Lino Angiuli dialoga con il tempo, e con chi, in esso, ha lasciato la sua impronta netta, ma non pesante; solo una traccia del cammino scelto liberamente e illuminato dalle parole come fiaccole nelle nebbie e nelle notti dell’esistenza. Egli annuncia “Terre promesse” sondando la quarta dimensione, indicata da Tommaso Moro nell’esergo: quella dal basso verso l’alto, da quegli “impliciti dentro il semplice tuo camminare” (Vorrei, Francesco Guccini, 1996). Ecco allora, da singole parole, particelle verbali, pronomi relativi, proposizioni ipotetiche, emergere strofe di undici endecasillabi variamente rimati che rapiscono con immagini “cosa ha in testa un fiore/ quando sbottona il corpo sotto il sole” – “una collana/ cui attaccare una scintilla ardente/ insieme con la chiave che permette/ di aprire un cielo vero attentamente/ senza bisogno di tagliarlo a fette”; e insieme svelano umane debolezze e ipocrisie, con altrettanto vigore “Ma dove vanno a morire gli uccelli/ non ce lo svelano i telegiornali/ che proprio nulla dicono di quelli/ e di com’è che utilizzano le ali/ per arrivare ai loro paradisi” così come “La morte è quell’azienda di trasporto/ che ci riporta ad essere noi stessi”.
Farei un torto all’Autore della silloge se mi limitassi ad apprezzare la forma, gustare le pennellate, assorbire gli “scossoni” di questa prima sezione, senza considerare l’intera architettura della raccolta: un palazzo a più piani o una dimora con numerose stanze, le cui colonne o i muri maestri sono Leopardi, l’Alighieri, Paul Claudel, Giovanni Evangelista, Agostino di Ippona, Novalis, Simone Weil. Lino Angiuli li cita in esergo di ogni sezione – anno, per nominare e richiamare, dall’ultimo al primo, la Gioia, la Natura, l’Amore, lo Spirito, la Luce, il Tempo, i Mesi: un percorso lungo sette anni, sigillato da un “Canto zero” che è omaggio al Sommo Poeta nella forma e nella struttura di terzine dantesche a rime concatenate. A lui l’autore chiede aiuto, perché il suo sentimento non sia disgiunto dal coraggio “tu che sei stato così tanto audace/ guida la penna che muovo a fatica/ per collegare l’addome al torace”perché possa “ fuoruscire dal vecchio copione/ di un fare umano di cui mi vergogno”.
Ecco, anche in questa raccolta si rinnova l’azione poetica: l’uscire da sé, superando l’egoismo, originato dalla paura del limite e della morte che taglia il tempo e i sogni; egoismo stigmatizzato da religioni e buon senso del vivere civile. Quel sé come valore assoluto, sciolto da ogni legame altrui, per essere legato lui stesso, immobile, chiuso. Nella poesia di Lino Angiuli che così precisamente dà il nome alle “cose”, agisce la parola dai “colori soffusi” che non grida, non giudica, non copre le voci, ma ci apre quel tanto che basta alla relazione umana e all’attenzione al mondo “e la parola ha colori soffusi/ per dire ciò che ci fa ritornare/ nel luogo dove non stare reclusi/ ma essere forme d’un verbo ausiliare/ che ci permette di stare dischiusi.” Questa parola – in altre raccolte dell’Angiuli espressa con la lingua del Sud, lingua da latte – mantiene anche nell’uso dell’italiano una nettezza senza compromessi o sensi nascosti: ancora una volta è frutto di aver “zappato mille parole, per dare parola alla zappa”. In attesa, forse, di un altro anno per dissodare ancora l’esistenza.
SE
Se al posto di un futuro c’è un presente
le trovi sempre le terre promesse
emerse dall’oceano della mente
in fondo al quale non sono mai smesse
le vibrazioni della pineäle
addormentata come se volesse
finirla d’indicare il bene e il male
e trasformarsi invece in un vascello
che sa arrivare a quell’isola astrale
dipinta quasi sempre ad acquerello
sopra le carte del mondo surreale.
