TOLFA (484 m slm – 4942 ab., detti tolfetani) sorge sul fianco occidentale degli omonimi monti, a 68 km da Roma, non distante da Civitavecchia e dal mare.
IL DIALETTO DI TOLFA:
I vocabolari e le grammatiche
Ferdinando Bianchi, in Storia dei Tolfetani, analizza le caratteristiche fonetiche e grammaticali più peculiari:
a) L’uso esclusivo del genere femminile nel plurale di tutte le parole, anche di quelle di genere maschile e conseguentemente anche negli articoli. Es.: i preti, i maestri, i maschi, i fuochi, i cani diventano (con effetti talora esilaranti) le prete, le maestre, le maschie, le foche, le cane. I più anziani ricorrono alla forma in a (derivata dal neutro plurale latino): le pieda, le panna, le vasa…
b) Il congiuntivo dei verbi nell’imperfetto è sostituito dal condizionale presente nella forma alterata romanesca ebbe. Se io vorrebbe potrebbe (se volessi potrei). Anticamente era in ia: io faria, io dicaria…). Si tende in genere ad evitare il passato remoto ed a sostituirlo col passato prossimo o alterandolo nella prima persona plurale nella forma assemo, issemo, ecc.: annassemo, dormissemo. Il gerundio muta il suono tipico nd in nn: magnenno, currenno, ecc. Spesso si tronca l’infinito per cui una forma come essere diventa: chi te crede d’essa. L’infinito passivo si trasforma nel suono asse, es. guardasse per guardarsi. Il verbo essere viene, in certe voci, ad assumere il prefisso ad. Es.: ’ndov’ad’è per dire dov’è (più frequente ’ndadè). L’imperativo riflessivo assume il suffisso amese, emese: es.: guardamese, dicemese.
c) Il pronome di terza persona è sempre al femminile, es.: al mi marito le dico, e la particella pronominale ce sta a sostituire glielo, es.: ce l’ho dato. Per la fonetica è da notare la trasformazione dei suoni interposti –co-, –ca– e –go, –ga– in –que– e –gue– (pecora/pèquera; caccola/quaqquela; broccolo/broqquelo; pungolo/ pónguelo, ecc.); l’uso della –i– consonantica j al posto del gruppo consonantico -gl- (taglio/tajo; aglio/ajo, ecc.); la trasformazione del gruppo consonantico – nd– in –nn-, soprattutto nel gerundio; l’uso molto frequente della –n– rafforzativa (dove/ndove, già /ngià); nel (nne ’l); un forte uso di contrazioni ed elisioni (può/pò; vuole /vò; viene/vène, ecc.).; il suono tia, tio assume la dizione chia, chio, es.: cristiano/crischiano; la sillaba finale nio, nia come il suono ng viene alterata nella forma gno, gna, es.: ’Ntogno, demogno, magna per Antonio, demonio, mangia; la sillaba glia, glio, tende a diventare ia, io come peraltro gn, es.: moie, sbaio e ragno per moglie, sbaglio, raglio; il gruppo pl si trasforma in pr, bl in br e cl in cr; la lettera “l” fra vocale e consonante diventa r (svelto/sverto, scalzo, scarzo (rotacismo), la zeta è sempre raddoppiata nel suono.
Sul sito www.latolfa.com figura un dizionario con termini collezionati da don Rinaldo Copponi e Massimiliano Scoponi. Don Copponi ha pure attinto ad un lavoro di Balilla Mignanti e Iader Iacopini in parte pubblicato in un opuscolo tratto dalla rivista “Ponte”. Del dott. Marcello Chiavoni sono i nomi scientifici delle piante. Un glossarietto è in Bianchi, Storia dei Tolfetani.
