Per Arcolaio nella collana diretta da Fabio Michieli: Il Fuoricollana è di recente uscito l’ultimo libro di Anna Maria Curci, "Nuove nomenclature e altre poesie" dal quale riprendiamo:
Ha esaurito la pietas…
E non ha voglia, oggi,
di chiosare l’Oggi
(Nomenclatura lirica, nonché sliricata della Nuova Storia che non torna…)
Per Anna Maria Curci,
che, per fortuna, diffida sempre dei superlativi
Ci sono interi squarci lirici, scenari apocalittici e marasmi epocali di un aspro testo di Birgitta Trotzig – poetessa svedese acerrima eppure incantevole (Göteborg, 1929; ma ha vissuto e soggiornato a lungo in Spagna, Italia, e soprattutto Francia) – che sempre mi tornano in mente quando pavento o navigo, degusto e condivido una poesia severa e pura, irriverente perché libera, e insomma etica per fervore e dolore. Penso alle prose liriche lucide e visionarie di La nuova città (da Contesto materiali, 1996), penso alle sue panoramiche sull’atroce insipienza che ci ospita e talvolta perfino rischia di annetterci, abitarci, colonizzarci tutto e tutti: sguardo, interessi, progetti, gusto, desideri, fantasia, e lentamente inesorabile, arrembarci anche il cuore:
La nuova città. Fuori della scura grigia città-prigione si levano grattacieli potentemente splendenti di luce, a breve distanza si vede che sono vuoti come favi. Nelle nuove trasparenti prigioni di celle crescono le anime pesanti. Crescono sempre di più. Abitano in basse stanze rigide, tetti minacciano d’essere sfondati dalle loro nuche, sono composte proprio di soli movimenti, lenti movimenti di gravitazione, forti movimenti fibrillatori, una tempesta sotterranea da nascita a morte.
La nuova città. Ha un volto morente di luce. La distruzione ha luogo attraverso la luce. La luce demolisce. Restano le impronte.
(Birgitta Trotzig, Nel fiume di luce, a c. di Daniela Marcheschi, Mondadori, Milano, 2008)
Anna Maria Curci (germanista, studiosa e poetessa tra le più talentose, risolte e risolute della propria generazione), ha la forza e la tempra di queste scritture che combattono e non intrattengono, si spendono ma non oziano idee; insomma caparbiamente s’immolano a consacrare e duellare per una consapevolezza che non arretri o ceda di fronte ad alcun sopruso, nessuna ignobile sopraffazione: anzitutto linguistica, percettiva, culturale (si legga NASDAQ).
Nuove nomenclature è quindi libro di battaglia, codice d’onore in nome della sorveglianza, del controllomentale, della religione disattesa e tradita del proprio tempo. Perfino e soprattutto controllo del lessico – piena verve espressiva, ma anche inesorabile, impietoso test psico-critico in relazione alle prerogative del proprio e dell’altrui stile. Poesia affranta e abilissima, periziata e in boccio, etico-filologica, per come a perfezione riesce sempre a irridere o risalire il linguaggio, le parole come salmoni in amore, sfracellate fra le rocce obbrobriose del presente che ci viaggia a ritroso, e s’infutura (rubiamo un verso al grande exemplum dell’Anguilla e alla Musa d’Epokè del miglior Montale) verso paradisi di fecondazione(Flessibilità).
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La lingua dev’essere riflesso-anticipo (e ironia) della unificazione neo-capitalistica – catechizzava il buon Fortini, integro e talvolta perfino integralista, in un saggio, Poetica in nuce, del 1962. Ridurre gli elementi espressivi:
[…] Contro la mimesi veristica. Per l’astrazione e la omogeneizzazione. Contro l’ampiezza del registro. Per la divisione dell’interno della gamma.
Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici.
Ridurre l’escursione storica.
La lingua dev’essere riflesso-anticipo (e ironia) della unificazione neocapitalistica.
Ridurre gli elementi espressivi.
Le allusioni siano al linguaggio delle decisioni (burocrazia, economia, sociologia, politica) non a quello delle funzioni (tecnica, pubblicità, giornalismo). Ironia sulle cause non sulle loro conseguenze.
E ancora, l’autore di Verifica dei poteri (1965), e qui di L’ospite ingrato (1966), sentenzia formule come scudisciate morali: « […] quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema.»
