali più volte rappresentati, come: Santo disonore; Sabbito Santo; La matina doppo; Anime perze; La parrocchietta; Ciceruacchio; C’era ‘na vorta Roma; Er córpo de grazzia.
 
Gastone Monaldi (1882-1932) Attore e drammaturgo, è uno dei più importanti esponenti del teatro romanesco dei primi del Novecento. Monaldi abbandonò gli studi di medicina per dedicarsi al teatro. Portò sulle scene le passioni più violente del popolo romano, incarnandone i sentimenti più profondi, come l’odio, l’onore la gelosia, la vendetta, facendo propria la figura delbullo. Fondò, nel 1909, la compagnia il Teatro del Popolo, di cui fece parte la moglie Fernanda Battiferri. Tra i successi di Monaldi, scritti da lui stesso, in collaborazione con altri o riadattati, ricordiamo: I vaschi della buiosa, Nino er boja!, Er più de Trestevere; L’Ombra paurosa; ‘Na serenata a Ponte; La Trappola, Er pupo de Trastevere; Istruttoria, A lo sbarajo; Cielo senza stelle; Certificato Penale, La festa der bacio.
 
Checco Durante (1893-1976)Attore della Compagnia Ettore Petrolini, fondò la Compagnia Stabile del Teatro Romanesco, che, dal 1950, si esibì al Teatro Rossini nei mesi invernali e a Villa Aldobrandini in quelli estivi. I testi teatrali rappresentati erano adattamenti da commedie in altri dialetti, da altre lingue, o opere create dallo stesso Durante o dal genero Enzo Liberti, che, alla morte di Durante, assunse la direzione della compagnia. Tra molti i testi rappresentati ricordiamo: Bernardina nun fà la scema, Er segreto der cavolo, L’esame e molti monologhi.Oggi la Compagnia è diretta da Alfiero Alfieri, autore egli stesso di testi teatrali e di adattamenti teatrali da altre opere, come Er malato immaginario.
 
Tonino Tosto, Direttore, dal 1976, dell’Associazione Culturale Gruppo Teatro Esse-
re, Tosto è attore di cinema e teatro, giornalista, scrittore e Vicerettore dell’Università della Terza età. Tra i molti testi rappresentati dalla sua compagnia, scritti da lui stesso o con altri autori, ricordiamo: Roma senza titolo; Odore de zolfo; La favola der cavallo; Bruscolini,mostaccioli, caramelle; Belli ce semo; Donne de qui; Er sogno de Noè; C’erano una volta li cantastorie.
 
 
6. I testi di poesia
 
La rivista di poesia (non soltanto dialettale) piccola ma dignitosa. Periferie, fondata a Roma da Vincenzo Luciani e Bruno Cimino, oggi solidamente diretta da Achille Serrao, ha condotto una propria inchiesta-itinerario nella poesia romanesca, che ribadiva la presenza di un fermento di base, forse non del tutto scontato. È un itinerario minimo, che pure ci porta attraverso tutta una serie di nomi e di attività associative che possiamo passare velocemente in rassegna. (Cfr i seguenti fascicoli: A. 2, N. 2, aprile-giugno 1997, pp. 5-14: “Itinerario nella poesia romanesca” (con minisilloge includente G.C. Santini, G. Castellani, C. Bardella, A. Fefè, R. Collalti,T. Galletti, M. Mastrofini, V. Lupidi, G. Roberti, L. Luciani, V. Scarpellino, G. Salaris); A. 2-3, N. 4-5, ottobre 1997-marzo 1998, pp. 4-10: “Vittorio Lupidi”, “Roberto Ortenzi”; A. 3, N. 6, aprile-giugno 1998, pp. 5-11: “Luciano Luciani”, Vincenzo Scarpellino”; A. 3, N. 7-8, luglio-dicembre 1998, pp.9-11: “Gianni Salaris”, Paolo Fidenzoni”; A. 4, N. 9, gennaio-marzo 1999, pp. 14-15: “Giorgio Fiordelli”, “Vincenzo Scarpellino”; A. 4, N. 11-12, luglio-dicembre 1999, pp. 9-12: “Ricordo di Mauro Marè”; A. 5, N. 13, gennaio-marzo 2000, pp. 9-13: “Scarpellino, ‘poeta de protesta’”; A. 7, N. 21, gennaio-marzo 2002, pp. 18-20: “Angiolo Bandinelli”).
Parte dagli anni Cinquanta e da quel gruppo di amatori, in primis Oberdan e Jole Petrini e Gino Castellani, che fondò la rivista Romanità. Raccoglie poi le voci del gruppo che nel 1970 diede vita al “Centro romanesco Trilussa”, tuttora in vita. Prosegue con i poeti raccolti attorno all’editore Achille Marozzi, che riprese e diresse la rivista Rugantino. Di questi, un gruppo diede vita, nel 1984, all’“Istituto dialettale culturale Rugantino”, diretto da Giorgio Carpaneto, e anch’esso ancora in vita.
Scorrendo la silloge proposta, notiamo varietà di toni, timbri, registri, sì, ma tutti più vicini all’asse della tradizione sopra accennato che non a quello dell’innovazione formale. Non senza esiti felici. Degli autori risalenti alla prima metà del Novecento oggi incuriosisce o attira, per esempio, la critica al regime del trilussiano Giulio Cesare Santini (1880-1957), o la satira sociale di Gino Castellani (1900-1987) che trapela fin da un suo titolo come Da’ la marcia su Roma a’ le Filippe Mòrise (1945). Anche in poeti più vicini a noi prospera una vena ironica e satirica, a dire il vero un po’ prevedibile, perfino un po’ passatista, come in Vittorio Lupidi, che conclude un suo sonetto su “Er teatro d’oggi” dicendo: “Nun l’ho capito… ma dev’esse bello!”
Le immagini di Roma sono un topos, naturalmente, e sono dominanti. Armando Fefè (1905-1969) celebra l’Appia in un sonetto intitolato “Da Porta San Sebbastiano”:
 