Ecco alcuni vocaboli legati all’attività agricola, tratti dal sito www.latolfa.com:
abbòjelo (tamaro, virgulto commestibile), abbòrio (esposto a nord), acciuccià (sgualcire), ardello (intingolo di lardo e aromi), aribbrecquelà (girare e rigirare la stessa cosa), arràe (esclamazione di incredulità), arrimbrucinà (girare col mestolo), baciadònna (cardo), bagajone (tuttofare di un’azienda agricola), bagherine (donne corrieri dal paese alla città per servizi), bàquele (sporcizia anale), barzòlo o barsòlo (pianerottolo esterno che dà accesso ad un alloggio), bassette (pelli di pecore non conciate), battilonto (tagliere usato per il battùto), bevarone, o ’mbratto (pastone di semola e avanzi delle mense per maiali), birasse (rigirarsi), biriquòquela-o (albicocca, fig. buono a nulla), birràcchio (vitello dai due ai tre anni), biscino (uomo di fatica in una fattoria), biscorte (terreni pronti per essere seminati per la terza volta), bòcche (capanno per la mungitura delle pecore), bollàta (insieme di funghi ravvicinati), brinzolo (organo genitale dei bambini), bròcquelo (cavolfiore; fig. buono a niente), buzzètto (stomaco del maiale), cacalìppa (paura), cacunnìdo (ultimo nato della nidiata), cagnàccia (spossatezza), cagnarella (scambio di manodopera senza compensi), calandrella (canicola; tergiversare), capatòre (ingresso ad imbuto del rimessino che permette di selezionare il bestiame), capezzagna (solco d’aratro di rifinitura), capezzone (grossa cavezza munita anteriormente di seghetto che si mette alla testa dei cavalli da domare), capidifòquelo (alare), capocerro (parte cervicale degli animali), capòzza (bulbo es: capòzza d’ajo), carosino (addetto alla tosatura delle pecore), caròso (cavallo da uno a due anni), casengo (corriere in una fattoria), cassinétto (fustagno, detto anche pelle de diavelo), catafònno (catacomba; così è denominato il sotterraneo della chiesa di Sant’Egidio), catàna (borsa di cuoio), cazzola (ombra), cerasamarìna (frutto del corbezzolo), ciafregna (bambino/a vivace), ciafrocca ( schiaffo sonoro), ciardo (lucertola), coccòne (il tappo più grande della botte), coltrina (aratro con punta di acciaio quadrangolare appuntita), concallare (macerarsi, detto della lana), cormaréccio (vertice del tetto), curòja (straccio per pulire, cèrcine; le donne ponevano la curòja fra la testa e il boccalone per portare l’acqua), fonnabotte (palo di legno per aggiustare il fondo della botte prima di battere i cerchi), frocette (l’arnese di ferro che si appende al naso dei buoi), fuscella (corto ramoscello secco, per est. cesto di giunchi intrecciati), gavòzzelo (gomitolo), genìce (vacca di due anni), gina (territorio di mandrie bovine tenute all’aperto), grasceta (luogo abbondante di foraggio; aggrascetato: arricchito dal letame), gravuzzel à-asse, gravuzzela (ruzzolare, ruzzolarsi, capriola, caduta), gregarola (botte leggera), grègna (fascio di manipoli di spighe, covone), guidarello (montone con campanaccio che guida il branco), gumèra (punta di ferro dell’aratro), incastrino (recinto di legno stretto per marcare le bestie), irreòrre (indecisione, intrallazzo), làllera (ubriacatura), làsco (radura ombreggiata dove vanno gli animali nelle ore calde), làzzo (molto stanco; es: so’ stracco lazzo), lèfa (femmina di cinghiale), lèstra (giaciglio di cinghiale), lupéngo (relativo al lupo, fig. persona avida), maione (toro castrato che guida il branco con un campano), mandarìno (bue conduttore del branco, con campanaccio), mandriolo (recinto delle pecore munte), mattarella (pecora adulta sterile), mazzafetico (salsiccia di fegato), mazzafrùsto (strumento per battere le spighe), mazzanguela (lombrico), merànguela (arancia), merca (la marcatura degli animali; merco: marchio, su merce o bestiame), mezzagna (radura nel bosco), mòjelo (morbido, tenero), monnarella (diserbatura), monticatura (trasferimento in alpeggio del bestiame), moscetto (piccolo proprietario di bestiame), mostarèlla (spiaccicamento sul viso di una persona di un grappolo d’uva o di una fetta di cocomero), mungàna (mucca da latte), ’nciurmàto (irritato), ’ngàrla (profonda tacca su un albero da abbattere), ’ngréccio (al dente), panàcca (schiaffo, botta molto forte),
pàsquere, le, (altalena, capriole), patonzela (organo genitale di bambine), picchio (zappa a due lame contrapposte), picioquelo (tralcio di vite), plònchise, prònchise (giaccone, pastrano), portabòzzo (manovale di muratore), precòrio (sporcizia, confusione), purupupàzza (fiore di papavero), quaquaruia (cacca lenta), rapazzola (lettuccio di legno o giaciglio povero di erica e paglia per capanne), rànfa (grinfia, germoglio del pungitopo), rasela (filari o ordini di viti), ruciasse (atto del somaro o del cavallo che si gratta strusciando la schiena per terra), rugà (rugare, comportarsi con arroganza), rumeriàsco (allumierasco), rubbio (unità di superficie equivalente a mq. 18,480), sbacchiatura (separazione forzata fra pecora e agnello), sbegolamento (lamento degli animali), scafa, scafata (fava fresca nel baccello; minestra di fave fresche), schìfo (recipiente di legno per pulire e scegliere i cereali), scilamàta (smottamento, zona franosa), scotta (residuo sieroso che rimane dopo fatto il formaggio o la ricotta), serta (lungo giogo a quattro posti), sgamollà (potare a fondo), sguìrguela (virgola, schiaffo), sibbibbasse (sopportare), somaro ( gancio a forma di forca e girevole), sovatte (striscia di cuoio per cinghie o finimenti), spoetà (cantare poesie a braccio), sprenatura (spremitura), stàcca (cavalla da due a tre anni), terranera (lavoro agricolo consistente nello zappare la terra prossima alle radici durante l’inverno), trocchio (tronco cavo riempito di sale per le pecore), vaccina da corpo (vacca da carne).
