Haiku di Fabia Ghenzovich

Recensione di Maurizio Casagrande

 

Siamo alla seconda raccolta nel dialetto nativo per la Ghenzovich, che aveva esordito in tale registro già nel 2018 con la plaquette Se ti la vardi controluse (Supernova edizioni), interamente focalizzata su Venezia, venendo così ad affondare i propri passi sull’accidentato terreno dell’essenzialità sia nella precedenza accordata al medium linguistico, sia per quanto riguarda la misura e l’estensione dei testi, come nella massima concentrazione di un messaggio affidato al minimo indispensabile di sillabe, col prezioso supporto dei disegni di alcuni artisti lagunari, lavorando sistematicamente sulla sottrazione e con lo sguardo rivolto alla compiuta perfezione di una parola che si dà nel crogiuolo del perfetto silenzio caro ai mistici (e ai veri poeti). Significativo, a questo proposito, che ad aprire e chiudere la serie siano i temi del trionfo vitalistico della vegetazione di un prato e quello antitetico della morte: “In mezo a crode / erte fa maravegia / la sfesa de un prà” (“In mezzo a crode / erte fa meraviglia / squarcio di un prato”, Fabia Ghenzovich, Haiku, Centro Internazinale della Grafica, Venezia 2022, I, p. 11); “Anca la morte / tuta stranìa la tase / morto che parla” (“Anche la morte / tutta stranita tace / morto che parla”, XX, p. 49, ibidem), dove per inciso l’accredito della parola ai morti rappresenta una costante di molti poeti, veneti e non.

A prima vista l’adozione di una forma caratteristica del più remoto Oriente appare singolare, mentre a ben vedere si rivela funzionale alla finalità, per quanto velleitaria possa rivelarsi, di ricomporre la costitutiva frattura dualistica tra materia e spirito che ha segnato l’Occidente dall’avvento del Cristianesimo in avanti (ma che era già implicita in Platone), nell’aspirazione a ricomporre, almeno nella sintesi estrema di terzine e disegni, quell’armonia di cui siamo orfani tra l’uomo, le cose e l’ambiente.

D’altra parte una simile apertura all’Oriente non è del tutto estranea alla nostra tradizione, se solo si considera che nel Novecento persino il giovane D’Annunzio s’era misurato con questa forma, che probabilmente aveva esercitato qualche suggestione anche nel primo Ungaretti, come pure in Quasimodo o Saba, per manifestarsi apertamente quale omaggio a tale modello negli haiku di Zanzotto e Sanguineti, fino ad arrivare ad una delle ultime canzoni di Battiato.

Pier Franco Uliana, nella prefazione a questo florilegio di haiku, insiste molto sulla consonanza, anche formale e metrica, tra gli esiti della veneziana ed i canoni del metro nipponico, guadagno che tuttavia difficilmente la poetessa lagunare potrebbe aver maturato con tale esattezza stante la distanza linguistica, metrica e culturale che corre tra la prosodia del dialetto e la tradizione giapponese. Molto più consona, piuttosto, ci risulta l’immagine suggerita dallo stesso Uliana nella medesima sede di altrettante “tessere crepuscolari di un mosaico bizantino” che colgono i “baluginii dell’onda lagunare” (Cfr. P. F. Uliana, Dentro la luce, in F. Ghenzovich, Haiku, cit., p.7) esaltando le molteplici connotazioni racchiuse nello spazio di un istante, magari più sul fronte della luce o del vento che dell’acqua. Un mosaico in venti tessere, appunto, anche lacunoso in alcuni tasselli, il cui valore sta nella misura in cui suggerisce ed evoca, piuttosto che nel definire precisi contorni.

Oppure si potrebbe pensare, sempre restando nell’ambito della Laguna, a una qualche prossimità nella leggerezza di dettato in termini di battere e levare  rispetto a poeti come Diego Valeri, Andrea Longega, Carlo Della Corte (il Della Corte in dialetto veneziano, beninteso) e persino il Di Palmo delle liriche in veneziano ispirate al padre, come pure ai loro equivalenti nell’ambito della fotografia nella produzione di autori quali Paolo Della Corte, Gianni Berengo Gardin o Fulvio Roiter, soprattutto nella bicromia del bianco e nero.

In effetti un nesso sussiste tra la forma breve dell’haiku e le immagini, solo che si pensi alle illustrazioni degli artisti lagunari, o comunque radicati nella Serenissima, poste a fianco dei singoli testi con abbinamenti che non risultano per niente scontati.

Coglie peraltro nel segno Uliana nel mettere l’accento sulla felice congiunzione tra la forma breve del metro e la semplicità di ascendenza popolare del mezzo linguistico, con la sola avvertenza che l’haiku giapponese, diversamente dal dialetto, non sembra avere alle spalle una tale vocazione o destinazione, trattandosi piuttosto di una raffinata tradizione originata in ambienti colti e aristocratici. Ma è pur vero che spesso la costrizione entro la misura delle canoniche 17 sillabe, articolate in tre versi, innesca cortocircuiti nel nostro dialetto che aprono a guadagni inattesi inducendo il lettore a colmare con la propria inventiva le costitutive lacune logico/sintattiche o semantiche.

Ne è un esempio il testo che apre la serie di 20 haiku, ispirato al contrasto fra la verticalità delle Dolomiti e l’orizzontalità di un prato le cui potenzialità nelle varianti del verde sono lasciate alla sensibilità del lettore (Cfr., I, p. 11, cit.).

Giovano forse un po’ meno all’efficacia dei testi il ricorso frequente ai diminutivi, magari rafforzati dalla rima o la libertà nella resa in lingua, come pure le discrepanze rispetto agli originali nel senso letterale o nella punteggiatura: “Tochi e tocheti / de pin. Ecolo riva / cuor del me putìn” (“Pezzi e pezzetti / di pino eccolo arriva / cuor del mio bambino”, II, p. 13).

Fabia Ghenzovich, Haiku, prefazione di Pier Franco Uliana, Centro Internazionale della Grafica, Venezia 2022, pp. 58.