La colonizzazione invisibile di Sonia Ciuffetelli

Dalla nota introduttiva del libro e scelta di testi di Anna Maria Curci

 

La colonizzazione invisibile (Arcipelago itaca 2021) è un libro in versi che a tratti si lascia attraversare dal respiro sottile della narrativa, quando al susseguirsi dei brani alterna pagine di riflessioni in prosa come fossero punteggiatura testuale, parola diretta, pausa nella versificazione.

Poesia che a sua volta lambisce il narrato, erode i confini e che contamina col suo movimento una forma e l’altra, armonizzandole.

È un libro che centra il suo interesse nella relazione tra persone e web e indaga sulla reazione di chi, a cavallo tra due epoche, quel-la prima di Internet e quella dopo, ha attraversato un ponte tra due mondi arrivando alla consapevolezza che l’adattamento all’ambiente virtuale ha modificato i nostri comportamenti e soprattutto il nostro modo di Essere. Di apprendere. Di immaginare.

È un libro che indaga sulla trasformazione di una società, sull’impatto che ha Internet sulla democrazia, che tocca argomenti come l’indirizzamento dei dati forniti dagli utenti e la privacy, temi nuovi per la poesia ma pertinenti alla conoscenza delle persone e delle comunità nel loro relazionarsi con nuove forme di potere, persino con una nuova spiritualità e con nuove paure.

L’antidoto non è la censura, neppure la nostalgia.

Il libro contiene in sé l’evocazione allo spaesamento e al movimento centrifugo che talvolta ci porta lontano dagli equilibri con-clamati o raggiunti, lo fa scandagliando certe reazioni umane alle proposte dei giganti del web, leggendo tra le righe delle nostre stesse abitudini, rovistando in una umanità che ci appartiene e che viene posta al centro di ogni vicenda e di ogni supposizione perché non ci sfugga mai di mano la volontà, sul piano del possi-bile, di essere gli artefici del nostro destino.

Sonia Ciuffetelli

 

 

Io e te, una nuova amica

Un cielo ammantato di pixel e nessuna nuvola

sotto la luce arcuata della notte silente.

Immaginare il corpo sbucare dalle parole compatte

del monitore illuminato, solcato da caratteri mobili

immaginarti uscire fuori leggera, una libellula ambrata

fuggita dalla resistenza di una comunicazione monca,

atterrata dalle assenze di voci

latitanza dei colori naturali.

Succhiando il tempo era sfuggito al controllo

quel che ieri non avevamo capito oggi è passato.

Incontrarsi tra queste distanze non è casuale,

a sorprenderci ogni volta è il nostro idioma

infitto tra la mia pelle chiara e i tuoi pori africani.

Un cortocircuito ci elettrizza fino alla scarica che ci distacca.

Nei nostri occhi la panna assorbita nella bolla di pixel, la

condivisione.

Una di noi due si assorda di elementi cliccati e salvati l’altra ogni

volta dimentica.

Nessun amuleto ci protegge e insieme sogniamo un giorno di

vederci

raccontarci naso contro naso le nostre arti,

toccarci per riconoscerci

come due amiche di sangue e carne,

tutto quello che abbiamo creduto di

scorrere sul monitore

il silenzio non tracciato evocato dal bianco.

 

Mi invitarono alla festa webale, dal titolo plurilingue, che adesso ho dimenticato, eravamo in Italia. Mi vestii come se dovessi andare a una festa invece era un party e quelli vestiti tipo me potevano apparire ridicoli. Non che fosse importante. Nel web si fa gruppo, ci si raggruppa con nomi e intitolazioni, si fanno aperitivi webali, si balla da casa davanti al video e il video guarda dentro casa. Riti e siti de-liberano. Tu credi di fissare uno schermo, è lui che ti fissa, ma non ci pensi e balli, il calice in alto. Cin cin senza cin, cin cin al vento, alla stanza vuota che si affaccia su altre stanze quasi vuote di gente tutta sola che insieme fa gruppo. Alla salute. Il rito si ripete, i gruppi prolificano, c’è inter-azione senza azione, che sensazione di non solitudine, pensa a come era senza.

I nativi digitali (forse) non lo sanno. Mai stati senza. È come raccontare un film senza video e senza effetti speciali quindi è come raccontare un libro, una storia trasudata dalle pagine. Archeologie. Storie del passato nel frullato.

 

 

*papavero elettronico#

Siccome il papavero non ci riconosceva pure se camuffati da papaveri

– occhio di fiore è un tiratore scelto foglie mani di velluto stelo barbuto e

sapiente –

noi pochi e mi dissocio ora per sempre

abbiamo costruito un papavero elettronico. Che era troppo solo e

inefficiente

e abbiamo, hanno fatto un campo elettronico di papaveri e

un campo di papaveri elettronici.

Sistemi.

Siccome nessuno raccoglieva più papaveri hanno inventato un braccio

automatico che si chiamava sineddoche. La sineddoche faceva le veci

del braccio umano

ma era finta e nessuno se ne accorse perché non conosceva il significato.

