Maurizio Noris, poeta in dialetto bergamasco, ci regala due piccole eleganti raccolte la prima Àngei? (Angeli), con la riproduzione di un acrilico in tela di Piergiorgio Noris e la seconda Zögadùr (Giocatori), accompagnata dalla riproduzione di una china su carta e computer di Ivano Castelli, edite entrambe da Tera Mata nel settembre 2012 (euro 5 ognuna).
Di queste ho avuto modo di scambiare alcune rapide opinioni con Achille Serrao durante la settimana che si è conclusa con la sua morte quel tragico venerdì 19 ottobre, concordando sul valore della poesia di Maurizio. Ignoravo che addirittura il maestro Serrao (un rabdomante della poesia) avesse trovato la forza di vergare di suo pugno un biglietto inviandolo al giovane poeta.
La lettera di Achille, giunta a Maurizio Noris martedì 16 ottobre: “Carissimo, carissimo, ricevo i tuoi due libretti. Mi viene subito che Maurizio forza le maglie dell’immaginazione, attraverso una “densa” aggettivazione. Lo scopo è il “vedere oltre”, il “sentire oltre” attraverso questa splendida poesia nuova che non mi pare abbia eguali e che ci viene dalla lontana “separata” bergamasca, di gradevolissime esperienze – e che almeno in parte mi ricorda il lavoro di Ermellino Mazzoleni. Caro Maurizio, occorrerà valorizzare questo tuo straordinario versicolare che, ripeto, non mi pare abbia eguali nella tua provincia (e forse in campo nazionale). Mi riprometto di studiare, approfondire e tu mi perdonerai per tutto il tempo di cui ti ho spossessato. Farò del mio meglio profondendo le mie forze migliori e nel farlo coinvolgerò i tuoi libretti recenti, forse uno dei culmini ai quali sei giunto. Intanto un abbraccio, tuo Achille”.
Ed ora qui di seguito ecco un sintetica presentazione di Piero Marelli a Àngei? (Angeli) e la scelta (mia di due poesie. A seguire la presentazione a Zögadùr (Giocatori) di Silvio Bordoni e la scelta (sempre mia) di altre due poesie.
Vincenzo Luciani
La presentazione di Piero Marelli a Àngei? (Angeli)
Quello che si comprende subito, già dalle prime righe, di questa piccola raccolta, è che qui gli angeli, non solo hanno un nome ma anche una carne. Ed è questa la scelta, o meglio, la necessità che i tempi hanno imposto alla poesia di Maurizio Noris: la riqualificazione tutta umana di presenze che noi continuamente fatichiamo a individuare, ma che ci sono e che stanno con noi per indicarci, con la severità che forse solo il dialetto è in grado oggi di riferire, un mondo altrove ma assolutamente utile, dove ogni riconoscimento è delegato alle parole imprevedibili della poesia. E tutto questo avviene senza la pretesa di mitizzare angelicamente queste figure, vere metafore dell’amicizia e soprattutto vere come “controllori” della parola che il poeta si è permesso all’interno di tutta una tradizione novecentesca, pensando, tanto per fare qualche esempio, a Rilke e a Rafael Alberti, nel bisogno di affidare a questi “messaggeri” le ragioni di una poetica e, forse prima, il timore dell’insufficienza del dire nei confronti della realtà. Ma già nel titolo, con il punto interrogativo, Noris insinua un dubbio (forse sarebbe meglio dire un’esitazione): che tutto questo possa essere solo un desiderio incapace poi di realizzarsi nel luogo dove gli incontri sono attesi. E qui, però, accadono, dal momento che sono stati tutti affidati alla concretezza dei nomi e cognomi delle dediche, all’apporto esistenziale che ogni persona indicata ha lasciato nella mente e nella scrittura del poeta. Così, ancora una volta, in questi versi è manifesta la volontà dell’autore di rifiutarsi a proposte sentimentali, dove i suoi “personaggi” (angeli?), sono presenti nella loro umanità, anche perché questo dialetto “non avrebbe permesso diversamente”, regalandogli, di conseguenza, ulteriori ragioni di poesia, “educandolo” a prescindere da ogni indeterminatezza, concretando tra nomi, interrogazioni (che sono le vere risposte della poesia), versi “a filo terra” propri del risparmio dialettale, in grado di stabilire, per assurdo o per miracolo, una lingua oltre le stesse parole, mettendo nelle sue tasche un vocabolario minimo ma più che sufficiente, conducendolo verso conclusioni e conquiste che non sono mai prima della poesia. Restando, in tutto questo, vicino e fedele alla sua parlata, la sola riconoscibile e necessaria, non per inammissibili forme di nostalgia di un passato o di un luogo, ma per fedeltà ad una propria visione del mondo e per restituire in poesia una lingua che vuole restare presente, nella contingenza storica che tende a negarla, accettando un suo possibile futuro e proponendo di chiudere questa nota con un verso di Walt Whitman, che può essere utile anche per la comprensione del lavoro di Maurizio Noris: “Io sono nessuno o sono una moltitudine”. Un coro “d’angeli” rivolto al mondo. (Piero Marelli)
DA NÓTER I ÀNGEI
Da nóter
i àngei
i è sènsa mantèl,
picialì
sborentìcc
ch’i sbàt
con d’öna us
rösnéta
de scarpèl.