E in quell’eternità che, tonno tonno,
riporta celo e tera ar Creatore
l’Appia cammina e se ne va p’er monno.
 
E il seguente scorcio descrittivo da una “Avemmaria” di Mario Mastrofini (1920-1976), risalente a un Rugantino del ’51, è fin troppo “romano” negli oggetti e nelle parole:
 
Rintocca er bronzo, soffia er ponentino,
che s’arza a sfarfallà tra fronna e fronna,
l’urtimo sole svòrtica e s’assonna
e l’aria se scamicia de turchino.
 
Giorgio Roberti (n. 1926) sganciandosi dalle strettorie del sonetto, in un epigramma di endecasillabi e settenari dice, di uno dei luoghi famosi di Roma (“Scalinata de Piazza de Spagna”, 1962):
 
Si l’anime che vanno in paradiso
ciavessero bisogno de na scala
scejerebbero a te.
 
È un filone descrittivo – l’osservazione della città e del suo trasmutare alle varie ore del giorno – che fa trepidare per la possibile caduta in toni estenuati, ma che forse non è da sottovalutare, se pensiamo ad antecedenti illustri, anche lontani. Uno, per tutti: certi incipit di canto nel Meo Patacca di Berneri, dove il descrittivo non indulge a toni lirici, ma – giusta l’epoca e l’influenza del Basile – a incisive figurazioni barocche (l’apertura dei canti iii e vi, ad esempio). In generazioni più giovani, le descrizioni si sganciano dall’atmosfera cittadina, puntano all’intimo e si avvalgono di buona ricerca lessicale, come in Paolo Fidenzoni (n. 1961), quando paragona la propria esistenza quella di un’onda
 
Che svòrtica, smucina, schiuma e core
finché poi, stracca e sderenata ariva
a toccà tera… e lemme lemme more.
 
Aggiorna i contenuti, e li mescola a stereotipi del romanesco come il raggio di luna (che dovrebbe essere degli innamorati, ma qui illumina una tragedia), Gianni Salaris (n. 1943) quando descrive “La morte d’un drogato”:
 
Chi piagnerà ’sto corpo inanimato
e coll’occhi invetriti a fa da specchio
a un frìccico de luna inargentato.
 
Per il gusto diffuso nel tipo di ambienti da molti di essi frequentato, non credo che questi poeti abbiano prediletto e recepito la maniera poetica di Mario Dell’Arco, e in particolare il fatto che fin dalla metà del secolo Novecento egli rompesse lo schema chiuso del sonetto esercitandosi nella libertà metrica tipica del moderno. Eppure in alcuni di loro abbiamo timidi tentativi in tal senso, fin dall’epoca. Romeo Collalti (1906-1982) e Tommaso Galletti (1908-1974) usano l’alternanza di endecasillabi e settenari; così il cit. Roberti, in suoi epigrammi degli anni Sessanta; e così lo scultore Giorgio Fiordelli. Luciano Luciani (1934-1992) – fondatore, insieme ad altri dieci, del Centro Trilussa, redattore del Rugantino, fondatore e più volte segretario dell’Istituto Rugantino – abbandona i quattordici versi per tentare rimalmezzi (ma resta essenzialmente un sonettista che predilige mordenti toni satirico-sociali). Carlo Sbardella (1903-1981) usa addirittura versi liberi e un qualche facile gioco verbale in certi suoi “Fôchi d’artificio” (1952):
 