Beh, Anna Maria Curci costruisce – e lasciatecelo dire: fio-risce, intuisce, ardisce/ordisce – un libro poetico finalmente non arreso all’orribile e suadente poetichese imperante, effuso o cadenzato che sia, mercificato e acclarato fra goffi sedimenti post-ermetici e scontate pulsioni orfiche, neofemminismo à gogo, irrisorie amenità neosimboliste e liofilizzate fragranze dissetanti decantate come nescafè stantìo… Dunque: prima la Curci denuncia, reclama, addita, spiega; e in secondo luogo, d’entusiasmo, prorompe, c’intriga, intona e assuona, dissuona (Ideomaticamente).
La poesia è altra cosa: Anna Maria lo sa – ci sa fare – e provvede. Meritatamente e giustamente, con piglio allenato e fervido, gesto di antidoto, umore (e ardore) plurivaccinati (Undici settembre).
Così, lentamente – di sorriso in commento, verso dopo verso (Shakespeare intonerebbe dentro e oltrel’inverno del nostro scontento) – il testo risale la poesia, perora poesia, implora la poesia, la registra, la testa, l’analizza, la insegue, la motiva e finalmente anche la incarna, l’infibra tra anima e carattere, bagattelle e destino (Vuoto di valori).
E non è del tutto casuale che l’inconscio lessicale (omissis: la coscienza epocale…), abbia condotto Anna Maria Curci alle blatte, cioè ad uno dei “tòpoi” più sintomatici e calzanti dell’opera di Tommaso Landolfi (Il mar delle blatte, 1939), narratore inquieto e alchemico, tenebroso e sprezzante, elegante fustigatore d’ogni vièta o balzana illusione di una letteratura consolatoria o lenitiva: Cancroregina, Rien va, Racconti impossibili, Il tradimento, Del meno… Mistero, paura, paradosso… Le blatte che kafkianamente inseguiva Landolfi, sono qui per la Curci discrasìe e refusi, dissonanze e baratri, non meno linguistici che mentali, comportamentali…
Pensieri, parole, opere e omissioni che oggigiorno peccano insomma non solo verso l’etica, ma anche il buon gusto, ogni mito o gesto deluso d’armonia («Scende la brina dell’inadeguatezza. / Incurante, se la ride la guazza.»)
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Testo rigoroso ed esemplare, dicevamo. Testo magnifico – insolente e tenero, impietoso ma come un medico senza frontiere, che cura insieme il corpo e l’anima, l’attimo e l’eterno, l’individuo e la Storia, il maiuscolo e il minuscolo, il virtuale ipotetico e l’incallita rimembranza da cui veniamo. Nessun atto lirico… confermativo… del sistema… Dribblando via via e in discesa le categorie come uno slalomista provetto. Qualcosa di simile faceva già il Pasolini da Poesia in forma di rosa (1964) sino ai suoi ultimi testi – lui filologo inguaribile, teorico immarcescibile, prima e oltre che esteta ispirato, invecchiato giovin poeta, Peter Pan di tutti i diversi, diver-samente abile. Capace di stendere, versificare in prosodìa sociologica un suo Progetto di opere future (nov.-dic. 1963) come ammonimento lieto e severo di tutte le nostre ansie e teatralizzate, inscenate abiezioni semantiche e/o esistenziali, ancestrali, o per meglio dire: antropologico-culturali:
Anche oggi, nella malinconica fisicità
in cui la nazione è occupata a formare un Governo,
e il Centro-Sinistra ai fragili linguisti fa
sanguinare gli organi normativi – l’inverno
imbeve di oscura luce le cose lontane
e accende appena, mauve e verde, le vicine, in un esterno
perduto nel fondo delle età italiane…
con le terre azzurre di Piero sgorganti da indicibili
azzurrini di Linguadoca… se non da siciliane
azzurrità di Origini…
Ma torniamo al linguaggio e alla nomenclatura: questo lati-nissimo “elenco di nomi”; eppure voce, si sa, che pronunciata invece nell’accezione russa – la nomenklatura dell’ex URSS – evoca e stigmatizza invece le liste segrete delle cariche e dei posti: insomma, ogni sottaciuta, pervicace scostumatezza possibile, tara d’ideologia e tabe del Potere.
Anna Maria Curci procede, conduce il suo romanzo poematico veramente secondo il linguaggio delledecisioni e non secondo quello delle funzioni. Benissimo. Ma l’ironia – amarissima – le sfugge comunque, oltrepassando (per fortuna?) l’ipotesi di Fortini, sia sulle conseguenze che sulle cause.
Evviva, la diagnosi è forse più completa – e anche la cura, la prognosi, i “bugiardini” mimati dei rimedi chimico-farmaceutici, dei medicamenta lirici, allopatici od omeopatici che dir si voglia. Ironici e grotteschi – ma sempre e comunque fervidi, suadenti innamorati, per fortuna, più dei remedia che dei mali e malanni:
Giorni fradici, questi,
ma di sguardi sfuggenti
e riluttanze in lotta
con ragione e senso.
