L’ufficio del personale di Francesco Lorusso

Nota di lettura e scelta di poesie di Anna Maria Curci

Non sfugge, nel titolo della raccolta di Francesco Lorusso, la duplice accezione del termine “ufficio”: luogo di lavoro da un lato e pratica quotidiana spirituale. L’associazione con il Libro di devozioni domestiche di Brecht trova qui, dunque, una sua ragion d’essere. Anche il complemento di specificazione che segue, “del personale”, non disambigua, ma rafforza l’accoglimento del doppio significato del termine, suggerendo l’andare di pari passo della dignità della persona nel lavoro, dignità sistematicamente degradata, e della considerazione, appunto, individuale, “personale” sullo stato del degrado (lo stato, sì: e lo Stato? “Apparente”, come suggerisce il testo conclusivo, che si apre con una citazione da Habemus Capa di Caparezza?).
Dell’esercizio quotidiano testimonia tutto il volume: l’esercizio di uno sguardo che coglie privazioni e deprivazioni, l’esercizio di un udito che non può fare a meno di avvertire dissonanze e gracidii. Nel dettato poetico, controllato e pieno, meditato e musicale, i richiami letterari, così come quelli evangelici e ‘devozionali’, e la forza visionaria, ponte tra i tempi, delle immagini da “terra desolata” sono amalgamati, con una formula che unisce sapienza di letture a originalità dell’espressione, in inventari, talvolta intervallati da una voce verbale, prevalentemente al tempo presente. La struttura dei testi, articolati spesso in terzine o in quartine, suggerisce con il suo rigore che “l’ufficio” è esercizio nel quale la ragione, il discernimento critico non possono, non devono mai venire meno, a dispetto di chi ne vorrebbe, e ne pratica con intenzionale dissennatezza, la smobilitazione. La lotta c’è – qui perfino l’azzurro è «senza odore» -, non la si tace; al contrario, se ne manifestano i contendenti, i rivali esterni e interni: l’affanno, il sonno, la tentazione della resa, lo schiacciamento, il bitume che tutto copre, il martello pneumatico, l’asfissia, il grasso permanente, l’istituzionalizzarsi della precarietà. Allora il ricorso all’allitterazione, il gioco sulla polivalenza dei termini, non è mai sfoggio, ma strumento espressivo brandito con cosciente determinazione.

Francesco Lorusso, L’ufficio del personale, La Vita Felice, 2014

©Anna Maria Curci

Nelle affannose corse del mattino

Nelle affannose corse del mattino
l’ultimo Stato sta smarrendo nel pallore
il bronzo conquistato sulle prospettive
dei corrimano eleganti della rivoluzione.

Oramai non arrivano più le farfalle
per noi solo occhi chiusi verso il sole
sulla strada dove la segnaletica lontana
ha posto le ali dei suoi consensi vietati.
(p. 9)

Il sonno frena bruscamente

Il sonno frena bruscamente
nell’odore sbadigliante del chiuso
risvegliando la quiete sulla Zona,

lo sciacquio gommoso di un dosso
determinato a fare scudo sul sociale
che per tutti funziona inarrestabile.

L’immagine si è sciolta negli occhi
riprende smemorata i suoi margini,
solo le poche cose ora resistono.
(p. 10)

Come gli addobbi feriti

Come gli addobbi feriti
si oltrepassa la serata insieme
per tremare nascosti nella luce
ci rimane un ridere rasoterra
uno stare nella pioggia continua
distribuendo male le stagioni dell’oggi.

La divisa sempre appena stirata sulla sedia
da una madre sveglia ancora come prima
che pone tra il caffellatte l’ultimo zucchero.
(p. 30)

Ti sollevi i nervi posandoti

Ti sollevi i nervi posandoti
con le ore fuori dal giorno
e nel sonno sai che sei nuovo
sul filo dell’azzurro senza odore
nella polvere sbalordita dalla cattura
del grasso personale consumato male
con il tuo posto messo fra quello di tutti
a possedere il ritmo del dondolio senza speranza.
(p. 32)

Stilla dalla polla

Stilla dalla polla
e poi si stipa
tra i posti sconosciuti
la spina dei conti asciutti
fatta degli estratti di sudore.

Scorrendo una eleganza
in situazione plebea,
cronache recenti ed eguali
dentro agli stipiti colmi
gli avvenimenti di luci.
(p. 38)

Si trova persino nel pane

Si trova persino nel pane
la mano che non lavora
l’obbligo di dipingersi
alla precarietà del ritrovo.

Si raffredda la debolezza
nello scambio del coraggio
dove l’offerta si ammassa
e ne finge il protagonismo
che ride nella medesima luce
con le sue spalle malferme.
(p. 48)

Ci distrae il buon mercato

Ci distrae il buon mercato
con la veloce sua etica subìta
dove ognuno ne colma senza approdo
preso pienamente nella pura corrente calma.

La bontà che ti impoverisce
per sé usa una presenza inutile
l’ombra di un profilo che non muta
appoggiata bene alla coerenza acuta e bieca.
(p. 51)

Ha un valore sconnesso il nuovo asfalto pedonale

Ha un valore sconnesso il nuovo asfalto pedonale,
troppe mani decise ci son passate sopra,
assicurandosi l’inutile coperta, senza tragitto.

Le ferite sulla terra si rimarginano con l’erba,
il lutto di una gramigna che non lascia parole
e un’acqua medicinale di pioggia che ci trattiene.
(p. 58)

Ora che manchi anche la lingua è una strategia

Ora che manchi anche la lingua è una strategia
che ingloba la superficie tra le nuove trame
per quadrare contatti sul filo sempre vitreo

e non resta che seguire solo parole fuori vibrazione
che ci raccontano di un’ombra che sfiora i sorrisi
in questi incoscienti lunghi campi a foglie spoglie
seguiti da uno stadio di gioco sempre più ossessivo,

e mentre il fruscio saporito del giorno ti contorna
dal buio complice setacciano le loro brame lontane
e ci accorgiamo improvvisati in uno stato apparente
che nelle volute della sera a noi ghiacciano la pelle.
(p. 69)

Francesco Lorusso (Bari, 1968), dopo aver ottenuto diverse menzioni e premiato nel 2003 con una sua lirica al concorso «Città di Bari», pubblica nel 2005 una corposa silloge sulla rivista «incroci» di Bari, dal titolo Nelle nove lune e altre poesie. Esce in volume nel 2007 per la Cierregrafica di Verona, nella collana Opera Prima, prefato da Flavio Ermini, con la raccolta Decodifiche. (dalla quarta di copertina)