Nato a Catanzaro il 1º marzo 1960, Renato Nisticò ha studiato a Napoli e ha conseguito il dottorato di ricerca in scienze letterarie e tecniche dell’interpretazione presso l’Università della Calabria.
È stato poi bibliotecario presso la Normale di Pisa (da questo lavoro deriva l’interessante volume «La biblioteca», Laterza, 2015).
Autore di una monografia su Vittorio Sereni («Nostalgia di presenze. La poesia di Sereni verso la prosa», Manni 1988) e di un romanzo («L’arcavacànte. Storia di anarchici lupi e ragazze», Mobydick, 2006), studioso della narrativa di Mario La Cava, ha pubblicato due raccolte di versi: «Regno Mobile. Poesie 1980-1990» (Mobydick, 2001) e «Attenti caduta metafore» (Donzelli, 2017).
Dopo aver combattuto a lungo contro la terribile SLA, è morto, a soli 58 anni, il 22 febbraio 2019.
Devo a Caterina Verbaro se ho incontrato la poesia di questo autore che costantemente tenta di decifrare attraverso il pensiero poetante il senso di quello che gli è intorno (le cose, gli uomini, gli accadimenti), di far chiarezza intorno al confuso mondo che ci avvolge, nel tempo che viviamo: «Il tempo che ora ci ammalia e ci divora». E che considera la poesia come strumento indispensabile di conoscenza, da perseguire nonostante i fallimenti cui si va incontro:
«Ho visto me stesso; e non mi sono capito; poi ho parlato ad altri di me, e mi hanno taciuto / allora ho parlato di loro a se stessi, e ci siamo incrociati con lo sguardo, ma per rimanere / indifferenti. È stato quello il momento, è andata via la luce, il vicolo è risorto / e dio è di nuovo morto pronunciando il nome dei poveri come quello dei suoi assassini»
(è questo un lacerto dello straordinario «Discorso agli italiani» posto quasi a conclusione della raccolta da cui anche ho tratto la poesia che qui oggi pubblico).
Segnalo che Caterina Verbaro ha dedicato alla poesia di Renato Nisticò un articolato saggio (in «Italian Poetry Review», XII, 2017) di cui cito soltanto le poche righe che danno conto del titolo, con l’immagine della «caduta metafore» che «riconduce a un certo spirito anarchico che domina il libro, alla sua imprevedibilità espressiva e tematica, alla molteplicità difficilmente catalogabile dei suoi contenuti (il tempo, l’eros, la politica, la vita nelle sue infinite sfaccettature). E nello stesso tempo colpisce la formulazione allocutiva del titolo, che si rivolge ai lettori come in un appello accorato e scanzonato insieme, tragico e scherzoso, insensato e profetico».
E io sento, nei versi di Nisticò, la stessa tensione intellettuale del grande suo conterraneo Calogero, la stessa capacità, visionaria direi, di perlustrare anche il fondo oscuro del reale.