Era finta perché era di acciaio e fili elettrici, cariche e scariche ma il

nome appariva futurista

tanti furono gli applausi al battesimo disperato. Elettrizzato.

Il sistema di raccolta è formato da più elementi interagenti tra di loro in

modo da costituire

una entità unica ma anche un’unica entità. Si autoregola. Persino.

Da quando si è stanziato il regime elettrico la novità ha scaldato le

società.

E siccome tutti lo hanno votato senza elezioni con plebiscito a posteriori

rispetto alla realizzazione

– i mondi capovolti ci sono sempre piaciuti a noi archimedi dell’emerito –

il regime è entrato a regime e si è incancrenito sotto la pelle del mondo

d’ossa carne sangue.

Non raccogliamo più i papaveri che adesso abbiamo trasformato in

condotti di alta tensione.

Però monitoriamo il campo minato a distanza, per paura.

 

 

Immaginazione

Se la luna restasse ferma a mezzogiorno

potrei essere incarnazione del creato

rifiorire ogni ora dai ritorni

ripensarti come un satiro bifronte.

Se la musica del vento sentisse tutto il vuoto

delle scatole parlanti genererebbe correnti planetarie

interconnessioni indotte

tra i vivi e i fili

tra sangue, respiri e fibre ottiche

fino a tornare pangea, placca, primordio.

Ma la luna ha smesso di restare

amica stanca di un’alleanza difficile

dismessa compagna di giorni che non cedono alle notti

il privilegio di un raggio della Stella.

Perciò impariamo dal cielo tutto quello che c’è da sapere

e dall’immaginazione tutto quello che potendo, sarà.

 

 

Sottratti

Anno IV, chat n. 12000

il cuore virtuale dismette il battito

inciampando in un grano di realtà.

Sono in due si incontrano ogni notte, si scrivono e intrecciano il tempo

dondolano nella rete, amaca certa e confortevole

sanno di sé e dell’altro, forse si conoscono

dimenticano il presente e presto sono già oltre la fine della notte.

Le due persone si incontrano per caso in chiesa una mattina, è

domenica.

Lei ha un vestito che le si incolla addosso ed è piena di gioia

la sua amica si sposa mentre dal banco sogna per sé qualcosa di potente.

Lui si aggira nella navata laterale in preda alle sue tempeste e rotola gli

occhi intorno

senza vedere. È lì per lo sposo mentre nessuno dei due sa.

Lei vede lui, lo guarda, lo pedina di occhiate. Quante notti di vapori

verbali.

Lui non si accorge. La vede ma non la guarda. La vede e guarda altrove.

Trazione verso, zero. De-trazione ad abundantiam.

At-trazione sot-tratta.

 

 

Utente sapiens sapiens

Ti ha raccontato in una lingua straniera

che per lui è normale farlo e tu hai capito

che il fatto narrato ha importanza per te

e per le tue certezze rapprese.

Non è usuale uscire tra gli squittii dei ferri

nel dopo lavoro, bere una birra al bistrot con gli amici

attraversare ancora gli stridori e le dissonanze della fretta di giungere

per lui non lo è.

Ma Tokio è adesso la terra della velocità e della moltitudine.

Tokio non ti somiglia.

Le tue geografie trasudano resti di templi antichi del Mediterraneo

dove il sole non appassisce,

la gente coltiva

e le strade non sempre sono asfaltate.

Lo attende a casa un clone di gomma, la linea perfetta

e recita affetto e fiducia, prescelta.

Con lei gode.

Ripensi a quelle sue parole

invece tu sogni di trovare un uomo dal respiro umido

pelle di cellule e tessuti

eppure inciampi ancora nelle parole straniere del giapponese

come fossero ricci di plastica restituiti dal mare

resti superflui resi eterni dai petroli.

 

 

Interno

Il mattino si infilava da un unico vetro,

obliquo tra fasci blu e alogeni

si lasciava sentire appena, compassato.

Dopo un po’ te ne dimenticasti e non lo percepisti più.

Non sapevi se pioveva o se era sopraggiunto il sole.

Apparvero in chiaro e sovraesposte

sotto forma di contorni opachi, le apparenze.

Era gente senza corpo in una zona-aldilà

un Ade di vivi che mostrano gli interni, possessori di carne e sangue

che non contano in quanto invisibili oltre la luce mossa che divide.

La trasmissione è elettronica. È la nostra pelle comunicativa

pelle che assorbe e rilascia

mentre incappuccia gli occhi, i perimetri

e sfonda tempo e spazio.

Spingersi oltre le orme visibili, il naufragio è alle porte, è lì, è sempre.

Ora i corpi non servono e neanche i territori fisici:

le colonie superano gli odori

che sintetizzano vapori del desiderio;

sfaldare la patina spessa che ricompatti ogni giorno prima di

affrontare

le ore oltre il video

che declina i segreti che non nascondi.