Il libro Ovvero (Nino Aragno Editore, Torino, 2015) che unisce poesie edite – ma, tiene a precisare Lino Angiuli, hanno subito modifiche – e inedite, è suddiviso in queste parti: “Qui” (con testi ripresi dal libro Terranima: Puglie luoghi miti riti : viaggio fotografico, del 2002) – “Cartoline” (da Cartoline dall’aldiqua: ventotto paesie, del 2004) – “Sudest” (da Le strade dell’occhio, del 2008) – “Ultimissime” (testi pubblicati: Iuldeme su «incroci», n. 21, gennaio-giugno 2010, unitamente a una Umana lettera rivolta ad Assunta Finiguerra, nella quale veniva dichiarata la scelta di non comporre più testi poetici in lingua dialettale; successivamente, tutti insieme, in Voci del tempo: la Puglia dei poeti dialettali, a cura di Sergio D’Amaro, nel 2011) – “Riassunti” (apparsi integralmente su «Kamen’», nel gennaio 2013) – “Scatti riscatti” – “Quattro per quattro” (a sua volta suddiviso in “Stagioni” apparse su «incroci», nel luglio-dicembre 2012) “Elementi”, “Punti”, “Carte”) – “Canzoniere del giorno ics” – “Preposizioni semplici”
Il volume è sapientemente cucito dall’autore al quale, a questo traguardo della sua carriera, piace porre dei punti fermi sulla sua opera poetica perché la stessa sia ben compresa nelle linee di fondo. A tale scopo Angiuli premette a Ovvero tre esergo che costituiscono altrettante chiavi essenziali della sua poetica. Eccoli, chiarissimi e non bisognosi di commenti:
Il primo: “Non il vedere per primo qualcosa di nuovo, bensì il vedere come nuovo l’antico, ciò che è già anticamente conosciuto e che è da tutti visto e trascurato contraddistingue le menti veramente originali”. (F. Nietzsche)
Il secondo: “Mi hanno sempre interessato le storie degli sconfitti, non quelle dei vincitori. Dai vincitori non s’impara mai nulla”. (S. Beckett)
Il terzo: “Tu non conosci il Sud, le case di calce da cui uscivamo al sole come numeri dalla faccia d’un dado”. (V. Bodini)
Angiuli poi, ad abundantiam, conclude la sua opera con una Nota dell’autore intitolata “Alla bellezza”, dalla quale citiamo questo brano, chiarificatore degli intenti che hanno presieduto alla stesura di questa articolata raccolta:
“Quando si scrive sud (…) non ci si può limitare a usare tale nozione in termini solo italici o solo geopolitici, perché – per fortuna – la lingua e l’immaginazione possono fare ben altro, fino a produrre simbologia e metaforicità, il che ci aiuta a legare il concetto di sud ad altre realtà vinte ovvero umiliate ovvero silenziate ovvero rimosse. Da questa necessaria e inevitabile dilatazione che mette in relazione il qui e il la, l’allora e l’adesso traggono spunto le idee e le composizioni raccolte in questo libro, in cui vengono ospitati anche alcuni materiali già editi in pubblicazioni esaurite, che ho voluto riproporre perché in linea con il discorso che mi piace bodinianamente fare da tempo: collegare il mio, il nostro sud ad altre analoghe condizioni sia per ragioni di pietas storica sia per altre ragioni che lascio cogliere al lettore, dopo avergli offerto il seguente, ultimo, spunto riflessivo. Nella mia cultura originaria, impressa nella parlata dialettale che mi ha allattato, per dire «piano piano» si dice ancora oggi «belle belle» (bello bello), associando il concetto di lentezza a un’evidente valenza estetica. E quando ci si incontra per strada, dalle mie parti ci diciamo ancora quello che adesso voglio dire al lettore per salutarlo cordialmente: «alla bellezza» ovvero alla bellezza! Cambiando l’ordine delle lingue il risultato non cambia, perché ogni messaggio sa come fare a mantenersi in vita: anche questo messaggio, partito dal qui e al qui tornato, dopo aver fatto il giro del mondo conosciuto alla ricerca di un pianeta più consapevole delle sue cento e più questioni meridionali”.