Ángei sènsa bütiga
co i ale
’ncianferade
àngei che büliga
belèsse
sènsa braghe.
a Angelo Gandolfi
DA NOI GLI ANGELI. Da noi / gli angeli / sono senza mantello, / pettirossini / spaventati /che sbattono / con una voce / arrugginita / di scalpello. // Angeli senza negozio / con le ali / inutili / angeli mai in ozio/ bellezze / senza brache.
GIÒNA
Col tép
i agn i müda ‘n di tò öcc
compàgn che müda ‘l gróp de la it.
Col tép
i agn i sberlüs
– o i è s-cetì che zöga ? –
in fónd al bósch
öcc gris de sièta che brüsa
‘n del fósch.
Tegném in scarsèla
i bestèmie
Giòna
piö tant ca m’ pöl
per göstale a belase
‘n del tép che rìa,
per mantegnì ‘l caröl.
A Sandro mio fratello – GIONA. Col tempo / gli anni mutano nei tuoi occhi / come muta il nodo della vite. // Col tempo /gli anni luccicano / – o sono bambini che giocano ? – / in fondo al bosco / occhi grigi di civetta che bruciano / nel buio. / Teniamo in tasca / le bestemmie / Giona / più che possiamo / per gustarle lente / nel tempo che arriva, / per mantenere il tarlo.
La presentazione a Zögadùr (Giocatori) di Silvio Bordoni
“Zögadùr” – Tutto ciò che è in noi e al di fuori di noi è un” gioco sacro” dell’esistenza: la coscienza di un vissuto che si espande e accorpa in sé memorie, stupori e drammi. Un gioco sacro che la parola della poesia da sempre rincorre – oggi soprattutto – nel pieno di una società egoistica, superficiale e spersonalizzante. Maurizio Noris – voce ormai affermata nel mondo della lingua dialettale – qui, in questa sua breve ma affascinante e significativa raccolta dal titolo apertamente emblematico – si rende accorato interprete e testimone dell’alta funzione della ”parola poetica”, quale lingua interiore, indagatrice e salvifica. Noi, da sempre, abbiamo assegnato alla poesia dialettale una straordinaria vocazione collettiva e popolare (non nel senso folcloristico), che ha i suoi fondamenti nella saggezza e nella sottile ironia che spesso l’accompagna e la fortifica laddove sa rendere più sopportabile anche la sofferenza e il grigiore di un popolo. Diversi sono i temi, inseriti in quell’arco di tempo che per la poesia non ha confini. La specifica appartenenza culturale e storica a cui è legato il linguaggio dialettale dell’autore non inficia e non delimita i significati universali e le “verità”: al contrario, li ricostruisce nella loro autenticità e attualità. Ed è questo l’alto valore di una lingua locale che si fa poesia globale, non capace soltanto, quindi, di trasmettere nostalgie ed emozioni primigenie. Ciò che inoltre sorprende in Maurizio Noris – caratteristica peraltro dei veri poeti – è quella semplicità ormai consolidata del verso, che assomma in sé – ad un tempo – sapienza e profondità di introspezione a una ”sonorità” personalissima, quasi ordita su una filigrana medioevale. I vari personaggi si rivestono, qui, di una ben precisa metafora civile, tesa a sublimare l’eterno valore di un linguaggio di fatica, di disagi economici ed esistenziali, di emigrazione e di morte, che guarda “oltre”nel segreto di una speranza di cambiamento. Non per nulla si rivela straordinaria “l’apparizione” del vecchio parroco del paese nel suo riconoscibile abito tradizionale “di fede” , a mo’ di rondine (diversamente dagli usi moderni), che lascia attorno a sé – accanto al suo saluto – una scia di luce, di concordia e di pace. E a questa figura quasi antica l’autore – forse – vuole accompagnarsi nel suo segreto sentire per coniugare dolore e gioia, indifferenza e fede. Il grande scrittore e poeta di origine rumena Paul Celan ebbe a dire (in una sua celebre composizione) che la poesia è “ un canto d’emergenza dei pensieri nato da un sentimento”. Ebbene la lingua dei padri, la lingua di Maurizio Noris, nel suo farsi poesia, sa cogliere questa emergenza e al tempo stesso beneficiare di quel ricco deposito antropologico culturale, maturato di generazione in generazione, ravvalorando nella liturgia del verso il passato, il presente e il futuro di un destino comune.