… una, cento, mille
frecce d’argento
scatteno verso er firmamento;
ma perdeno forza:
e spari e squarci e una pioggia
che sfoggia
smeraldi, brillanti, rubbini, topazzi
a poco a poco
se smorza…
 
Al di là di questi che sono più giochi appunto che esperimenti, c’è chi usa schemi metrici ma in un timbro strettamente personale e riflessivo, che è il preludio all’abbandono delle forme tradizionali per forme liriche moderne. Lo fa Angiolo Bandinelli, che ha interessanti scelte lessicali talora un tantino appesantite da vezzi linguistici; in una composizione complessivamente interessante per il piglio meditativo, per il lessico, perché non costretta dalla metrica (“Ma che te rode drento, stanotte?”), l’attacco è quasi svigorito dall’indulgere a certa tracotanza popolana, con la ripetizione del tipico “cazzo” romanesco per tre volte in poche righe:
 
“Fa buio, è notte. Ammazzala, che notte
agramentosa, scettica e sbriccata:
nun vedo un cazzo, e me ce ’ncazzo assai,
sto svejo e soffro – però, soffrendo vivo
                                                   e ar buio
in questo scassamento, mo’ m’accorgo
che cazzo d’omo che me rode drento.
 
Può darsi che tutta questa vitalissima attività di base venga guardata con sospetto; e che in taluni casi i sospetti abbiano ragione d’essere a petto di una pratica ripetitiva e chiusa ad ogni aria nuova (come abbiamo visto, non è poi totalmente vero nei casi passati in rassegna). Occorre almeno considerare la cosa. Ripensando a un caso oggi storico, quello di Mario Dell’Arco e del suo attivismo perfino frenetico di tra gli anni Quaranta e Cinquanta, ripensando alle sue riviste, ai suoi almanacchi, alle numerose e anche disordinate pubblicazioni: poteva esserci chi (al di là dell’acume di Trompeo e Baldini, che colsero nel poeta l’innovatore di una tradizione), chi reagisse negativamente a tanto fermento, forse considerandolo sottobosco. Oggi sappiamo che non è questa la giusta ottica, e che su tale fermento Dell’Arco basava la sua promozione della poesia dialettale. (Vedi il documentatissimo Franco Onorati, La stagione romanesca di Leonardo Sciascia fra Pasolini e Dell’Arco, Milano, La Vita Felice, 2003, in particolare il cap. I.)
Allo stesso modo, possiamo pensare che una figura di assoluto rilievo nella produzione romanesca contemporanea come Mauro Marè non fosse estraneo (seppur ne fosse lontano) a tanta vitalità di base, che prolunga e tiene vivo un esercizio. Più che guardare alle figure troneggianti come se fossero palme in un deserto, dobbiamo pensare ad alberi imponenti in un bosco intricato ma prolifico.
Sgomberato il terreno da simile pregiudiziale, possiamo concentrarci su una delle voci della città di Roma, quella di Vincenzo Scarpellino
 
