L’incanto romanesco di Rosangela Zoppi

Lettura e scelta poesie di Maurizio Rossi

 

 

Mi piace iniziare la lettura dell’ultima opera in versi di Rosangela Zoppi con una poesia che è confessione esistenziale e insieme poetica “Quante bòne parole / ch’avrei potuto dì e nun ho detto / pe millanta raggione. / Parole che nun valeno più un zero, / che ciavevo a piggione drent’ar petto / e sò arimaste tante pietre ar sole / bòne solo a scottàmmece er penziero.” Non solo occasioni perse – perdute ormai – ma pietre, pesi che bruciano oggi, il pensiero e l’ispirazione. Il pensiero sembra farsi cenere, ma l’animo di Rosangela Zoppi vola e vola in alto, tenendo per mano le parole di un dialetto che lei conosce e studia e rispetta come un bene umano prezioso. Da bruco a farfalla è “l’urtima muta, / quella che vale, quella co li fiocchi” che concluderà e racchiuderà tutti i cambiamenti, gli adattamenti a questa vita e magari anche i tentativi fatti e talvolta riusciti di camminare le strade con leggerezza. C’è in questa poesia vero rimpianto? Non direi; mi sembra piuttosto la consapevolezza dei limiti dati alla propria vita perché fosse sicura, ritrovandosi poi insoddisfatta a invidiare il gaimone – gabbiano di fiume – che “appozza alegro er becco a tutte l’ore” nel “lerciume” dell’ “acquaccia” che lei stessa “schifa pe paura / e pe campà sicura, campo male”.

Il ritmo e la musica dei versi conservano una misura sorprendente, tutt’altra cosa rispetto ad altra poesia romanesca che fa un cattivo servizio al dialetto romano: non basta l’accademia, che pure ha le sue ragioni: occorre il coraggio di saper innovare – dice Rosangela, e io aggiungo – pagaiando tra i muraglioni in cui scorre lento, da secoli, Fiume.

La stessa malinconia di un passato, in cui “appozzano” a piene mani tanti componimenti romaneschi, assume nell’autrice contorni autoironici o si riveste di un’eleganza che dà leggerezza ai temi “Che bella sorte, robba da nun crede,/ è de stà qui co te/ come l’urtima foja che nun vede/ antro che rame ignude attorno a sé…” così come “Scorciata da parecchio, ogni giornata/ cià oramai la durata/ d’un fiato su lo specchio”.

Nella silloge, costruita con cura, il gioco delle rime non è solo scelta di un’eleganza formale, ma avvolge il pensiero in una spirale che lo porta in alto, come la cupola di Sant’Ivo alla Sapienza fascia e lancia il nostro sguardo al cielo. È poesia, questa di Rosangela, che non ha “prescia”, anzi invita a fermarsi per cogliere che “la vita arisorge” che nasce un fiore là dove è morto un alberello; che non ha timore di stare a lungo da sola in una stanza dove, pure sfrondando ogni giorno un rametto secco di vita, si accorge “pe noia o forse pe divario / de volé ancora un po’ de bene ar monno.” Allora perché non dirlo questo amore per il mondo? Ecco gli uccelli, le piante, i barboni, i carcerati, gli artritici piegati come un fazzoletto, che non cessano di sognare, di volare o rifiorire: tutti raccolti in uno sguardo attento e rispettoso, che “smiccia” l’orizzonte.

La Zoppi, pur “bazzicanno er santuario der pianto” cioè frequentando il dolore quotidiano, non cessa di sognare “una risata, /una bella de quelle / che sbotteno sortanto tra sorelle”: ecco il sogno, senza il quale non ci sarebbe forse poesia; il desiderio, che anima le giornate, la voglia di vita che fa guardare dritto negli occhi il male di vivere; che nel movimento delle fronde sa scorgere quello delle mani d’un pianista sulla tastiera; che fa dire “basta co sta paura / d’una paggina bianca / ch’aspetta la scrittura”. Ecco, basta un filo d’aria – un verso – a volte, per increspare l’acqua di un pantano e spalancare il presente.


In pizzo a la forchetta

Quanno me sarta l’estro

de smiccià l’orizzonte, quer che vedo

nun posso certamente ariccontallo

a te, che sei vissuto senza un credo

e sei maestro a disegnà confini.

Tu me diresti: Abbada

a quello che ciài in pizzo a la forchetta.

Perché guardà lontano? Dàmme retta,

mejo guardà la strada ndo’ cammini,

perché potresti mette un piede in fallo.

Poi però me daresti un bacio in fronte

e me faresti pure la carezza

ch’un nonno je fa sempre ar nipotino,

forse pe consolamme d’un destino

che ce lo sai che nun sarà a l’artezza

de quer che tu vedevi a l’orizzonte.


A la mano manca mia

Perché resisti ancora, mano manca?

Lo sai che quella dritta

la superi in bravura.

Nun esse affritta perché un tempo a scòla

t’aveveno legata su la schina:

ormai è tanto

che te sei libberata,

che nun stai più in gabbiola. Èsse mancina

nun è vergogna, è un vanto.

Basta co sta paura

d’una paggina bianca

ch’aspetta la scrittura.


Alegra pipinara

Debbotto, pe chissà quale sentiero,

una filara d’ombre dar passato

sale su pe la scala der penziero

e spalanca la porta der presente.

Alegra pipinara d’una vorta,

ch’er còre mezzo intontonito svaria

e la memoria sveja piano piano,

siccome un filo d’aria

aggriccia l’acqua morta d’un pantano.


Rosangela Zoppi, L’urtima muta, Ed. Cofine, Roma, 2024 (II classificata al premio Ischitella-Pietro Giannone, 2024)