2. I proverbi e i modi di dire
In Ingrata… di Balilla Mignanti segnaliamo la poesia “Ottave che rispecchiano detti e proverbi”, che di essi è per intero composta:
N’se ponno fa’ le nozze co’ le fonghe!… / Caro bello!… Ce vonno le quatrine!… / E po’… le bijettone… quelle longhe… / mica le nichelette e le sordine!… / Le manarelle… è l’ora che l’allonghe… / – ’sta vorta… hae da sarta’ le tu’ confine!… / Si nu’ le sarte… armeno pe’ ’sta vorta… – / rischie d’arimane’ for de’ la porta! // Scortonno… pure … le fave all’alocco; / ’n see capace de fa’ ’l pane crischiano; / un maccarone… stra strozzanno… gnocco;… / see più ’gnorante tu… che ’l lume a mano! / È de’ la terra… lo soneno… a tocco;… / ’sto pretarello… e’ ’n mezzo sacrestano. / Le parente… so’ come le stivale:… / più te so’ strette… e più… te fanno male!
Ne Lo Scojo… di Mignanti proverbi e detti formano il cap. XV, da cui preleviamo:
’l vino bono e l’omo bravo, dureno poco; La fortuna le curre appresso col bastone; La farina del diavelo se la porta via ’l vento; Scortò l’onto a barzotto che l’aviva arto sette solare!; Nel terreno mojelo tutte ce pianteno ’l palo; Beve come ’n curato e magna come ’na prusiana!; Chi se confonne co’ le frasche, la pignatta pija de fume!; Dio te guarde da la donna, da chi è omo e porta la gonna, da bizzoche e colle storte, quelle te fregheno da vive e da morte, po’ da quelle che fanno: gne, gne, liberamos Domine!; Le cose troppo longhe diventeno serpe; Chi alleva ’n fijo, alleva ’n porco!; Si ’nde quella casa entra ’n sorcio… scappa via piagnenno; La mosca d’oro gira gira, po’ va a casca’ su la merda; Consijo de gorpe… stermigno de galline; Cià ’na lengua longa che ce se potrebbe batta l’onto; Acqua cotta spreca pane e trippa abbotta.
Numerosi pure proverbi e detti nella Storia dei Tolfetani di Ferdinando Bianchi, dal celebre t’ammazzo e vò alla Tolfa a … le lumierasce so’ tutte brigante / e vanno in giro co’ le barbe finte. E ancora: so’ arrivate le burine co le zappe e garavine. 1 Mettese a cazzola era il modo di dire riferito specie alle vecchiette che spetteguelaveno con l’immancabile calza in mano sul barsòlo. 2
Da Bianchi citiamo ancora:
a la Rocca / ce piove e ce fiocca / e quando è bon tempo / ce tira ’l vento; nun fiocca bene si da la Corsica nun vene; a le quattro d’aprile canta ’l cucco… (per dire che son finite le scorte invernali; il poeta Giacomo Belloni cantava: A le quattro d’aprile canta ’l cucco / a casa nostra a marzo ngià ha cantato, / avesse ’nteso tu che canto brutto / pareva proprio le mancasse ’l fiato…); Quanno la Rocca se mette ’l cappello / vatten’a casa e pia l’ombrello; Montagna chiara e campagna scura, / cammina sempre e nun avè paura; L’anno è lungo e ’l porco è ciuco (disse la tolfetana al figlio che voleva mangiare una salsiccia in più); Chi prima ’ndenta prima sparenta; Panza pizzuta porta cappello (alle donne incinte perché si presume che nasca un maschio); ’L brodo nun fa stronze; Gnente fa bene all’occhie e male a le dente; È ’ncazzato come ’na sorca; prete, toscane e passere, ’ndove le trove ammazzele; Tutto fa, disse quello che pisciava a mare; Sole de vetro e aria de fessura, porteno l’omo a la seportura; La vanga ammazza e ’l picchio t’assotterra; Aiutete poeta fino a Pasqua, / che doppo Pasqua ogni poeta abbusca; ’L giusto fu ’mpiccato a la Storta; Che te crede che se frigge co’ l’acqua?; / mejo galletto de Sant’Eggidio che somaro da carreggio (meglio far la fine del galletto ucciso nel giorno del santo patrono che la fatica del trasporto del grano); Chi vo conosce la gente barzana / vada a Oriolo, Canale e Manziana.