* * *
Mancava, credo, nella nostra letteratura in versi delle ultime stagioni (dopo tante e tali perdite, partenze, discrepanze d’ogni sorta), una voce capace di additare prima e più che raddolcire, di sgridare invece che incoraggiare, di lamentarsi meglio che di tranquillizzare; voce briosa eppure affilata, voce giudiziosa ma mai succube, sottaciuta o smentita:
Evita il controcanto
la nuova tonalità.
È forse solo un cambio
da maggiore a minore.
Voce che sente le voci – le rubrica, le studia, smonta, ripristina. Non è Giovanna d’Arco, ma una imperterrita e ardi-mentosa pulzella da Logosfera, briosa e danzante epistemologa, profetessa d’Apocalisse, poliziotta o vigilessa (riprendiamo la celebre partizione/metafora di Umberto Eco) non contro i reati degli Apocalittici, ma soprattutto contro le inadempienze degli Integrati. E soprattutto, l’ermeneutica del Nulla:
Non ho voglia di puntellare, oggi.
Ho esaurito la pietas
per fragilità immemori.
Non ho voglia di chiosare, oggi.
La morale, se morale c’è, è più scomoda e amarevole dei consueti, adusati, piccolo-borghesi sensi di colpa:
Nottetempo il principio di realtà
ha preso a schiaffi il vecchio desiderio.
Il malmenato, a schiena contrapposta,
ha bofonchiato: non sporgo rinuncia.
Denunciare la sclerotizzazione della poesia, beh, vale dieci, cento, mille rinunce. E il desiderio, i desideri, poi! –: intere biblioteche a malapena saprebbero comprenderne i volumi in tema. Ma così pochi scrittori assommano in sé tutti i Personaggi e gli Interpreti, tutto il cast desiderante (e desiderabile), di una degna, casanoviana, Histoire de ma vie:
Protesta chi sa che altro è ricchezza:
diversità, non laida spartizione.
E allora torniamocene a casa, oppure bighelloniamo ancora (che bello!), snocciolando Distici del disincanto come era-smiani Adagia post-postmoderni; trovando proprio le risposte che non si cercano; omaggiando il Rinascimento negletto, oscurato, trucidato e vessato di Isabella di Morra; ma anche dedicando il proprio culto e ricordo gnomico alla dirompente e al contempo immota, ineludibile Luce coatta di Paul Celan:
Prende corpo la vera solitudine
irretita da inganno di bocciolo.
Amnesia dei protervi? Improntitudine
anche soltanto pensarne la tregua.
Tutto andrà bene, andrà meglio. E troveremo infine – ci suggerisce, ci dona Anna Maria Curci – degli splendidi Canti dal silenzio per intonare, provare, rigermogliare la Voce:
Percepisce talvolta un suono altro.
Distante alza le spalle oppure segue.
C’è tempo perfino per parodiare acerrimi le virtù esose, estuose e sensuose dell’allitterazione; un immenso Leviatano o tirannosauro onomatopeico, potrebbe pure divorarsi tutta e intera la nostra epoca indigesta:
La mistica in mimetica imita
Dove per epoca s’intende, s’impone e convoca, è ovvio, l’Epokè:
Dalla giungla alla cripta la maschera
Quanto alla Terra Desolata che ancora ci circonda – sono quasi cent’anni che vi siamo abituati –, circa poi l’economia globale, gli sfavillii di cifre e i lampi iniettati di liquidità, forse il sociologo Bauman e le sue teorie circa la cosiddetta, odierna società “liquida”, dovrebbe andarsi a riprendere certi amatissimi versi degli Ossi di Montale, lì dove invocava le trombe d’oro della solarità. Anna Maria non gli è da meno, se mima a memento l’imago ultra-impressionista del Van Gogh più disperato/ispirato (e a noi più caro, usuale), a eterno e imploso paesaggio, vivido incombente scenario del nostro Esserci:
Investe i giorni
tra grida di cornacchie
chi ha smesso di scrutare.
Che colore palpitante di sole, quale ondeggiante, mareggiato oro di grano! – contro il nero gnostico, le cifre escatologiche di quei tanti, troppi corvi e cornacchie:
Non ho voglia di ballare, oggi,
la quadriglia dei cannibali
all’idiota.
Punto i piedi, faccio la verticale,
salgo sullo sgabello
e canto.
Plinio Perilli