«La futugrafì dla veritê». Intorno ai Sonetti romagnoli di Olindo Guerrini

Recensione di Claudio Pasi

 

A buon diritto il talentuoso e versatile Olindo Guerrini (1845-1916) può essere considerato come l’antesignano più credibile, l’autorevole e robusto «ceppo vecchio», dei poeti dialettali romagnoli, santarcangiolesi e non. Molteplici e assai diversificate furono notoriamente le sue prove letterarie, firmate con il proprio nome o con i numerosi noms de plume: Lorenzo Stecchetti sopra tutti, la «musa prediletta / dello scolaro e della feminetta», come scrisse Gozzano, ben più celebre dell’ortonimo stesso, poi la macchietta femminile di Argìa Sbolenfi – che è anagramma oscenissimo –, Marco Balossardi, Mercutio ed altri ancora. Eppure, tra tutti questi travestimenti, maschere, pseudonimi, come ebbe a dire Pasolini molti decenni fa, «il lettore non faticherà a credere che il meglio della sua produzione è appunto in romagnolo».

Soltanto una minima parte dei sonetti venne pubblicata in vita, su giornali e riviste satiriche a diffusione piuttosto ridotta, a suo nome o con quello di un autore fittizio, spesso proprio Stecchetti. La prima edizione, con i pochi testi editi e i molti inediti, uscì postuma nel 1920 presso Zanichelli, a cura del figlio Guido. Durante il ventennio fascista il volume non venne più ristampato, sia per la sua connotazione decisamente anticlericale, sia soprattutto per l’avversione del regime all’uso del dialetto e alle letterature dialettali. La recente edizione dei Sonetti romagnoli, curata da Renzo Cremante con la traduzione di Giuseppe Bellosi (Ravenna, Longo, 2021), ripristina i sonetti non accolti nella princeps perché ritenuti irriverenti o addirittura offensivi, che passano quindi da 253 a 264, ed elimina le correzioni eufemistiche colà apportate per le medesime ragioni. In appendice vengono poi riportate altre 35 poesie (non soltanto sonetti) edite ma mai più pubblicate, o ritrovate in versione autografa, frammenti, abbozzi, testi vari attribuibili all’autore, così da dare conto dell’intera opera in dialetto di Guerrini. Viene qui mantenuta la suddivisione in sei sezioni adottata nell’edizione originale (Preludi, I dscurs, E’ viazz, Interludi, Vita paisana, Pritt), nella quale i sonetti si trovano per lo più raggruppati in serie omogenee per argomento. Per ogni testo è poi offerto un commento estremamente approfondito e minuzioso, che ne illustra gli aspetti stilistici e ne chiarisce i nessi contestuali.

Nello scritto introduttivo al volume, il curatore fa osservare come l’elaborazione dei sonetti copra all’incirca un quarantennio, dunque più della metà della vita dell’autore. Un primo periodo, collocato tra il 1876 e il 1882 e coevo all’invenzione dell’alter ego Stecchetti e di Postuma (1877), è incentrato, sottolinea Cremante, sulla «scelta municipale e ‘comica’ del dialetto, del riso, dell’improperio, della satira come strumenti di creazione poetica, di raffinata sperimentazione formale, tecnica, metrica e, allo stesso tempo, di lotta politica, di denuncia sociale e di polemica fortemente radicate nella concretezza della cronaca cittadina», ovvero di Ravenna, della cui amministrazione comunale Guerrini fece, per breve tempo, parte. Dopo una lunga pausa dedicata alla versificazione in lingua e agli studi eruditi (notevole il contributo, tra i primi, su Giulio Cesare Croce), un ritorno al dialetto si verifica nel primo decennio del Novecento, in modo particolare con il ciclo odeporico E’ viazz e con la sorprendente imitazione e contraffazione di altre lingue ed idiomi, dal milanese al bolognese e soprattutto al veneto, abilmente utilizzato nelle Ciàcole de Bepi, le ironiche elucubrazioni di papa Pio X, al secolo Giuseppe Sarto, apparse sul settimanale satirico romano «Il Travaso delle Idee».