3. I toponimi e i soprannomi
Valliccetta, Posatore, sono località di TOLFA, bagnata dai fiumi Lenta e Mignone, che con i toponimi dei rioni tolfetani sono spesso citati nei testi dei poeti o nei detti popolari, come ad es.: si te voe magnà la carne / Pozzo de Ferro e Monte Granne (perché luoghi di caccia; come Campo Cerviale). Molto citati anche i lavatoi: Canale, Lizzera, Limojola e Pisciarelle. F. Bianchi nella Storia dei Tolfetani riporta 23 località in cui nel 1807 era consentito di far legna, tra le quali Freddara, Granciare, Monte dell’Acqua Tosta, Valle Ascetta,, Valle Gioncosa, Maniconi d’Ascetta, Prato Cipolloso, Poggio Felcioso… e riporta una descrizione dei terreni del 1780 suddivisa in terreni comunali (tra cui: Castel dell’Asino, Ara Vecchia, Bandita dei Bovi, Sbroccate, Cetraulle), camerali (es.: Banditella, Puntine di Carnovale, Puntone d’Asco, Spizzicatore), tenute camerali (Maniconi d’Accetta, Prato Rotatore, Monte Cupellaro), tenuta del castello di Rota (Terzolo, Radicata, Seccareccio, Montisola).
Nella poesia “Li soprannomi” Ugo Zenti ne elenca ben 314. Ne citiamo alcuni: Peppecofena, Peppinorovina, Peppeculò, Peppededo, Peppettà, Peppaceto, Totorocchi, Totopallì, Totolo, Totolimò, Totopallò, Totosecco, Totaja, Totolmuto, Cacarella, Cacalletto, Cacone, Cacasego, Cacandosso, Cacante, Cacarìa, Pollo col Tordaro, Cranciotenero, Nottela, Merendò, Pappafredda, Infirsafichi, Ghighetto, Scafetta, Panemollo, Lobbilobbi, Cantabbè, Tittilò, Sequatrì, Nannamoro, Perché, Tanganello, Pitòla, Callararo, Furcinaro, Tuttorumbotto, Sbragato, Bucoruzzeno, Tarragò, Rubbapane, Buttajù, Cipicchia, Carzafina, Paccaloffe, Arzalaneve, Bunnannà, Tigamona, Giggelò, Bobbaro, Lemmelemme, Saraghetta, Geppò, Patremuraja, Bujòlo, Magnamerda, Patacchella, Bucoliscio, Puzzaculo, Sguicelella, Batocco, Pippitò, Trapino, Tajacollo, Zezzé, Trentavizzie, Garibbà, Petazza, Tiritò, Chicchindozzi, Monnezza, Cascanterra, Moccicodòro, Stampabucì, Zunzù, Macisti, l’Ammalato, Jobbisotto, Fischialaquaja, Fuggifarco, Sguinzaja, Fativoi, Mazzafrusto, Bambolinaro, Piciocquelo.
Interessante è notare l’evoluzione radicale dei nomi delle persone rispetto a quelli in uso negli anni Venti del Novecento.1
Riportiamo la divertente poesia “’L soprannome” di Ettore Pierrettori:
’N paese se va avante a soprannome, / ce ne so’ tante che se perde ’l conto. / A vòrte ’l nome c’è, manca ’l cognome, / come, presempio: «Hae visto Peppe ’l tonto?» // ’L forestiero n’ potrebbe capì’ come / ’l signor Rossi pò diventà “Panonto”, / o n’ se la sente de ridi’ quel nome, / pensanno de commetta quarchi affronto. // Da ’na guardia ’n passante va diritto: / «’N po’ de sarcicce bòne?», sverto chiede. / «Va’’n quel negozio llì, da Cacaritto!» // Quello entrò: «Scusi, è lei che la fa ’n piede?» / «Si!» l’arispose e l’occhie arzò al soffitto: / «Ma quarchi vòrta la fò pure asséde!».
