Fores’c  / Forestieri 

[LUGLIO 2023]  Fores’c / Forestieri. Poesie in friulano di Francesco Indrigo. Edizioni Cofine, pp. 48, ISBN 978-88-98370-95-5, euro 12,00

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IL LIBRO

Fores’c  / Forestieri è la raccolta inedita di Francesco Indrigo, vincitrice del Premio nazionale di poesia in dialetto “Città di Ischitella-Pietro Giannone” 2023.

Dalle motivazioni della giuria: «Una densa, solida sequenza di trenta testi (in cui solo gli ultimi quattro presentano, strategicamente, un titolo di cui l’ultimo è l’eponimo) compone Fores’c, Forestieri. In versi magistrali per intensità, per rara efficacia e potenza icastica di rappresentazione, per sintesi acuminata di percezione, visione e pensiero, Indrigo consegna al lettore un Libro di Poesia che è libro di testimonianza e di non arresa denuncia.

Nel grande solco della poesia testimoniale e civile che va da Dante Alighieri a Pasolini, il friulano Indrigo, in tutta probabilità giunto ai vertici della propria arte, fissa sulla pagina istantanee dell’epoca presente, stigmatizza il vuoto, attraversa la nebbia e la notte in cui tutto è come è: estraneo, straniato, straniero.

Forestieri sono i morti e i vivi, sopravvissuti ai trapassati. Forestieri gli esseri costretti a vivere e a sopravvivere a una realtà di degrado ambientale e morale, forestieri-stranieri a sé stessi e agli altri, al mondo e alla degradazione della natura da parte dell’uomo. Ombre anonime, esistenze marginali, vite silenziose si aggirano tra rifugi di fortuna in capanne di eternit. Vite separate dalla vita, paesi svuotati dalla morte per eternit; progresso industriale che si è rivelato progressione mortale: malattia dei corpi e della natura. Memoria di vita, memorie di vite, immagini-emblema: Gino il Rosso che si prepara al Primo maggio, il macellaio che cerca ’respiro’ fuori dal macello, l’orfano che aspetta che passi la corriera per scorgervi gli occhi del padre. Forestieri alla vita, divisi da una transenna (una cortina) reale e immaginaria che delimita il passaggio dei bagnanti da quello dei bagnati o salvati, dei profughi in fuga da fame e guerra.

Un libro di denuncia, un libro indimenticabile per l’intensità che trasmette. Un libro di un mondo di natura ormai forestiero, straniato o estraneo in cui la natura ha ceduto a spianate di cemento e inquinamento, dove si allude a una tragedia ecologica e ambientale: il disastro provocato da una fabbrica d’amianto. Un libro che ci ricorda, con Lucrezio, che la Natura riconquista gli spazi abbandonati dall’uomo. Un libro in cui tutti sono forestieri: i datori di lavoro e i lavoratori, gli uomini e le loro maschere, i famigliari che invecchiano, i cani morti per aver bevuto in pozze inquinate, il vecchio Argo che ancora aspetta il suo amato padrone. Libro indimenticabile, pagina di vita vissuta, “sopravvissuta al Novecento” che travalica il Novecento. Libro realistico e profetico, voce autentica e universale della poesia: Cassandra sempre vigile e tragicamente inascoltata».

(In copertina: “La pasion sacrificada” di Gianni Pignat)

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L’AUTORE

Francesco Indrigo è nato nel 1956 a San Michele al Tagliamento (VE), nel Friuli storico. Risiede a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone.

Sue poesie sono presenti in riviste, antologie, albi e quaderni. Nel 2001 ha pubblicato la raccolta Matetâs/Ammattimenti (Nuova Dimensione ed.); nel 2005 Foraman/Fuori mano (Campanotto ed.); nel 2008 Foucs/ Fuochi (New Print ed.); nel 2009 Revocs di tiara /Echi di terra (Kappa vu ed.); nel 2013 La bancia da li’ peraulis piardudis/La panchina delle parole perdute (Kappa Vu ed.); nel 2018 Nissun di nun/Nessuno di noi (Samuele Ed.); nel 2022 Forsi il vint/Forse il vento (Arcipelago Itaca).

È vincitore di premi di poesia nazionali ed internazionali. Fa parte del gruppo di poesia/laboratorio “Majakovskij” con cui ha pubblicato quattro libri. Un quinto è in programmazione nel 2023.