Guerrini motiva l’adozione del dialetto, e dello stile basso che lo contraddistingue, incluse le frequenti intemperanze verbali, con l’esigenza di aderire con naturale spontaneità alla realtà circostante, osservata e raffigurata anche nelle sue manifestazioni meno nobili, addirittura deteriori. Già nei sonetti proemiali egli asserisce, non senza un certo compiacimento di campanile: «A dscórr mêl, t’é rasón, mo quand us drôva / E’ linguàgg’ naturêl de’ mì paés, / A m’intend e’ dialett santalbartés, / E’ bsógna riferìl coma ch’us trôva.» («Parlo male, hai ragione, ma quando si adopera / il linguaggio naturale del mio paese, / intendo il dialetto santalbertese, / bisogna riferirlo come lo si trova», n. 3); e subito di seguito: «Donca cal brôtt parôl al n’è sfundrón, / Mo la futugrafì dla veritê.» («dunque quelle brutte parole non sono spropositi, / ma la fotografia della verità», n. 4). Si tratta tuttavia di una dichiarazione volutamente fuorviante, quasi una sorta di battuta di spirito, perché in effetti gli echi della tradizione letteraria e il fertile dialogo con i «poeti morti» percorrono costantemente l’intero dettato poetico dei Sonetti. Evidenti e sistematici, come puntualmente evidenzia Cremante, risultano i richiami a Giuseppe Gioacchino Belli e, con o senza l’intermediazione di Belli, a Carlo Porta. Basti un solo esempio, tra gli innumerevoli citati nel commento: «Te t’at sbali. E’ fo côss che par cl’afê / L’andé da quéll un dé ch’an m’arcord piò / E quéll invezi us incuntré cun lo / Parchè côss un andé par la su strê.» («Tu ti sbagli. Fu coso che per quell’affare / andò da quel tale un giorno che non mi ricordo più / e quel tale invece si incontrò con lui /perché coso non andò per la sua strada», n. 108); e Belli, Er parlà bbuffo (858): «“Coso, hai cosato er coso ch’er Zor Coso / cosò jjerzera in quela cosa tonna!”». Per converso, andando nella direzione cronologica opposta, i maggiori poeti romagnoli del Novecento, da Tonino Guerra a Nino Pedretti, e in special modo Raffaello Baldini, hanno attinto da Olindo Guerrini cospicue suggestioni linguistiche e spunti tematici, anche tra i meno appariscenti e scontati. Afferma in proposito Clelia Martignoni: «Baldini scova in Guerrini le vive risorse di una lingua amichevole, tutta parlata, da osteria, carica di voci monologanti, in registro comico ma con accenti spesso dolorosi».

Sono voci di individui appartenenti ai vari strati sociali della provincia italiana di fine Ottocento quelle qui messe in scena, soggetti reali ed insieme sovrapponibili a certi stereotipi della tradizione teatrale, tanto che lo stesso autore, fingendo forse una sorta di cautela, dichiara: «Stal pochi pruiezión ch’av mustrarò / Al n’è parsón, mo puri fantasì, / Caricatur fatti a la méi ch’us pó.» («Queste poche proiezioni che vi mostrerò / non sono persone, ma pure fantasie, / caricature fatte alla bell’e meglio», n. 18). Ecco allora il contadino sciocco, l’ubriacone, il miles gloriosus, il cornuto contento, e, accanto, l’operaio della fabbrica, il falegname socialista, il rivoluzionario a parole, il misero bracciante, l’elettore opportunista. Ognuno con la propria voce, con i propri discorsi (I dscurs appunto), spesso prununciati in forma di monologo ininterrotto, quasi ad anticipare le soluzioni stilistiche di Baldini, laddove «l’affidarsi totalmente alla voce dei personaggi assicura una non offuscata verità delle cose», come ha precisato Mengaldo riferendosi al poeta di Santarcangelo. E per movimentare il quadro complessivo e diversificare i punti di vista, Guerrini crea poi ulteriori camuffamenti, destinatari ed interlocutori casuali, altre voci narranti: Pulinêra (Apollinare), che è il suo doppio popolaresco; Tugnazz, incarnazione del contadino rissoso e triviale; l’avuchêt Pulètt, cioè Paolo Poletti detto Pino, l’affezionato nipote, scherzosamente ritratto nei panni di un inconcludente Azzeccagarbugli.