(Cacaritto: soprannome di un norcino allumierasco).
La Compagnia del S.S. Nome di Dio registrava nei libri contabili le vacche col proprio nome. Ecco i più curiosi:
Spicchincera, Principina, Lerva, Seccaticcia, Giotta, Capodora, Scapelliata, Bellafiorita, Sorchettina, Cianchelletta, Fornara, Borghettina, Piattella, Lizzerara, Larguccia, Forbicina, Pennacchina, Frascatora, Negruccia, Scuretta, Vedovella, Mancinella, Commoda, Cavarola, Bambacina, Flemma, Bellapiaga, Cavarola, Zenzerina.
4. Canti – filastrocche-indovinelli – giochi – gastronomia – feste&sagre-altro
Feste e sagre. Feste: di Sant’Antonio Abate (17 gennaio), della Madonna di Lourdes (primo weekend di luglio), dell’Assunzione (15 agosto), patronale della Madonna delle Grazie (8 settembre). Sagra della Bistecca (penultima domenica di luglio). Festa della Birra (ultima domenica di luglio). Palio dei Rioni e dei Somarelli (3 agosto). Palio delle Contrade (domenica successiva al Ferragosto), con sfilata in costume. Sagra del Pane Giallo-Festa d’autunno (seconda quindicina di ottobre) con: castagne, miele, funghi, carne maremmana, pane di grano duro e tartufo.
4.1 Canti
Numerosi sono i Canti nella mietitura e gli stornelli che si cantavano nei campi, accompagnando i vari lavori.1
Alcuni esempi di Canti nella mietitura:
E si sapivo c’adera lo mete (ripet. 2 volte) / da piqqueletto m’ero fatto frate. // Si la patrona nu lo porta ’l vino (ripet. 2 volte) / piamo pe la strada e se n’annamo. // Cara patrona ’l vino sa d’aceto (ripet. 2 volte) / si nu lo cambie no’ aridamo arreto. // Cara patrona ’l vino l’hae cambiato (ripet. 2 volte) / prima era poco adesso s’è asciugato… // E chi te meterà, grano granone (ripet. 2 volte) / e te meterò io ’nsieme al mi amore. // E chi te meterà, grano, granone (ripet. 2 volte) / si nun te meto io manco ’l patrone. / E ’l prete dice al popolo diggiuna (ripet. 2 volte) / perché lu’ ce l’ha la panza piena. // Quanno che ’l metitore mete ’l grano (ripet. 2 volte) / le pare de volà nel paradiso / la farcia le diventa un filo d’oro (ripet. 2 volte) / e ’l paradiso è tutto nel granaro.
4.2 Filastrocche, indovinelli, invocazioni, scongiuri
Da Storia dei Tolfetani di F. Bianchi alcune filastrocche:
Gennaro zappatore, Febbraro potatore, Marzo broqquelaro, Aprile cerasaro, Maggio fiorellaro, Giugno fruttarolo, Luio agrestaro, Agosto persicaro, Settembre ficaro, Ottobre mostaro, Novembre vinaro, Dicembre favaro. (…) Piove e pioviccica / la paia s’appicica / s’appiccica la lana / fia de ’na biedana. (…) Ecco la fiocca / ’l lupo sta a la Rocca / la vecchia sta alla Ripa, / se spurcia la camicia / ’l gallo sul tetto / che sona ’l ciuffeletto / ’l sorcio su pel muro / casca giù e se roppe la chiappa del culo. (…) Luneddì preparo le conte / martedì so’ belle e pronte / mercordì è San Clemente / giovedì ’n te vedo pe gnente / vennardì è viggiia stretta / sabbeto domane è festa / e si domenica nun t’ho pagato / lunedì aricominciamo da capo.
4.3 I giochi
Un inventario di giochi tolfetani è in Storia dei Tolfetani (pp. 571-574) di Ferdinando Bianchi. Balilla Mignanti ne Lo Scojo nel capitolo “Come si divertivano i bambini” (pp. 40-46) ricorda che “ci si divertiva con un nonnulla! 5 o 7 sassolini, lisci e rotondi, di fosso o di mare (liscetti), potevano far divertire per delle ore un gruppo di ragazzette; liscetto si chiamava questo gioco; in mancanza di sassolini si usavano gli ossi di pesche, le noccele…” E. Pierrettori intitola “Quando se giocava co’ le noccele de pèrsica” una poesia con i giochi di una volta:
’L gioco è finito mo del gruzzelone, / adè passato ’l gioco del picchetto, / che se giocava a bòtte de bastone / al tempo de quann’ero regazzetto. // Curréve pe’ la strada col cerchione, / faceve col sambuco lo schioppetto, / col nòccelo de pèrsica ò prugnone / ciarsàve, pe’ sbragàllo, / ’n castelletto. // La stama co’ la canna e co’ la lana, / a «ppè» co’ le bottone del cappotto, / ’bbastava ’n sasso pe’ gioca’ a campana! // ’Sto giocarèllo ’nvece mo s’è rotto, / a vo’ ve c’è rimasta la catana / e ’na gran fumicara doppo ’l bòtto.
