La Mal’Anconìa di Fabio M. Serpilli

Recensione di Vincenzo Luciani

 

Dietro ogni poeta c’è una storia e anche una geografia che merita di essere conosciuta, e così è per Fabio Maria Serpilli. «Sono nato ad Ancona nel 1949, da babbo osimano e mamma anconetana. Quinto di dieci figli. Dal 1966 ho abitato prima a Castelferretti poi a Treia, Roma, Recanati, Falconara M.ma (15 anni). Dal 1994 risiedo in Agugliano (An)». È poeta, scrittore, critico letterario e presidente di giuria in premi di poesia e organizzatore del premio nazionale di poesia “La poesia onesta”.

«A Vincenzo queste mie pagine, frutto di 40 anni di ricerche sul dialetto e sui simboli della Città, un canzoniere per Ancona: “la cità bela”». Queste parole della dedica di Fabio sulla mia copia del suo libro rivelano le qualità di fondo della sua raccolta: essere il frutto maturo di una ricerca sul dialetto e sui luoghi e simboli della sua città, durata quattro decenni, e un canzoniere attraverso la sua Ancona malinconica e generatrice del mal d’Ancona. Quello contratto da “la lengua de casa” appresa da sua madre Ghita, passata nelle conversazioni più intime e quotidiane con sua moglie Raffaella, “che me l’ha intésa”, e sua figlia Elisabetta, nella fiduciosa speranza “che me la futura” (bellissimo verbo di suo conio, suppongo, che Serpilli traduce “che la continuerà”). A proposito della lingua natia e materna commuove nel profondo questa breve, ispirata poesia (a p. 204): “Cu ’sta lengua che so’ nato / suchiata da mi madre / te ridò quele parole / che da fiolo m’ha svezato. // E viene a fior de labri / cume ’na bocatina / el late cha m’hai dato”.

Oltre allo studio sul dialetto anconetano Serpilli ha dedicato molti anni ai dialetti delle Marche e delle altre regioni italiane in virtù dei premi letterari da lui promossi e diretti. Uno studio condotto con acribia professionale, accompagnato all’insegnamento di poesia creativa che ha affinato la sua “ars poetica”.

L’ARS POETICA

Valerio Volpini l’ha definito “L’erede di Franco Scataglini”. Ma, a prescindere da questa affermazione, è notevole la sua ricerca della parola che suona e trasfigura, di una levità elegante. Serpilli in numerosi testi della raccolta torna con frequenza e con molteplici sfumature sul tema del suo fare poesia.

Ad esempio in “Inzonia” (p. 24): in cui manifesta lo studio incessante: “Sonàmbulo dai libri / che me porta indietro ai sèculi / – ’n altro dì, ’n altro fà – / e quando lèo j ochi da le parole / int’i vetri è giorno”. In “Ladro di parole” (p. 66) ci rivela da dove nascono le poesie: rubate dalla vita, dalla città dal mare, dall’ascolto avido delle “parole dete a gratise da la gente” e dal linguaggio arcano delle case “che discure in dialeto”. La sua scrittura in dialetto si fa poesia “da per lìa / va da sola” perché riconosce la strada come quella cavalla che conduceva quell’ubriaco a casa. Così nella divertente “La cavala” (p. 158). Il tormento del comporre versi è in “Dì e nun dì (p. 38): “Chisà si ho fatto bè / a nun li scancelà? // Si è fatiga a dì / nun dì de più. / Quando / impàro el zilenzio?. Infine cosa vuoi pretendere dai poeti, condannati ad essere “poveretti in eterno” (“Poeti”, p. 164).

IL MAL D’ANCONA

Ancona e il rapporto con la sua città natale è il tema dominante, con la sua (p. 36) “Angonia – Agonìa d’Ancona”: Sota ’n celo tramonto, incipit della poesia dedicata alla città che: Sopr’al sacro Còtano / incendia bianco el Dòmo / el Porto giù a baso / abisa pog’a pogo/ Cità de l’angonia / quanto meno t’aspeti / alza tut’i canpanili / viè’ su cun tut’i teti. Ma è in “Anconìa” (p. 62) che si manifesta il suo fascino in una poesia carnale e leggera: Vienìvi su da l’onbra / cu’ ‘na trecia su le spale / e le mà d’aria / Caminavi su ’na làgrima de mare / l’anima méza / Purtavi el mondo su dó tachi a spilo / in acrobazia / un trono i fianchi / giù pe le ripe / schina strapionbo / e i pìa // Bala la Cità bèla / tanta maistosa fémina / sui fianchi e le cavije / cume che sente mùsiga.

