A tàchìn de a trimà lis as – cominciano a tremare le api di Giacomo Vit

Recensione di Gian Piero Stefanoni

 

Narratore e raccontatore lucidissimo di una contemporaneità in allarme, in crisi tra velocità e aspirazione di trasformazione e graduale cancellazione di se stessa per questo nella rimozione dei suoi richiami e dei suoi valori non più fondanti, Giacomo Vit si conferma appieno in quest’ultimo, esile ma intensissimo libricino. Maestro elementare, autore oltre che di poesia anche di narrativa e soprattutto di libri per l’infanzia, nel friulano di Bagnarola che ne rappresenta la varietà periferica sudoccidentale, lo ricordiamo per la sapiente modalità di una poetica sempre riportata nell’alveo di quel legame umano con la natura soggetto certo alle asprezze e ai limiti della sua condizione ma soprattutto agli attentati di una Storia che di quel legame sovente ne dimentica, e ne violenta le origini. Così è anche in queste pagine nell’occasione di un evento limite di cui aldilà della abituale registrazione della cronaca ha saputo cogliere tutta la silenziosa e implosa apocalissi, in alcune zone del suo Friuli le api colpite dai pesticidi cominciando “a tremare tutte insieme, poco prima di morire”. Inizia così come da primo testo quella che possiamo considerare come una lettera da un incendio, di una separazione diremmo nel grido di azzeramento di luoghi, animali, elementi nel coro di un oblio di cui l’uomo nella proporzione della sua causa non solo non è più in grado di trattenere ma soprattutto di avvertire. Se come ebbe a dire Franco Scataglini solo il dialetto alla radice può esprimere il sentimento della privazione, il discorso di Vit è sì un discorso della perdita, l’uomo da se stesso intanto e va bene perché non più nel colloquio della terra, ma principalmente dei vinti se il perché del vinto in questo caso è tutto ciò che fa dell’umano la sua rivelazione all’interno di una creazione di cui ne è solo una parte. La parola allora non è più quella dell’uomo, avendo smarrita anch’essa nella comunicazione espropriante delle sue dinamiche , ma degli elementi stessi, dei luoghi, degli animali, degli spazi colpiti cui Vit semplicemente presta parola nella pronuncia non urlata ma ferita di una terra esposta alla morte ed eppure ancora in ciò che la distingue di compassione diremmo nei confronti di chi la persegue.

Se la cadenza è data entro una geografia e una intimità disconosciuta e violata, la risonanza dunque è quella di una controstoria, di una vita prestata e levata laddove al no dell’uomo è la terra stessa, la natura stessa a testimoniare il bene e la resistenza di ogni sua forma seppure nei suoi infiniti carichi, nelle sue infinite capacità di rinascita a rompere quel “distìn fat di ritàis (quel “destino di scarti”) forse scritto all’interno dell’universo. Ecco dell’erba il suo flettersi alle spinte del vento, ed il suo rialzarsi nel sudore e nell’orgoglio dal margine degli incubi di una storia umana proprio di là raccontata come nella memoria di quel piccolo fuscello di Auschwitz, rimasto, scampato a dire “il freit a la not/da la Not…” (“il freddo della notte/ alla Notte”); ed ecco dal coro di questa lunghissima notte umana l’indifferenza e vanità divina piuttosto rivelata proprio da tutto ciò che non è umano, il sacro, Dio stesso colpito con loro, al servizio con loro fino agli abissi di ogni negazione, qui in quelle “pigrafis inta l’aria”(“epigrafi nell’aria”) incise in tutti quegli animali (cani, gatti, cavalli, piccioni) al servizio di un loro utilizzo violento durante la prima guerra mondiale entro una Storia che non solo da ora non muta. La condivisione è quella di una caduta in un dove di sfinimento, di sangue, di morte infine che non è di salvezza appunto (la salvezza forse appuntata in piccoli gesti, in piccole carezze) in un teatro di consapevolezza che ancora però sembra escludere gli uomini in una lotta che dapprima come sempre è con se stessi. A fronte allora di questo suolo cui tutto bruciando tutto nega alla posa, di questo vuoto “fàt/di rumòurs sensa significàt,/chè ombrena ch’a si impeta/intòr cuma cola e a intaca/dut, peraulis e pinseirs” (“fatto/di rumori senza significato,/quell’ombra che s’appiccica/addosso come colla e attacca/tutto, parole e pensieri”) non resta che tornare a chi di tanta terra, di tanto amore ha nutrito lo sguardo e la parola stessa, ai poeti stessi allora nell’apprendimento di un affondo entro un’esistenza non idillica ma liberamente riportata a quella “soggettività non padrona, non autocentrata, accogliente e inclusiva dell’altro, anche non umano, e dell’altrove” di cui parla Giuseppe Zoppelli nell’ampia postfazione.