NEL LIBRO

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Walter al è stat il prin a zȋ via.
Subit dopu la pension.
Al à tacat cu ’na tussignela, ’na roba
di puc, il siò miedi a j veva dat il siròp.
Cuant ch’a si è mitut a spudȃ grusis di sanc,
al à capit. E plan a plan a j son zus dovor
cheatris. Pauli il suet, il Virgi, Agnul vedran
e il Doro e Ceci. Duciu’ cuancius cui palmons
fodràs di gusielis di amianto.
Ducius chei da la Linea Tre.
Gino il Ros a lu diseva sempri di metisi
il fasolet tal mostas, di no fidasi dai aspirators.
Lui al è enciamò cà a contala, encia se nol à
’na biela siera. Jo ’i scrivi, scrivi dut e tiri su
documents, testimoneansis e ’i parti
dutis li’ ciartis ai carbugners e al magistrat.
A son ains ch’i lu fai, di cuant che la fia dal Walter
a mi à implombat di lagrimis il cuel da la ciamesa.
Ch’a no j sarȃ mai avonda justizia par la me zent, ch’i ài
di movimi, parsè-che ’i no sai se ’i farai in timp a viodi
la fin dal proces, ch’i ài dai crecs ta la schena che…

Walter è stato il primo ad andarsene. / Subito dopo la pensione. / Ha cominciato con una piccola tosse, una cosa / da poco, il suo medico gli aveva prescritto lo sciroppo. / Quando s’è messo a sputare grumi sangue, / ha capito. E piano piano l’hanno seguito / gli altri. Paolo lo zoppo, il Virgilio, Angelo scapolo / e Isidoro e Cesare. Tutti con i polmoni / foderati d’aghi di amianto. / Tutti quelli della Linea Tre. / Gino il Rosso lo diceva sempre di coprirsi / il volto con il fazzoletto, di non fidarsi degli aspiratori. / Lui è ancora qui a raccontarla, anche se non ha / una bella cera. Io scrivo, scrivo tutto e raccolgo / documenti, testimonianze e porto / tutte le carte ai carabinieri e al magistrato. / Sono anni che lo faccio, da quando la figlia del Walter / mi ha inzuppato di lacrime il collo della camicia. / Che non ci sarà mai abbastanza giustizia per la mia gente, che devo / sbrigarmi perché non so se farò in tempo a vedere / la fine del processo, che ho delle fitte nella schiena che…

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’I soi uchì ch’i speti ch’al rivi.
’I sai che prest o tars al passarȃ
di cà. La coriera a sbassa la corsa
prin da la curva, cussì ’i mi meti in piè
ta la murèta, che se fai in svelta ’i rivi
adora a ociàj li’ musis impetadis
tai finestrins. No ’ndè mai una ch’a j somei,
ma ’i soi sigùr che magari doman,
al dismontarȃ ulì, ta la crosera da la Pervinca.
Cu la so giachèta di tela clara sot il bras,
e la cica tal cianton dai lavris.
Ridìnt.
Ch’i ài ’na fadìa in-tal stomi, no soi
stat bon di pandi a me pari chȇ peraula
di bessòla ch’a scuminsia par “p”.
E ancia se sai ben che propit vuei,
a son trentanouf ch’il neri dal vint
a lu à tombolàt tal sidinès di chista vecia
solitudin, ’i soi uchì ch’i speti ch’al rivi.

Sono qui che attendo il suo arrivo. / So che presto o tardi passerà / di qua. La corriera decelera / prima della curva, così mi metto in piedi / sul muricciolo, che se mi affretto riesco / ad osservare i volti incollati / ai finestrini. Non ce n’è mai uno che gli assomigli, / ma sono sicuro che magari domani, / scenderà lì, all’incrocio della Pervinca. / Con la sua giacca di stoffa chiara sottobraccio, / e la cicca all’angolo della labbra. / Sorridendo. / Che ho una fatica nel petto, non sono / riuscito a rivelare a mio padre quella parola / sola che comincia per “p”. / E anche se so bene che proprio oggi, / sono trentanove anni che il nero del vento / l’ha precipitato nel silenzio di questa antica / solitudine, sono qui che attendo il suo arrivo.

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Al tira un vint ch’a fa tignȋ li’ mans
in scarsèla. ’I lu vardi fìs cui vui imbramits.
Distirat ta la rasula e plomb di salmastri,
il cocal al mȏr.
Il ciaf poiàt ta un cussin di crepis
di capis pevarassis, il vuli clop
cuntra i scanos stonfs di autun,
il cocal al mȏr.
L’aga alta a taca a montȃ su.
La scluma blancia di lȗs, ciavestra
a ponta dreta intor di lui. Enciamò ’na ondada
pì lustra e il mȃr a lu ripuartarȃ a ciasa.
Dut inglovat tal dolȏr di ’na nula di scȗr,
il sièl pì bas al tas il fì piardut.
Chistu ’i poi dilu.
Stranìt ’i mi inzegloni, li’ scarpis
a si sfonderin tal savalon strafond di sal,
’i no planzi, ’i sai ch’i ài di imparȃ a murȋ.