Nelle sue note ci offre un’analitica descrizione di questi giochi e del pìquelo (trottola).
Un confronto tra i giochi di un tempo e quelli odierni è nel libro Tra immagini e memorie dei Monti della Tolfa dell’Istituto Comprensivo di Tolfa.
4.4 La gastronomia
Il piatto tipico della cucina tolfetana è l’acquacotta, 5 zuppa di verdure della Maremma tosco-laziale, diversa dalla ribollita toscana, con molte varianti stagionali, preparato con verdure coltivate o di campo, alle quali va aggiunto il battuto (lardo di maiale) e la persa (maggiorana), il tutto versato in una scodella con alla base alcune fette di pane di grano duro. Di Antonio Pizzuti, riportiamo la poesia “L’acquacotta” e l’elogio di due piatti tipici “Le frascarelle e le ghighe” (In Canti e versi dei Monti della Tolfa) :
Dal tempo antico a Tolfa c’è un’usanza, / far l’acquacotta ai tolfetan gradita, / ed io illustrerò questa pietanza / come viene fatta e come vien condita. / Patate con cicoria in abbondanza / fagioli, zucche con cipolla trita / e poi si batte il lardo con l’aietto / e se mette a bollì nel callaretto. // Più buona vien con il pomodoretto, / qualche carciofo e del peperoncino, / la persa nel battuto, il broccoletto / e per bevanda un buon bicchier di vino. / In fin nella scodella il pane affetto / e tutto quanto porto a tavolino; / tal pasto è profumato ed è eccellente / che piacerebbe al re e al presidente. A la Torfa ’st’usanze so’ sparite / de magnà ghighe co’ le frascarelle, / eppure ereno bone, saporite, / se magnaveno guase a crepapelle. // Ereno piatte antiche, ma squisite, / e speciarmente pe’ le poverelle; / mo’ che semo ’n po’ ’ncivilizzite, / non c’è nessuno ch’a rivò fa’ quelle. // Ereno fatte d’acqua e de farina, / serviveno de primo e de contorno, / peccato che ’n c’è più chi le cucina. / Che calle calle, senza falle al forno, / ereno ’na pietanza genovina, / meio de le spaghette d’oggigiorno.
(frascarelle: piatto tipico allumierasco e tolfetano fatto con farina e acqua non impastata; ghighe, allumierasco: beghe, strozzapreti: pasta fatta di acqua e farina, mantecati in padella con un sugo composto da pomodoretti, aglio, olio, peperoncino ed erbette selvatiche varie).
Il panonto era un piatto tipico dell’inverno: pane di grano duro, salsicce bianche e nere, guanciale, pancetta, braciole e costarelle di maiale condite con sale e finocchietto selvatico. A mano a mano che la carne cuoce inserirla e schiacciarla tra le fette di pane, in modo che vi lasci parte del condimento e il grasso della carne (pane unto, o panonto).
Di un altro piatto della cucina povera tolfetana nella poesia “La trista” (in La Tòrfa dal barsòlo) un padre dice alla figlia studentessa: «Questa è fatta pe’ le gente da sòma, / lo sapevo che n’ è ròbba per te; / ma si nun magne que’ ’l picchio te doma, / se chiama trista e è triste come me. // ’N po’’ d’acqua e sale dentro ’na piletta, / ajo e mentuccia e, doppo ch’è bollita, / se ’mpàneno du’ fette de bruschetta».
La vigilia di Natale ed il Natale erano occasioni irripetibili in cui oltre alla religiosità esplodeva il soddisfacimento di voglie (represse per tutto l’anno) di cibi molto molto speciali.
Da La Tòrfa dal barsòlo di Pierrettori in “La viggìja de Natale” ecco quali:
(…) Doppo del credo co’ la litania / c’è pasta e cece… pe’ fa’ divozzione; / pel babbo, pe’ la mamma e pe’ la zia / da sotto ’l piatto scritto esce ’l sermone. // Apprèsso al misto, fritto sul fornello, / de gòbbo, baccalà e de patata, / c’è ’l bròcquelo lessato e ’n torroncello // e pe’ trascórre’ ’nsième la nottata, / intanto ch’aspettàmo ’l Bambinèllo, / facémese ’na bella tombelata!