Dell’egregia Postfazione Giuseppe Langella che acutamente passa in rassegna ed esplica l’opera di Angiuli (sulla quale non posso non concordare e che invito a leggere) mi piace citare l’appropriato incipit:
“In uno dei Riassunti, sezione rapsodicamente autobiografica di questo libro, in cui Angiuli, in vena di bilanci, ripercorre la sua vita di scorcio e di traverso, si legge, a un certo punto, un’icastica e davvero ‘riassuntiva’ dichiarazione a posteriori di poetica: «zappai mille parole per dare la parola alla zappa». Semmai una formula potesse racchiudere nel giro di poche sillabe il segreto di un’opera d’ingegno, non più che un piccolo specchio d’acqua l’immensità del cielo, non esiterei ad additare in questa arguzia un’eccellente chiave d’accesso al lavoro originale e sempre creativo di Angiuli. Partiamo pure dal fondo, dove si addensa e va a parare l’intenzionalità dell’atto: «dare la parola alla zappa» significa scrivere per conto di un mondo paesano e contadino, quello delle sue origini, arcaico e popolare, tenuto in soggezione dai potenti, escluso da ogni bene che non fosse un sanguigno attaccamento alla vita, ignaro di carte penne e calamai, e quindi condannato in partenza a non avere voce in capitolo”.
Confesso di preferire i testi della sezione “Qui ovvero cinque ragioni per stare” per il suo elevato, coinvolgente tono epico e la sua visionarietà, a cui si sposano magnificamente le invenzioni/folgorazioni dell’Angiuli ispirato (quello che non indulge ai giochi di parole troppo insistiti e cerebrali). In questa sezione spicca la dichiarazione delle ragioni politiche della sua “scelta di classe” – come si sarebbe detto in un tempo che oggi appare remoto -, e di “campo”, anzi di terra, quella della Puglia (E Puglia sia / come la madre di tutte le puglie / due sillabe di luce in carne e ossa. Punto). Puglia con “Un silenzio coi piedi per terra”,in cui“La masseria festeggia i compleanni della calce”e in cui“Gli eroi portavano i calzoni corti”. Ma è in “Croce e scroce”che le tante Puglie che fanno una sola indicibile Puglia trovano una sintesi epica ed alta, con un’esplosione reiterata di correlativi oggettivi (la riproponiamo integralmente in conclusione a questa Nota)
Delle “Ultimissime” ovvero tre ragionamenti intorno al dialetto che è un unico ispirato poemetto prediligo la “Penuldeme”(anche questa riprodotta in fondo a questa Nota)
In “Riassunti” (testi molto belli e originali anche per la forma metrica, sapientemente organizzata) amo soprattutto “Madonnamia”(vedi in fondo) e “Ognittanto mi viene”
Delle altre sezioni ho un numero enorme di versi e termini che mi hanno colpito, commosso, divertito, estasiato (che ho diligentemente sottolineato), ma preferisco non aggiungere altro e lasciare spazio ai testi, frutto di un lungo sofferto paziente lavoro. Perché (io lo so perché più volte ci ho provato e ci provo) è tutt’altro che agevole “dare la parola alla zappa”.
Lino Angiuli, Ovvero, Nino Aragno Editore, Torino, 2015, Postfazione di Giuseppe Langella
Vincenzo Luciani
Croce e scroce
a passo di piombo un vento di taranta
attraversa la festa grande del dolore
i clarinetti incappucciati a braccetto
con una fila di maddalene spettinate
il pianto trafitto della grammadre
la cera sciupata traboccante di lutto.
I tamburi s’infilano tra le stradine
mischiandosi a un odore di spagne e di cipolle
bussano alle porte dei vivi e dei morti
nel nome di una colpa appollaiata sul cuore
che cerca la resurrezione come il pane.
Ma altre cento giovani madonne
si danno da fare dappertutto
quella si cala nel pozzo a cogliere amen
quell’altra sale su una quercia in cerca di rosari
quell’altra viene dal mare sopra un peschereccio
e c’è chi se la fa dentro la nicchia o sotto l’arco
in compagnia di qualche fresia e di un lumino
facendo due chiacchiere con il vicino.
Poi un bel giorno bum bum bum
giunge la pacchiana carovana dei Patroni
i santi nostri che ci danno confidenza
vestiti di lusso e di merletti arzilli
scendono in piazza in mezzo ai confratelli
una benedizione di cartapesta a tutti
un’elemosina una grazia e passa la paura.
Sono patiti di nocelle e di lupini
sono compari di Rigoletto e Tosca
vanno a dormire ben oltre la notte
per godersi ogni sparo a colori
Penuldeme
Attaneme sande chezzale decève “ho venuto” pe ffa
bbella feiùre che le segnure ma però acquanne
scabuàve se scappuàve sckitte ’nnande o segnore
de Criste ca chemmanne iàrue crestiane e ccrape.