La poesia romanesca di Vincenzo Scarpellino. Scarpellino (1934-1999) trasse linfa dall’humus sopra delineato: fece parte del “Centro Romanesco Trilussa” dal 1981; trasmigrò poi all’ “Istituto Dialettale Culturale Rugantino” (di cui fu tra i fondatori); pubblicò poesie sui periodici Romanità, Lazio ieri e oggi, Voce romana. Venuto a morte prematura , quale pegno amicale fu a lui fu intitolato un Centro di Documentazione della Poesia Dialettale (Presso la Biblioteca comunale romana “Gianni Rodari”, via Olcese 28. A due anni dalla sua istituzione, ha raccolto e catalogato quasi 500 testi – v. su Periferie N.29/2003 il secondo bollettino dei libri ricevuti, e l’intero elenco aggiornato alla pagina web www.poetidelparco.it/centro-dialettale/bollettino.htm) promosso e diretto da Vincenzo Luciani.
Quest’ultimo e Achille Serrao hanno portato alla luce la voce poetica di Scarpellino, il primo dandone alle stampe le poesie nel volume postumo Foja ar vento(2000) – suo terzo dopo Roma contro (1984) e Li governicoli (1985, con Luciano Luciani) – il secondo prefacendo tale raccolta [Foja ar vento (pres. Achille Serrao, postf. Vincnzo Luciani, Roma, Cofine, 2000) include una scelta dalle due raccolte precedenti e degli inediti. L’Autore aveva personalmente selezionato i testi e approntato il volume per la stampa, ma non potè vederlo compiuto].
La prefazione di Serrao contiene idee importanti per collocare la poesia di Scarpellino, più che nel quadro romanesco attuale (non facile da afferrare o apprezzare), nella dipendenza dal Belli. L’ascendenza belliana è indubbia, consapevole e dichiarata, tanto che l’amico e suo editore postumo Vincenzo Luciani, nella postfazione a Foja ar vento parla di “un unico modello e maestro, il Belli, frequentato con devozione, con l’orgoglio e la ribalderia del ‘romano de Roma’, legato a doppio filo alla grande tradizione romanesca”(Foja ar vento, cit., p. 78).
Ascendenza che il prefatore Serrao, con sguardo critico distaccato, tende a mettere a punto e ridimensionare, lamentando il fatto che “una raccolta che impieghi il romanesco, e per di più nella forma chiusa del sonetto, debba in ogni caso passare per le forche caudine dell’apparato belliano”. Certo, ammette egli stesso, il fatto che venga usata quasi esclusivamente la forma del sonetto, e il ricorso all’ironia e alla satira come pratiche dissacratorie, sono elementi che affiliano l’autore contemporaneo al padre della poesia romanesca, ma rappresentano una “adesione al congegno metrico”, per quanto lo stesso autore pare dichiarasse che senza siffatto congegno la poesia romanesca perderebbe il suo ubi consistam espressivo. Del resto, prosegue Serrao (e non si può non convenire), a Scarpellino “manca del tutto, non dico l’assunto programmatico, ma perfino l’intenzione di construire un ‘monumento’ alla plebe; e non c’è in lui, come c’è invece in Belli, il distinguo fra la voce del poeta e quella del suo personaggio parlante. In Foja ar vento il poeta accampa in toto il suo ‘io’ dilacerato…”. (Cfr. Foja ar vento, cit., pp. 4 e 5).
Questo venire in primo piano dell’io è già tratto moderno della poesia dialettale. Serpeggia nella prima metà del Novecento ed emerge in esempi lampanti, come in Biagio Marin, che ben presto nel secolo poetava in termini lirici puri, come in questa quartina, peraltro assolutamente metrica, dalla raccolta Fiuri de tapo, del 1912:
 
E l’aqua bronboleva drìo ’l timon
e del piasser la deventava bianca
e fin la pena la mandava un son
fin che la bava no’ la gera stanca.
          (“E ’ndéveno cussì”, 9-12);
 