Balilla Mignanti (in Ingrata…) ci ricorda “La merennella de Pasquetta”:
Ogge senti’ parla’ de merennella / sente puzza de muffa e de stantivo, / però, mentre che a spizzico la scrivo / nel core me se pia la tremarella. // Forse sarà… che mentre la descrivo… / me pare… d’avè n mano la padella / e… l’abbojele drento la scudella… / nel mettela sul fojo la rivivo. // L’abbojele ’n padella, la frittata, / col vino casareccio ’n salametto… / du’ balle… du bacette… ’na cantata. // Come te poe scorda’ dell’età bella / e le sciocchezze de quella giornata?… / Stantiva… sì!… Ma cara “merennella”!
Era brusco il passaggio dai ricchi cibi della festa a quelli (sò cose amare e tutte ’n pò’ salate… poche speranze e tante delusione) che trovavano posto nei giorni feriali “Nde le bisacce e dentro a le catane” (da E. Pierrettori in La Tòrfa …):
«Ciàe messo tutto dentro a la catana?» / «Nde le bisacce è quello che n’ c’è entrato / de la tu’ spesa de ’sta settimana / e pure ’l vino te ciò sistemato; // l’òjo è nde ’l corno e l’onto adè ’ncartato, / c’è ’l pane e ’n pò’ de pizza a la biedana; / pel panonto ’l guanciale t’ho affettato / ché la ventresca ce l’avémo sana». // Ma quante cose so’ngià preparate / che vanno a completa’ ’sta provviggione, / sò cose amare e tutte ’n pò’ salate. // Nde le bisacce bianche de cotone / e dentro a la catana ce so’ entrate / poche speranze e tante delusione.
(spesa: vettovagliamento; onto: lardo; pizza a la biedana: pizza rustica).
5. I testi in prosa: il teatro, i racconti
L’incontro dell’Istituto Comprensivo di Tolfa con il poeta locale Antonio Carolini ha provocato l’idea della trasformazione di una profaguela (il racconto di Giucca Matto) in forma teatrale, attraverso la trasposizione di Alessandra Compagnucci la quale ha curato il copione (edito nel 2007) che è stato rappresentato dagli alunni del Laboratorio teatrale della scuola. La storia di Giucca Matto è un insieme di piccoli episodi di dabbenaggine del giovane protagonista capace di combinare infiniti disastri. La profaguela tuttavia si conclude con un esito felice quanto sorprendente.
Nella rappresentazione emerge lo scopo fondamentale di questi racconti popolari: lenire con belle storie e la fantasia la cruda realtà della fame imperante.
Segnaliamo anche il racconto in dialetto di Marcella Copponi sulla sua esperienza di sarta nel libro Mestiere ’n fottografia.
6. I testi di poesia
I poeti a braccio dei Monti della Tolfa
Il rammarico di Balilla Mignanti, espresso in Verba manent (p. 110), di non essere riuscito, nelle sue lezioni nelle scuole di Tolfa, a far diventare poeta estemporaneo nessun allievo, si rivolge al contesto odierno, inadatto al poetare:
Purtroppo nessuno è diventato estemporaneo. Perché non la vivono. Perché la poesia nasce da la sofferenza, dal dolore, dal trauma de la bellezza, da lontano. Manca l’habitat. Si diceva una volta a Civitavecchia: “Perché non vengono più certi animali come la quaglia?” C’è ’l cemento. Manca l’habitat. A tutto ciò che manca l’habitat, manca la vita. Manca la spontaneità. Qui da noi manca la campagna, perché il poeta nasceva all’osteria, ma la prima fonte di vita della poesia è la campagna, mettiamocelo in testa.
Perché tu stai a tu per tu co’ la natura, essendo parte stessa de la natura; trovi lo sfogo verso l’altra parte naturale o prendi da la natura stessa materia prima di esporre. Pe’ uscire, pe’ dire, pe’ cantare, serve questo. Mancano i luoghi. Certo che mancano. L’osterie. (…)
Nel 1983 Eugenio Bottacci con il libro Estemporanea, pubblicato dal Circolo culturale “Giacomo Belloni”, avviò un’opera tesa ad evitare la dispersione e la caduta nella dimenticanza di una modalità di fare poesia che per secoli ha caratterizzato alcune regioni dell’Italia centrale. In esso veniva pure simulata una serata tipica di poesia a braccio, con testi che i poeti (Belloni, Cai, Colotti, Landi, Londi, Mariani, Pizzuti, Romanelli, Sfascia, Tagliani, Vietti e Vincenti) avevano scritto, senza tuttavia deporre il loro abito mentale di improvvisatori.