Ed è in una tale genuina e profonda ricerca e nel suo sotterraneo e sottaciuto chiedersi e chiederci come possa ancora la”parola” salvarci, che sta la meraviglia di questo”incontro”: la bellezza cioè di un popolo che ancora sa di esistere, al pari della sua parola. (Silvio Bordoni)
OL ZÖGADÙR DE BIGLIÀRD
Ol zögadùr
a l’pisa
l’öltima biglia
ma l’è finida
la partida.
Sö ’l bigliàrd
a l’se piéga lènt
compàgn se l’gh’ès
öna ferida.
Ol tir
l’è ö dulùr
che l’rìa da lóncc
per mia mör du ölte
e ’nserà la nòcc
che la ciama
e vusa.
Ma l’è tròp tarde:
filòt
fósch
büsa.
IL GIOCATORE DI BIGLIARDO. Il giocatore / soppesa / l’ultima biglia / ma è finita la partita. // Sul bigliardo / si piega lento / come avesse / una ferita. // Il tiro / è un dolore / che arriva da lontano / per non morir due volte / e rinserrare la notte / che chiama e grida. // Ma è troppo tardi: / filotto / buio / buca.
OL PREUSTÌ ÈCC
Tüso öna vérgola nigra
sperdida
in de sto paìs
che l’à scundìt la pèna,
ol preustì ècc
a l’gira
co i sò öcc de carta
che i vàl
ö vèl.
Metà òm e metà rondèna
a l’mesüra contét i mür
sö l’oradèl
de la sira.
Se l’ te salüda
l’ canta,
perdìt
in del sò cél.
IL PICCOLO PARROCO VECCHIO. Come una virgola nera / dispersa / in questo paese / che ha nascosto la penna, / il piccolo parroco vecchio / circola / con i suoi occhi di carta / che valgono / un velo. // Metà uomo e metà rondine / misura contento i muri / sull’orlo / della sera. // Se ti saluta / canta, / perso / nel suo cielo.
Maurizio Noris è nato ad Albino (Bg) nel 1957. Scrive poesie nel dialetto bergamasco della media Valle Seriana. Nel gennaio 2001 pubblica la raccolta "Santì", edizioni Tera Mata, Bergamo, libro artigiano di poesie dialettali con l’artista grafico Ivano Castelli. E’ del 2008 la raccolta “Dialet De Nòcc D’amùr”, edizioni Cofine Roma, premio Città di Ischitella. Nel 2009 presenta la plaquette
“ Us de ruch” con introduzione di Alberto Belotti, edizioni Tera Mata, Bergamo; nel 2010, per le edizioni LietoColle di Como, la raccolta “Us de ruch”, con introduzione di Franco Loi. Nel 2011 una scelta di suoi testi viene pubblicata in “Guardando per terra, voci della poesia contemporanea in dialetto”, a cura di Piero Marelli, LietoColle edizioni, Como. E’ presente con suoi testi in antologie e riviste. E’ un libero professionista, formatore e promotore socioculturale nel contesto delle professioni sociali e delle politiche giovanili.