Siamo nella stessa temperie rarefatta del Di Giacomo di Ariette e sunette (1898), e Marin la prolunga mirabilmente. Già verso la metà del secolo questo accamparsi dell’io in chiave lirica e lontana dai moduli dialettali ottocenteschi (belliani inclusi) è criticamente riconosciuta e formalizzata, fin da quando Contini, scrivendo a Mario Dell’Arco diceva: “oggi mi par chiara una tendenza della poesia dialettale alla lirica, diciamo così, ‘pura’ e al (ripeto le virgolette) ‘canto’” (Lettera inedita, riprodotta in F. Onorati, cit., p.58, datata “Natale 1946”) e un critico come Pietro Paolo Trompeo a proposito della poesia di Roma parlava di “romanesconi della duplice schiera; i ridanciani per i quali non c’è poesia romanesca senza il titolo ‘pacioccone’, il solito ‘ciurcinato’ e la solita ‘pernacchia’, e i sentimentali che si sdilinquiscono per i ‘mignani’ e i ‘mignanelli’ di Trastevere” (“Nuova poesia romanesca”, in La Nuova Europa, 27 gennaio 1946; leggibile in F. Onorati, cit., pp. 37-41).
E Antonio Baldini, che fu romanista fin nel titolo d’una sua raccolta di “vedute di Roma”, (Rugantino, a c. di Arnaldo Bocelli, Milano, Bompiani, 1942) parlava dei “due maggiori pericoli, opposti e immanenti nella poesia in dialetto romanesco, pesantezza di mano e smanceria sentimentale” (“Farfalle sotto l’arco di Tito”, prefazione al volume di Mario Dell’Arco Taja, chè rosso!, Roma, Migliaresi, s.d. [ma 1946], pp. 5-10; leggibile in F. Onorati, cit. pp. 43-46).
Scarpellino, oscillando fra l’asse della tradizione, per adesione alla forma del sonetto, e l’asse innovativo che trova appunto in Dell’Arco il primo riconosciuto esponente, certamente non rientra né fra gli uni né fra gli altri dei “romanesconi” di Trompeo, e si destreggia fra i rischi esplicitati da Baldini, esposto più a pesantezza di mano che a smancerie e sentimentalismi. Non c’è ombra in lui di tonalità dettate dal rimpianto del bel tempo andato e del piccolo mondo antico, di quadretti nostalgici, di bozzetti rugantineschi, di truculenza popolana, nemmeno quando ripiega in toni elegiaci e conclude un sonetto dicendo “pe dà lo sfratto a la maliconia”, perché nella testura della sua poesia tale atteggiamento suona robusto e non abbandonato alla fatalità; e quando sull’onda della passione civile indulge a virulenza verbale, è virulenza dettata da rabbia della ragione, non da tristiloquio popolaneggiante.
Egli si definisce, e vuole essere riconosciuto, come “voce de protesta” (Nel sonetto “Un’antra foja ar vento”, in apertura di Foja ar vento, cit., p. 8); e in effetti, per dirla col prefatore Serrao, egli si fa uno degli “strenui fabbricanti di sogni, [che] adunano parole intorno a una frantumata realtà della quale intendono farsi comunque interpreti fervorosi” (Foja ar vento, cit., p. 3). In realtà, Scarpellino ha due registri nella sua tastiera, uno sociale e uno filosofico. Potrebbero essere la stessa cosa, perché la denuncia sociale nasce in lui da una disposizione latamente filosofica a considerare la vita, a cercarne le motivazioni in qualcosa di trascendente, e le responsabilità nella struttura terrena e umana. È una duplicità che si proietta nella stessa divisione della raccolta Foja ar vento, la quale si presenta in tre parti: la prima, intitolata “Momenti”, che aggrega appunto la disposizione filosofica, e la seconda, “La politica”, che dà voce alla denuncia politico-sociale; mentre la terza parte, esplicitamente denominata “L’anticlericalismo”, è assimilabile alla seconda, in quanto denuncia le incongruenze di una struttura umana. Ci sono sovrapposizioni e intrecci dei toni, naturalmente; ma è una divisione che possiamo far risalire allo stesso Autore.
Al momento di farci un’idea e una valutazione della poesia di Scarpellino dobbiamo dunque tenere presenti questi segnali e queste linee-guida, oggi ampiamente condivise, circa la poesia di area romanesca e dialettale o neodialettale in genere (per chi avesse in uggia quest’ultimo aggettivo, aggiungiamo che ancora a proposito di Dell’Arco lo stesso Baldini parlò già a suo tempo di “neoromanesco”) [“Tastiera”, nel Corriere della sera, 29 novembre 1964; anche questo riprodotto in F. Onorati, cit., pp.46-49]. In ambedue gli atteggiamenti predominanti di Scarpellino, troviamo momenti felici e momenti irrisolti. Il primo brano della sezione “Momenti”, intitolato “A un passo dall’antro monno”, già contiene uno dei timbri forse migliori o quantomeno efficaci: l’appressarsi della morte, “…la strada pe scoprì l’arcano / che all’omo jè scancella ogni dolore”, detta un tono pacato e una costruzione di pensieri proporzionata e armonica: nell’atmosfera elegiaca, né guastano né giungono scontati atteggiamenti di pensiero che fanno dire: “er sottofonno d’un parlà lontano / scanza er silenzio senza fa rumore”; oppure, poco dopo, “Nun t’aricordi più si prima c’eri”. In questo atteggiamento osservativo e pensoso, perfino il bozzetto – e Scarpellino non è un bozzettista – ha una sua misura gradevole e un pensiero efficace, in “Un quadretto” (proprio questo il titolo) in cui la notte è amica connivente delle effusioni di due innamorati: “er passato, er presente cor futuro / li senti baccajà dov’è più scuro” (Foja ar vento, cit., p. 12. Vedi sezione antologica del libro di Cosma Siani, Poesia dialettale nella provincia di Roma) l’amore è vitalità inconsapevolmente immersa nel tempo dove la vita del poeta che osserva si consuma. Sono momenti di rilassamento, dai quali l’Autore si ritrae ben presto, per ritornare alle sue interrogazioni tipiche del modo che abbiamo chiamato filosofico: “Ma io chi so’, che fo sopra ’sta tera?… / e si so’ vivo manco ne so certo”; “Gni attimo che score… è già passato! / Lo voi fermà, ma quello se n’è ito”. (Cosma Siani, Poesia dialettale nella provincia di Roma, p. 19 “Ma io chi so” e p. 20 “Er tempo de la vita”)..
Questa positura filosofica, questo elucubrarsi sul tempo che passa e sull’appressarsi della morte, sono talora incrinati da apostrofi didascaliche e addirittura moralistiche, che sono la nota ovvia in questo registro di Scarpellino:
 