CHE
Che bello il cuore che assomiglia tanto
a una cometa sbocciata su in alto
per aiutarci a provare l’incanto
rivolto a farci fare un grande salto
verso un pianeta dagli occhi socchiusi
mentre anche il sangue si copre di smalto
e la parola ha colori soffusi
per dire ciò che ci fa ritornare
nel luogo dove non stare reclusi
ma essere forme d’un verbo ausiliare
che ci permette di stare dischiusi.
Ho avuto un istante di grande pace. Forse è
questa la felicità.
Virginia Woolf
Un sonno autunnale ci piglia alle spalle
col cielo abbassato ad altezza di rovo
s’aggira per l’aria l’aroma di ottobre
la linfa rallenta le sue traversate
in vista di un porto introverso e profondo
è il tempo migliore per inginocchiarsi
davanti al portone dell’anima stanca
sostarvi in attesa del primo frangente
disceso o salito da un qualche richiamo
che sa ragionare di questo e di quello
ma senza innestare la marcia veloce
tre quattro parole purché sottovoce.
La più bella storia d’amore che si possa vivere
è quella con Dio.
Paramahansa Yogananda
Ideale di maggio suonare un adagio
violini e rosari concertano insieme
durante la messa corale dei grilli
nei borghi isolati governa l’assenza
che alliscia e battezza quattro anime quiete
sedute sul vuoto del tempo passato
lasciandosi amare dal sole che smonta
così come fanno le piante di menta
immerse in preghiera con la madreterra
coperta da un molle lenzuolo serale:
non è forse questa la meglio visione
che rende fattiva la resurrezione?
Lo spirito ha bisogno del finito per incarnare
slanci d’infinito.
Maria Luisa Spaziani
Cicale e bollori son figli di luglio
che quaglia giornate da vivere intere
se lasci da parte il bisogno arretrato
di mettere il dito nel buco che duole
cisterna in cui vanno a finire le mille
girandole sfuse del tuo labirinto
là dove è rimasto a muggire quel toro
mai sazio di sangue e di sogni azzoppati
a furia di sbatterli a destra a sinistra
sperando così di scansare la notte
eppure a tre passi fiorisce la quiete
cioè la più valida delle tue mete.
Ogni mattino sia per me un capodanno.
Antonio Gramsci
Dovunque è gennaio ci può stare l’alba
di un oggi assoluto che prima non c’era
vestito di forme piuttosto normali
non tiene bisogno di effetti speciali
per essere ciò che nel cuore germoglia
così proprio come il destino concesso
a certi momenti impastati col sale
che sanno pesare ogni sillaba umana
mettendo l’accento sull’ora presente
e poi se per caso succede la gioia
conoscono il giusto alfabeto per dire
che il nostro confine non può mai finir.
Lino Angiuli, Un altro tempo, Nino Aragno Ed. – TO, 2024
Lino Angiuli (Valenzano, 1946) Vive a Monopoli, dove ha diretto per la Regione Puglia un Centro di servizi culturali. Collaboratore dei Servizi culturali della Rai e di quotidiani, ha partecipato alla fondazione di alcune riviste letterarie, tra le quali il semestrale Incroci (Editore Adda), che co-dirige. Ha iniziato a scrivere all’età di 18 anni e attualmente ha all’attivo quindici raccolte poetiche in lingua italiana e dialettale. La terra in cui è nato è spesso spunto per i suoi lavori, ma in generale la vita tutta con particolare attenzione all’antropologia della parola e all’utopia. Molti i suoi lavori sul versante della valorizzazione della cultura popolare. Suoi testi poetici sono stati tradotti in altre lingue. Della sua produzione letteraria si parla in antologie, storie letterarie ed enciclopedie della Letteratura italiana.