Il bersaglio degli acuti strali di Guerrini è quindi la società del tempo, con tutte le incongruenze e le storture insanabili che la caratterizzano. La sua satira sulfurea, a volte rabbiosa, denuncia la corruzione politica, la prepotenza della classe dominante dei «galantòman» (galantuomini), l’oltraggioso divario tra ricchi e poveri: «Chi magna agli òss, chi magna la suzezza; / Chi ch’lavora va a pè cun al scherp rotti; / Chi n’fa un cazz va in caroza cun la plezza.» («chi mangia gli ossi, chi mangia la salsiccia; / chi lavora va a piedi con le scarpe rotte, / chi non fa un cazzo va in carrozza con la pelliccia», n. 14). Nei sonetti, che terminano di solito con una fulminante clausola epigrammatica, egli accenna alla nascente questione operaia, affibbia a Vittorio Emanuele III il nomignolo di Spiombi (per lui coniato da Luigi Bertelli, in arte Vamba), esibisce la propria ideologia antimilitarista schernendo gli alti ufficiali dell’esercito. Ma è nella sezione Vita paisana che si fa più penetrante lo sguardo dell’autore sull’attualità, sui dettagli della cronaca municipale o dell’amato borgo di Sant’Alberto: chiosa articoli di giornale, mette alla berlina l’ambiente giudiziario, si prende gioco di eminenti personalità del presente e del passato, non risparmiando neppure Dante. Emerge qui con forza un’evidente dimensione goliardica fatta di burle atroci, conviti pantagruelici, sbronze memorabili, il tutto colorito da un greve ed ostentato lessico scatologico. Non mancano comunque alcuni testi di tono più dimesso, come quello riguardante la decadenza e la misera fine del vecchio avvocato Modi (Il pentateuco del giurisprudente, dove la vicenda biografica del personaggio si innesta su un modello, ancora una volta, belliano), o il ricordo struggente della figlia morta ancora bambina.

Per quanto risulti ricorrente nell’intera opera e sia in essa distribuito in modo uniforme, viene specificamente trattato nella sezione Pritt il tema dell’anticlericalismo, proverbiale e quasi obbligatorio nell’indole romagnola, tanto da apparire talvolta convenzionale, persino di maniera. Tutta la gerarchia ecclesiastica viene inesorabilmente presa di mira: semplici parroci, esemplificati nella trista immagine di Don Vitupéri, compendio di ogni turpitudine e di ogni depravazione; suore licenziose; cardinali refrattari all’igiene personale, ma usi invece a luculliani banchetti; pontefici avidi o inetti; fino alla macabra descrizione del cadavere di papa Leone XIII. Ed ancora: preti afflitti da malattie veneree, esplicite allusioni agli appetiti sessuali delle devote beghine, condanna del mercimonio di immagini sacre e del culto «taumaturgico» delle reliquie. A più riprese, le varie associazioni cattoliche vengono indifferentemente denominate con l’ignominioso appellativo di «squaciarèla», termine dialettale che designa le feci liquide, simili per colore al giallo della bandiera pontificia.