Finché la gente nun l’avrà capita
che ne l’amore vive la sostanza
nun potrà avé mai gnente da la vita.
 
Perché de dietro a la mentalità
de chi vorrebbe vive de grannezza
ce s’anisconne solo povertà”.
(Cosma Siani, Poesia dialettale nella provincia di Roma p. 24, “La notte è lunga”, e p. 28, “La presunzione”)
 
Questo è uno degli esiti “bassi” delle composizioni di Scarpellino, e attiene alla selezione del contenuto oggettivo, ovvero dei concetti da inserire nella sua comunicazione poetica. Ma la posizione moralistica non è prevalente, per fortuna; batte al fondo nell’individuo pensante che non si rassegna alle ineguaglianze, e spiega la virulenza dell’altro suo registro, la protesta sociale; talora, bisogna anche dire, la conclusione didascalica sembra una scelta dettata dal bisogno di imporre una chiusura al giro ritmico del sonetto, e quindi suona un po’ forzata. Cosa che ci conduce a un altro aspetto irrisolto di queste creazioni poetiche: certa difficoltà di costruzione. Succede, soprattutto nelle composizioni di denuncia civile, che Scarpellino parta da un’idea subito espressa nella prima quartina, e che dovendo portare a termine la miniarchitettura del sonetto avendone già espresso l’idea-motrice, aggiunga pensieri, considerazioni, conclusioni che sembrano cercati e forzati in uno schema metrico, oppure ripetuti a variazione dell’idea originaria, e perciò non in armonia con essa o non fluentemente sviluppati da essa. Cosicché il testo suggerisce l’impressione di mancanza di linearità nella costruzione. Così è “Er progresso farzo”, tolta dalle poesie di protesta: (ivi, p. 57. Vedi sezione antologica del volume) nella prima quartina viene detto che il mondo, leggi l’essere umano, si autodistrugge; nella seconda quartina è ripetuta questa idea e aggiunta una rappresentazione di vana corsa dietro al successo, che strettamente parlando sarebbe estranea all’idea di partenza; nella terza strofe, la prima terzina, viene abbandonata l’idea di autodistruzione e proseguita quella di frenetica e vana attività; nella terzina di chiusura il poeta dice infine: almeno sapessimo riciclarci come facciamo con l’immondizia, ma si sa, della nostra sorte “nun ce ne frega un cazzo”. E se si guarda più in dettaglio la stessa prima quartina, il terzo verso: “viva la civirtà, viva er progresso…”, e il quarto: “‘zombi-robotte’ e abborto de mammana”, non sono strettamente consequenziali rispetto all’apertura dei vv. 1-2, che dice l’idea centrale da cui è nata la spinta a comporre. È così, e anche più evidente. “La vita è sacra” (p. 53. Vedi sezione antologica del libro di Cosma Siani, Poesia dialettale nella provincia di Roma) l’idea-base – in questo tipo di società agli onesti non viene attribuito valore –, perno dell’indignazione del poeta espressa nella quartina d’apertura, è essenzialmente ripetuta con variazione nelle quartina seguente: hanno potere gli impostori, e chi non ne ha può andare in malora, e nella terzina: i malfattori sono intoccabili; i tre versi che dovrebbero chiuder il giro di pensiero a ben guardare dicono qualcosa di diverso, o di non conseguente: noi onesti che ci stiamo a fare?.
Ci sono altre composizioni che presentano questa mancanza di linearità e compattezza, e se non la presentano in maniera così lampante, alla lettura lasciano un senso di disagio della comprensione, che dipende appunto da una costruzione più metrica che di pensiero. Al contrario, quando Scarpellino è lineare perché ha chiara nella mente un’articolazione del contenuto, riesce in costruzioni che alla lettura danno un senso di discorso iniziato, articolato e concluso armonicamente, con coerenza e integrazione di particolari; e ciò sia in brani di denuncia civile dal registro sarcastico, come “Tre cacciamine in cerca d’autore” (p. 58. Vedi sezione antologica del libro di Cosma Siani, Poesia dialettale nella provincia di Roma) sia in quadretti della città come “Roma bojaccia” (p. 32. Vedi sezione antologica del libro di Cosma Siani, Poesia dialettale nella provincia di Roma)– e abbiamo già detto che Scarpellino non è un bozzettista: dal bozzettismo lo salvano l’espressione forte del suo io indignato che soverchia del tutto il gusto strapaesano d’una Roma romantica da canzonetta popolare.