Tira un vento che ti fa tenere le mani / in tasca. Lo osservo con occhi raggelati. / Disteso sul bagnasciuga e fradicio di salmastro, / il gabbiano muore. / Il capo posato su di un guanciale di valve / di vongole, l’occhio guasto / contro le barene intrise d’autunno, / il gabbiano muore. / La marea s’appresta a salire. / La schiuma bianca di luce, ostinata / punta diritta su di lui. Ancora un’onda / più lucente e il mare lo riporterà a casa. / Ripiegato nel dolore di una nuvola di buio, il cielo più basso tace il figlio perduto. / Questo posso dirlo. / Turbato m’inginocchio, le scarpe / affondano nella sabbia inzuppata di sale, / non piango, so che devo imparare a morire.

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E a j è chista manciansa
in-tal desert da li’ plazis,
no un vuet, ’na manciansa.
Ch’i sin nun i fores’c ch’i ciaminin
ta chista aria nova ch’i si vin
vodagnat, no vuatris muarts
a curt di flat, cul rispìr sonciat.
Se ch’i savìn nol à avonda misura
par chel ch’i ses stats,
fin a scjafoiàsi di amiant,
fin a dispoiȃ i paȋs.
Par fani savȇ chel ch’i no savevin,
ch’a ni àn platat,
ch’i varìn il rispìr sustat
fin cuant ch’i no giavarìn il vȇl
a la via da li’ peraulis netis.

E c’è questa assenza / nel deserto delle piazze, / non un vuoto, un’assenza. / Che siamo noi i forestieri che camminano / in quest’aria nuova che abbiamo / ottenuto, non voi morti / a corto di fiato, con il respiro spezzato. / Ciò che sappiamo non ha sufficiente misura / per ciò che siete stati, / fino a soffocare d’amianto, / fino a spogliare i paesi. / Per farci conoscere quello che non sapevamo, / che ci è stato nascosto, / che avremo il respiro sospeso / fino a che non disveleremo / la via delle parole mondate.

Fores’c

Ma sì ch’i la vidìn, la vita a è chista roba uchì,
chistu sorèli amont smanios di ros in rivista
ai tets da li’ fabrichis ch’a cridin vinciacuatru,
su vinciacuatru. A disfredȃ i teis intosseats
dal flat garp dai stabiliments.
Par po scjavassȃ la statal, pì in nà dai capanons
in afìt bunificats dal amiant. Ta la zona
archeologica industrial, ’na pursission di bitumieris
a contani la fin dal scuminsià. Chista a è l’ora
ch’a finìs il turnu dal dopumisdì. Enciamò cualchi
bici tal orli scrivilìt da la ciclabil.
Sidìns e di bessoi, disfats da li’ peraulis a còtimo
mastiadis a scjafoion, i operaios a tornin.
Che nun doi ’i sin s’ciampats al noufsent.
Doman al è il prin dì di autun, ’i ti caressi
li’ mans frovadis dal nouf secu, e po il sen,
e il disen dal tiò cuarp, cu la memoria dai dets
impiàts ta la pièl, ch’a no è enciamò avonda.

FORESTIERI – Ma sì che la vediamo, la vita è questa cosa qui, / questo tramonto smanioso di rosso in rassegna / ai tetti delle fabbriche che urlano ventiquattro, / su ventiquattro. A intiepidire i tigli intossicati / dal fiato acido degli stabilimenti. / Per poi attraversare la statale, più in là dei capannoni / in affitto bonificati dall’amianto. Nella zona / archeologica industriale, una processione di camion di calcestruzzo / a raccontarci la fine dell’inizio. Questa è l’ora / che termina il turno pomeridiano. Ancora qualche / bicicletta sul ciglio crepato della ciclabile. / Silenziosi e solitari, guastati dalle parole a cottimo / masticate a strozzafiato, gli operai fanno ritorno. / Che noi due siamo sopravvissuti al novecento. / Domani è il primo giorno d’autunno, ti accarezzo / le mani logorate dal nuovo secolo, e poi il seno, / e il disegno del tuo corpo, con la memoria delle dita / accese sulla pelle, che non basta ancora.