Il  tema è quello dell’ultima sezione, “Ta l’ansemá da li’ fuèis moti” ( “Nell’ansimare delle foglie morte”) dove “vengono richiamate le figure e i versi di alcuni poeti friulani scomparsi, che nella loro produzione poetica diedero molto rilievo al tema della natura e del paesaggio” (nell’ordine Argeo- Cesco Celsutti, la Cantarutti, Pasolini, Castellani, Tavan, Giacomini, Fioretti le cui citazioni di versi sono riportate in corsivo). Perché la poesia forse non può salvare ma può comunque mostrare le tracce, nella cancellazione dei paesaggi e dei paesi, di una tensione che nella veglia silenziosa del pensiero del mondo iscritta nella scorza dei campi e degli alberi, di tutto ciò che ci accoglie ci circonda e ci supera, a sua volta nel pensiero del mondo (che non è il nostro pensiero ma che di quel pensiero a sua volta ne è mondo) ci reintegra e resta. Nel grande libro verde della natura quegli occhi, quella fusione infatti è là, disfatta in tutto quanto fa anima per dirla con Castellani, negli elementi di una custodia prima vegliata ora rimbalzante di là dai “claps da lis ciasis vecis” (“sassi delle vecchie case”- Tavan) o nascosta dietro a un cespuglio di nubi, la poesia indicata nel fosso e nell’ “orizont dai ciamps, il trabis’cià/dai ussiei…“(“orizzonte dei campi, il confabulare/ degli uccelli” – Giacomini), i cui sogni di mondo nel riferimento a Pasolini tutti nelle piccole figure, nelle piccole care cose di una terra bambina e insieme madre “li ciasis e i tinars lens ch’a trimin tal riul,/dai cops blancs di neif e da la paia cuntra il nul/selest” (“le case e i teneri alberi che tremano nel fosso,/i coppi bianchi di neve e la paglia contro il nuvolo/celeste”).  Qui però proprio nel paradigma Pasolini in quel racconto del reale che Vit non cessa mai di indagare, la realtà stessa viene a imporsi in tutto l’insanguinato stridore di cui ha bisogno per riprodursi, coi sassi appuntiti, inzuppata di sangue, lontano da casa “a un louc neri/ pì di un peciàt” (“in un luogo nero/ più di un peccato”). Per questo allora come tutte quelle figure, quegli animali, quei campi di cui abbiamo parlato nel carico di un mondo nel cortocircuito di sé,  la poesia allora forse può sopravvivere nel riportarne la scrittura   alla inesausta dimensione affermativa e non di morte della sua dizione di origine  (“di imperativo biologico” diremmo in questo d’accordo con Zoppelli nel gioco delle citazioni da Brodskij). Lo stesso Vit in queste pagine offrendocene di nuovo uno splendido esempio anche in quella capacità già altrove segnalata di una parola nel controllo e nella passione di una interrogazione che certo non fa sconti nelle interdizioni di un presente che pare più non presupporci.

Giacomo Vit, A tàchìn de a trimà lis as- cominciano a tremare le api, Puntoacapo edizioni, Pasturana (Al), 2021