La parte più originale dell’opera rimane comunque, a nostro parere, E’ viazz, resoconto in versi di un viaggio in bicicletta compiuto nell’estate del 1903, ormai quasi sessantenne, insieme al figlio Guido con una comitiva del Touring Club Italiano, l’associazione fondata soltanto una decina d’anni prima, di cui Guerrini fu promotore. L’itinerario viene presentato già nel primo sonetto: «Da Ravénna a ruzzlessom a Milan, / Sémpar in biziclétta, e pù in Piemónt / Féna a e’ Mont’ Rôsa, […] E, calê zo, fasséssom dietro-front / E da la Lumbardì, […] a travarséssom nénca e’ Veneziàn. / […] Arrivéssom tott du féna a Triest» («Da Ravenna ruzzolammo a Milano / sempre in bicicletta, e poi in Piemonte / fino al Monte Rosa, […] e, calati giù, facemmo dietro-front / e dalla Lombardia, […] traversammo anche il Veneziano / […] arrivammo tutt’e due fino a Trieste», n. 46); quindi, attraverso il Veneto orientale e il Ferrarese, il rientro a Ravenna, per concludersi in quella sorta di umbilicus epicureo che è l’osteria della Zabariona. Del resto un paio d’anni prima Olindo aveva dato alle stampe un «volumetto di vari scritti di argomento ciclistico», così enunciava nell’Avvertenza, intitolato In bicicletta ed attribuito a Lorenzo Stecchetti, «autore» anche dei seguenti versi: «sovra il ferreo corsier passo contento / come a novella gioventù rinato / e sano e buono e libero mi sento». Per combinazione, un altro illustre corregionale, ma di temperamento assai diverso, e cioè Alfredo Oriani, aveva compiuto qualche tempo prima un’analoga impresa ciclistica, in Toscana e in solitaria, e prodotto anche lui un volume dal titolo quasi identico, La bicicletta. Domina anche in questi sonetti un piglio scanzonato, un atteggiamento autoironico, un intenzionale ed esibito abbassamento di tono, un burlesco e talora scurrile rovesciamento dell’idillio lirico, per cui, ad esempio, l’Arena di Verona viene assimilata a «un cagadùr» (n. 83) e, dinanzi ad un ameno panorama montano, l’autore esclama: «Cun tanta nébia me an ho vést un cazz!» («Con tanta nebbia io non ho visto un cazzo!», n. 64). L’interesse turistico si muta ben presto in itinerario eno-gastronomico, tanto che di Venezia viene magnificata soprattutto la pescheria di Rialto e Ferrara è la città dove «Ui è l’Ariòst, e’ Tàss e la salàma» («Ci sono l’Ariosto, il Tasso e la salama», n. 103). E per ogni tappa del viaggio viene sciorinato tutto un menù di tagliatelle col prosciutto, zampone e lambrusco, trote in umido, capriolo con tartufo, Gattinara, Valpolicella e altre prelibatezze che sembrano uscite dal celeberrimo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, pubblicato nel 1891 da Pellegrino Artusi, altro romagnolo nonché amico di Olindo, che d’altronde si cimentò in prima persona nella saggistica culinaria.

Indubbiamente la propensione ad una satira a tutto campo, la scelta di argomenti così terragni e materiali quali il sesso, il cibo, le imprese goliardiche più mirabolanti, celebrate talora con un certo compiacimento oleografico, il costante ricorso al turpiloquio quale ipotetica espressione del sentire popolare, tutto questo può oggi indurre a ritenere la poesia di Guerrini artificiosamente regressiva e non più in sintonia con la letteratura ufficiale dei tempi suoi. Una letteratura ormai incline alle preziosità, diverse ma non poi così dissimili, di Pascoli e D’Annunzio, rispetto alle quali Guerrini appare ormai come una figura arretrata e residuale, eppure in qualche modo alternativa ed antagonista, quanto meno perché anch’egli, come Belli nell’introduzioe ai sonetti romaneschi, può con giusta ragione affermare: «Io ritrassi la verità», qualunque cosa per verità s’intenda.

 

Olindo Guerrini, Sonetti romagnoli, edizione e commento a cura di Renzo Cremante, traduzione di Giuseppe Bellosi, Ravenna, Longo Editore, 2021, pp. 884.