Tutto quanto detto dovrebbe anche mostrare che in realtà non c’è divisione fra il poeta assorto contemplatore della vita ineluttabile e il poeta di protesta, come suggerisce la divisione delle parti nella raccolta Foja ar vento. I due toni di fondo sono in verità gli estremi di un continuum, lungo il quale succede che essi si intreccino fra loro e mescolino ad altri stati d’animo: il malinconioso, l’elegiaco, l’ironico, il sarcastico, l’indignato, l’arrabbiato fino all’aggressività. Vero è che la protesta o denuncia sociale, sgorgante da questi ultimi toni, è caratteristica macroscopica, ed è quella che sostanzialmente aggiorna questa poesia romanesca di Scarpellino, sostanziandola di contenuti contemporanei, sociali e civili, e anche sociologici (“Cristo e Marxe”) e politici (“Ar burocrate boiardo de stato”), concretizzati in precisi episodi o fatti di cronaca: non tanto “Er barbone ner presepio de piazza S. Pietro”, che potrebbe sembrare un po’ scontato nella contrapposizione lampante tra il rituale del culto formalizzato e la realtà sociale lacerata; oppure la contrapposizione ricchezza-povertà, e tutte le contraddizioni a cui si appiglia l’anticlericalismo infuocato dell’Autore; quanto persone e fatti precisi come l’“Aids, peste del Duemila”, “L’encicrica”, “L’Opus Dei”, “Ar Dio Agnelli”, il dissesto ecologico (“Gnissempre una tragedia”), i bombardieri americani nella guerra del Kosovo (“Metamorfosi de na colomba”), lo sminamento in Medio Oriente da parte di corpi della marina italiana (“Tre cacciamine in cerca d’autore”), l’eversione (“La ginìa der terorista”), “Li spariti in Argentina”, “Er fattaccio de ‘L’Italicus’”. Si tratta di reazioni del cittadino indignato (nelle quali ci si può ampiamente riconoscere), imbrigliate nello schema del sonetto, che suscitano interesse proprio per il fatto di rappresentare contenuti quotidiani.
Riflettendo sulla resa complessiva: dato per ammesso che non è l’oggetto che ne assicura l’effetto poetico, e preso atto che Scarpellino sceglie di esprimersi in poesia e quindi in un tipo di comunicazione estetica (come se la sua attività sindacale nel settore delle assicurazioni, in cui lavorò in vita, non esaurisse le aspirazioni che lo pressavano), va ribadito che l’efficacia appunto estetica è raggiunta in quei brani in cui l’Autore disciplina il pensiero in un discorso articolato, qualunque sia il registro di fondo del suo continuum interiore, l’elegiaco o l’arrabbiato. In tal senso possiamo dire che composizioni come “La decadenza”, il citato “Tre cacciamine”, o “Pontemollo”, e non solo queste, rappresentano un contributo che può ben figurare nel repertorio e nel patrimonio del romanesco.
 
Altri poeti in romanesco
Nel panorama assai vasto dei poeti in romanesco meritano una segnalazione i poeti Massimo Bardella, Rosangela Zoppi, Pier Mattia Tommasino, Paolo Procaccini, Claudio Porena (di tutti questi poeti è possibile ricavare biografia e testi sul sito www.poetidelparco.it)
 
Gino Sorgini
Disegnatore di vaglia ha collaborato nel Vittorioso per alcuni anni. Ha inoltre lavorato come facchino ai Mercati Generali sull’Ostiense. Proprio l’esperienza del mercato ha sollecitato in lui la vena poetica, che lo ha portato a scrivere un poemetto, intitolato Er due de bastone, composto di quartine di endecasillabi e “articolato in piccoli quadri-episodio” con molte intrusioni gergali. L’opera,in cui Sorgini rievoca un mondo, ormai scomparso e ricco di tanta umanità, è ancora inedita ed è stata presa in considerazione da alcuni critici, che ne hanno pro- posto la pubblicazione e per la buona confezione e per il contenuto-testimonianza.           
 