Il capoluogo con le sue “Statue” (p. 80) di papa Clemente XII e di Cavour e l’eco viva del passato che attraverso i suoi “sbatoculamenti / luntani  sèculi / ’ncora li senti. Una città martire e (p. 130) “Due date” impresse nella memoria del poeta: Il “Giorno de Tuti Santi / tuti morti” del 1943; una mitragliata su una foto nel 1944 e i lividi della guerra, e le tante guerre, ricostruzioni e nuove distruzioni che hanno coinvolto questa “Cità a pèzi” (p. 166); oppressa da “mille croci” ora non trova “neanche la forza di raccogliere i cocci”.

Ancona è fonte perenne di ispirazione del poeta, ora pendolare dalla sua residenza in Agugliano, e che quando è in un luogo, l’altro sospira, come altri poeti che hanno lasciata la città di origine. La breve distanza tra lo studio e il riposo in un paese e poi l’immersione nella città favorisce un distacco che rende più acute le sensazioni e le memorie. Innanzitutto dei personaggi mitici, soprattutto, quelli della povera gente, da “El zanto fuorilége” (p. 160) che rimane impresso nei nostri cuori mentre si chiede incredulo: «Perché cuscì cativa la gente?» ed il poeta pone il suggello: “La morte / è stata l’ultima sbòrgna / che del vive j ha fato / scurdà la vergogna”. Non si può dimenticare Marco (p. 190) le cui parolacce “divèntene parole // cume ’l pueta in giògo..”. Ci resta impressa l’immagine conclusiva di questo personaggio il cui cuore “si struggeva per Dulcinèa / scambiava con i fantasmi / mezze verità. / Gli andava in corto circuito il pensiero / vedrai che un giorno o l’altro / uscirà vivo dal cimitero”. Straordinario è pure Tito (p. 194), a spasso con la sua badante ucraina, che proclama: «’Speto el bechì – fa Tito – / la morte nun è un duvere / ma un dirito!». E il poeta postilla: “Cume l’udore del cafè / cume il turò / cume te”. In questa galleria di personaggi un posto di rilievo va anche a Livio (p. 196); per fortuna c’è ancora lui che va a piedi “raso raso la rotaia / Falcunara Ancona”, uno “Charlot vagabondo” che “come in una favola cammina / cammina dietro la luna / che se lui si ferma / cadono le stelle a una a una”. Ma in “Al cantiere” (p. 178) Serpilli è poeta di alta ispirazione civile, schierato dalla parte dei “pòri diàuli” di cui si fa voce di protesta contro lo sfruttamento delle varie epoche fino a quello della cosiddetta new economy dei nuovi padroni “’nte le fabrighe sperlonghe / senza finestre e vetri, tante tonbe / del fadigà… // Vivémo no ché vive nun è respirà”.

LA FILOSOFIA

Serpilli ci fa sapere che ha “compiuto gli studi di filosofia e teologia alla Pontificia Università Lateranense a Roma”. Non ci stupiamo quindi di incontrare in diverse poesie il suo interrogarsi sui temi fondamentali dell’esistenza umana.

Mi soffermerò citando per intero la poesia “Ilusió” (p. 68): «El zole su le rame / le scapécia el vento / e sbifa ’na parola / che adè c’è tuto / po’ al gnente / fenimo tuti / malamente. // Ma io canto listéso / framezzo a riso e pianto / perché la rima armane / per ilusió de canto». E qui il pensiero va al corregionale grande Giacomo di “La ginestra” di fronte al disastro globale e alla fine delle illusioni: «Di questo mal, che teco / mi fia comune, assai finor mi rido».

Fabio Maria Serpilli, Mal’Anconìa/Mal d’Ancona, Prefazione di Manuel Cohen, Posfazione di Fabio Ciceroni, puntacapo, 2021

 

Fabio Maria Serpilli (dialetto anconetano), nato ad Ancona nel 1949, studia Filosofia a Roma. Nel 1987 esce la raccolta di poesie in dialetto, Castelfretto nostro con prefazione di Valerio Volpini. Dal 1996 cura l’antologia La Poesia Onesta; dal 2005 cura le antologie di poeti dialettali marchigiani del Festival del Dialetto di Varano (AN), giunto alla 42ª edizione. Nel 2005 pubblica, con Fabio Ciceroni e Giuseppe Polimeni, il volume Poeti e Scrittori dialettali (Ed. QuattroVenti, Urbino); nel 2010 il Dizionario dialettale aguglianese. Nel 2018 è autore con Jacopo Curi dell’Antologia Poeti neodialettali marchigiani (Collana I Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche), ora esaurita. L’Antologia ha vinto il 38° Premio nazionale Frontino Montefeltro nel 2019. Premio in precedenza assegnato a Tonino Guerra, Sergio Zavoli.