Poesie per un anno 51 – Dino Campana

di Francesco Paolo Memmo

 

Ricorreva ieri l’anniversario della morte di Dino Campana (20 agosto 1885 – 1º marzo 1932). I «Canti Orfici», fatti stampare a proprie spese dalla Tipografia Ravagli di Marradi nel 1914 (ci furono poi numerose e più complete edizioni presso Vallecchi, a partire dal 1928), rimangono fra le opere fondamentali della poesia novecentesca nel momento del suo primo farsi, anche se il giudizio critico oscilla fra i poli estremi della supervalutazione (ad opera, per esempio, di Sanguineti) e il forte ridimensionamento da parte di un critico importante come Pier Vincenzo Mengaldo:

«Campana, ben altrimenti che preannunciare una nuova figura di poeta (orfico o avanguardista), prolunga – nella sua stessa dolorosa biografia – quella irrimediabilmente ottocentesca del poète maudit (e in questa veste piacque a Sbarbaro e ai lacerbiani), senza la coscienza necessaria per trasformare il suo autentico disagio della civiltà in vera contestazione dell’ordine o barbarie distruttiva. Probabilmente si può dire di lui quello che Debussy disse (a torto) di Wagner: che era un tramonto che poté sembrare un’alba».

Oggi capisco anche le ragioni di Mengaldo ma, per quel che può valere la mia personale vicenda, dico che fu proprio la lettura de «La Chimera», ai miei diciott’anni, a farmi innamorare (grazie, professoressa Morbidelli!) della poesia moderna.

Un’esperienza a parte è l’ascolto di Campana attraverso la voce di Carmelo Bene. Che lo considerava il più grande poeta italiano dopo Dante e lo contrapponeva al detestato Montale: «A chi mi decanta la grandezza di Montale poeta, rispondo (e infierisco) con i suoi stessi versi: Anima mia non più divisa, pensa: / cangiare in inno l’elegia, rifarsi, / non mancar più… Non sembra il testamento d’un crumiro dalla gotta incipiente? A Montale rispondo mille volte Campana, Eliot, Pound, Laforgue». Perché poesia è «risonar del dire oltre il concetto. È l’abisso che scinde orale e scritto. È suono svagato. Identità rapita. Intervallo tra due depensati pensieri. Che c’entra Montale con tutto questo?» («Vita di Carmelo Bene» scritta con Giancarlo Dotto, Bompiani, 1998).

Devo dire che, lasciando perdere Montale, raramente ho letto una definizione più pregnante e più bella di che cos’è la poesia.