Li pupazzi
 
(S’arza er sipario su la Romanesca:
comincia er recità de li facchini,
s’accenne er piagnisteo pe li quatrini,
principia er girotonno all’aria fresca.
 
Sfila così ’na serie de quadretti
de ste cariole spinte in pricissione
co quer po’ po’ de robba sur groppone:
e loro sotto ar tiro pe muletti.
 
E ner tirà, er facchino se conquassa:
lo scheletro je scrocchia a meravija,
er còre in mezz’ar petto se scompija
e batte a più nun posso la grancassa.
 
Er gruggno ne lo spasmo cambia grinta,
che pare un mascherone de funtana;
in bocca la dentiera je se sgrana
sotto lo sforzo fatto pe la spinta.
 
Così, fra sto cancan de carnovale
e in mezzo a ’n teremoto de strapazzi,
er tempo logra e cambia li pupazzi,
ma la commedia resta tale e quale).
 
 
La spallata
 
Fenito er calessino, morto er cocchio
rimane ’n carettino dozzinale,
n’ordeggno da mercato generale,
un urtimo respiro de facocchio.
 
Così s’envecchia er monno mentre gira
e assiem’a lui le cose che scarozza.
M’envecchio io ner procurà la stozza
co sta cariola mia che me sospira,
 
me butta da ’na parte, penne, scrocchia:
le rote da rotonne so’ quadrate,
le du’ balestre dormen’accucciate
e, sotto, ’na spasetta se sconocchia.
 
Er leggno è diventato ’na ricotta,
ché la cavicchia nun ce fa più presa;
la tiro, la stracino; fischia, pesa
e addosso a me ’gni vena me s’abbotta.
 
Er tempo ormai ce corca cor un dito
e ce straporta in pizzo a la spallata;
stamo giranno all’urtina vortata.
S’è fatto notte. Er giorno nostro è ito.
 
Stefano d’Albano
Architetto, ha frequentato i corsi di letteratura e dialettologia romane- sca presso l’Università della Terza Età. Una poesia, la sua, in cui si alternano la speranza nei solidi valori umani e lo sconforto per gli at-tacchi che il male sferra a quegli stessi valori minandoli. Una poesia che spesso si rifugia nei ricordi, considerati unico rimedio atto a lenire il dolore per un precario presente. D’Albano ha pubblicato le seguenti raccolte poetiche: Li giorni; Una stilla de ricordi; Un’artra tacca e tre plaquettes: Sonetti? No, grazie!; E levo er catenaccio a li penzieri; I miei primi sonetti.
Er condannato
 
Quattro muri appestati e scarcinati.
‘Na finestra serrata sopra ar monno.
‘Na porta appuntellata
e dentro, un omo
senza speranza, penza.
Aspetta er sole e appresso una sentenza.
A punta d’arba
un luccicore fiacco e appennicato
sbavija. Sta agguattato.
Debbotto s’arisveja. Sguizza, schioppa
e scarica una luce che sbarbaja.
Spara li razzi come una mitraja,
sbucia lo scuro, ruzza, lo sbaraja.
Risbarza su li muri scuri e scrocchia
e la ferrata pare che se squaja.
Poi, a la lontana, un sòno de ferraja.
Quarcuno scatenaccia.
L’inchiavatura scatta.
Un sbirro caccia fora de saccoccia
‘na carta e je l’accosta: una risposta.
L’istesso che un cortello ne la costa.
Er sangue j’aribbolle, poi s’allacca,
cala le braccia, china la capoccia…
casca su le ginocchia.
Strigne le mano e resta babbilano.
E quanno er baricello lo straporta
a la stracca se svorta intontonito
ché j’era parzo de sentì in quer sito,
de quattro muri scuri e una finestra,
millanta trombe de una granne orchestra.
 
 
 
Un’emozzione
 
Appizzo l’occhi dentro a l’orizzonte.
E quanno l’urtima sperella sguazza,
ruzzica ner turchino eppoi s’ammorgia,
appoco appoco er cèlo se fa rosso.
Allora senza l’ale e senza vento,
volo, sempre più su
e conto li ricordi a cento a cento.
Poi nun li conto più.
Me inchioda un’emozzione:
rivedo un regazzino che ar tramonto
cammina verso casa cor pallone.
 
 
Antologia
 
Cenni biobibliografici
 
Bibliografia
 
webgrafia
 
ultimo aggiornamento 19-11-2011