Po’ pe pparlà che le frate mèrecane ’nge spezzecave
a chidde ddà cazzorràit e aronò
mo’ cambe de cambesande uardiane de le parole
e de le tembene so’ e rite a ssule a ssule rite
accome rideche ji penzanne a certe faduarìe.
Mamme faceve u fermagge e ’nge mettève u diste
’ngule alle iaddine p’appurà ce ière matrate l’ùeve
ca m’avev’a da’ a mmè ognè mmatine
decève “u àrue de la rise” senza sapè de Garsialorche
(u poète accise u zegnere du delore che me ’mbarò
ad asseppange alla lune u sedore).
Mamme sta ddò da millanne e picche u crete
ca ha v’a merì auànne.
Ji (u digghe arrète) baste c’abbagneche la pondaponde
du destetjedde jinde a ’sti remmure ameruse schegnate
ca ’mbreste ièsse a fferve u core e le mane caccene
menghionere terciùte bbùene a ’ngenà la vita peccenenne
tanne me sende natrale a nnu ’ndiane pelle e iòssere
pe ssembe pellerosse ca se mette a zembà
sott’o cìele pe ffa scenne nu diste d’acqua sfadiàte
tanne nan so’ ji a pparlà ma ’sti parole ca sonene
u tammurre a llorallore peccè nan sime nu
le patrunessotte de la vite e spisse sta da rite:
vite a mmè nepote de Federiche ’mbèratore tenghe u nome
de chidde ca u fascerne fore malamende.
’Nzomme nan u sacce angore iòsce ce iè cudde
ca disce “ji” pedenne nan me fazze ragionamìende fattizze
chiuttoste rideche ’nguerpe e m’attocche la pizze.
Penultima
Mio padre santo cafone diceva “ho venuto” per fare
bella figura con i signori ma però quando
scapolava si scoppolava solo davanti al signore
di Cristo che comanda alberi cristiani e capre.
Poi per parlare coi fratelli americani gli spiccicava
a quelli là cazzorràit e aronò1
mo’ campa di camposanto guardiano delle parole
e delle zolle sue e ride a solo a solo ride
come rido io pensando a certe cose fatue.
Mamma faceva il formaggio e gli metteva il dito
in culo alle galline per appurare se era maturato l’uovo
che m’aveva da dare a me ogni mattina
diceva “l’albero del sorriso” senza sapere di Garcialorca
(il poeta ucciso lo zingaro del dolore che m’insegnò
ad asciugarle alla luna il sudore).
Mamma sta qui da millanni e poco lo credo
che morirà quest’anno.
Io (lo dico di nuovo) basta che bagno la puntapunta
del mignolo dentro questi rumori amorosi sdentati
che presto esce a fervere il cuore e le mani cacciano
minchioni ritorti buoni a uncinare la vita bambina
allora mi sento uguale a un indiano pelle e ossa
per sempre pellerossa che si mette a zompare
sotto il cielo per far scendere un dito d’acqua sfatigata
allora non sono io a parlare ma ’ste parole che suonano
il tamburo a loro a loro perché non siamo noi
i padronessotto2 della vita e spesso sta da ridere:
vedi me nipote di Federico imperatore tengo il nome
di quelli che lo fecero fuori malamente3.
Insomma non lo so ancora oggi chi è quello
che dice “io” pertanto non mi faccio ragionamenti spessi
piuttosto rido in corpo e mi tocco la pizza.
1 That’s all right e I don’t now.
2 Patroni assoluti, come nel gioco di carte chiamato “padrone e sotto”.
3 Angiuli deriva da Angiò, la casata che sconfisse Federico II di Svevia.
Madonnamia ma quante vite stanno dentro una vita
tu guarda questa zoca di arianna che non si slaccia mai
mi lega la lingua e me la tira verso il portone chiuso
della stalla dove il mulo pigliò la paglia della puglia
dove tutte le mattine rispuntava un uovo compaesano
dove le caprette facevano le capriole a suon di latte
dove i padri riempivano di sudore antico le sacchette
dove il canale del vino sfociava dentro una damigiana
allora io zompavo con un piede sopra il marciapiede
me ne andavo al sonno con un bell’angioletto in gola
mi accordavo con una befana da quattro fichisecchi
lacrimavo per una cavallina che ancora non ritorna
poi vennero dolori di spada che mi fecero nuovo nuovo
per un sogno mignon e per un album di ore alla buona
non imparai a medicare il cuore dopo le terze cadute
però zappai mille parole per dare la parola alla zappa
madonnamia ma quante vite ci stanno dentro una vita
eppure ancora oggi me le vivo come le fece mamma.
pubblicato 2015-07-21