Nel 2003, a distanza di 20 anni, nel volume Verba manent. Pensare e Sentire i Poeti a Braccio dei Monti della Tolfa, Alessandra Compagnucci e Marco Amabili, racchiudevano i risultati di una ricerca sul campo, in particolare nelle cantine, trascrivendo le poesie esattamente come erano state cantate, inclusi gli errori formali, dovuti alle diverse capacità espressive dei singoli poeti. L’obiettivo era di dare un’idea, la più precisa possibile del canto a braccio, anche se – sottolinea Bottacci nella prefazione – il modo più idoneo per apprezzare la qualità e l’originalità dello stesso “resta quello di ascoltare i poeti dal vivo”.
Un lavoro encomiabile, quello svolto da entrambe le pubblicazioni e da altre, citate nel testo di questo libro e in bibliografia, alla luce della rapida scomparsa di ambienti fisici e culturali che hanno accolto nei secoli scorsi la poesia a braccio (l’osteria, le capanne dei pastori e dei contadini, i lavori nei campi e da ultimo le esibizioni nelle piazze, divenute sempre più rare). I più grandi interpreti del Novecento sono o scomparsi o si sono ritirati dall’attività a causa dell’avanzatissima età e, constata amaramente Eugenio Bottacci:
non hanno lasciato eredi all’altezza della loro arte e sono difficilmente rimpiazzabili; ed è difficile immaginare un interesse delle giovani generazioni, figlie di un altro mondo, a riprendere l’intenso e faticoso studio di classici in ottava rima, le lunghe esercitazioni individuali e gli ‘scontri’ poetici con i colleghi, che costituivano la base formativa dell’improvvisatore.
“Improvvisazione in ottave: quale futuro?” è un capitolo del libro Verba Manent in cui si avvicendano i pareri, espressi in ottava rima dei poeti, Franco Finocchi, Mario e Agnese Monaldi, Bruno Moggi, Balilla Mignanti e Pompilio Tagliani. Nello stesso libro, viene ricostruito un quadro abbastanza esaustivo della realtà del canto estemporaneo nel territorio dei Monti della Tolfa. Il volume è diviso in due sezioni. La prima è articolata in otto capitoli: i primi tre contengono riferimenti storici e danno indicazioni sulla forma di questa poesia, dal quarto all’ottavo vengono illustrati l’iter formativo del poeta, la funzione dei maestri e dei modelli e delle condizioni necessarie alla produzione poetica estemporanea. Oltre a questo vengono definiti i luoghi presenti e passati della poesia a braccio e la funzione del cantore tra Natura e Cultura. La seconda è la parte documentaria (racconti e spiegazioni rese dai poeti, narrazioni autobiografiche, tratte da interviste e che sono state riportate in dialetto per conferire loro maggiore realismo). Questa parte che contiene anche la trascrizione commentata di due incontri svoltisi in una cantina di Tolfa, si chiude con una improvvisazione in ottave sul tema di quale futuro attende la poesia a braccio dei poeti F. Finocchi, Mario e Agnese Monaldi, B. Moggi, B. Mignanti e P. Tagliani. In appendice sono riportati contributi di Antonello Ricci, Fulvia Caruso, Gianni Ciolli e Enrico Rustici e vengono ricordati con alcune ottave quattro grandi poeti estemporanei tolfetani.
Noi compiremo un rapido viaggio tra i protagonisti di questa forma di poesia attraverso alcuni loro significativi testi, attingendo anche al già citato Estemporanea di Eugenio Bottacci, nonché ad altri volumi antologici come Brezza sul monte, Canti e Versi dei Monti della Tolfa.
Bartolomeo (“Meo”) Battilocchio (1875-1952) è, a detta di tutti i poeti estemporanei, il maestro e il modello oltre che un “mito” per i cultori di questa forma di poesia. Nel 1904 il comune di Tolfa rilasciò a lui, merciaio e poeta, un documento per l’esercizio del mestiere di Cantore ambulante. Abile verseggiatore, diffusore di libri e fogli volanti anche delle sue ottave, nonché maestro e stimolatore di poesia, nei primi decenni del Novecento ha contribuito ad irradiare nell’Alto Lazio la poesia a braccio. Nel libro I giorni cantati (Circolo culturale “G. Belloni”) sono riportate 12 ottave sul tema “Grandezza italiana”.
Balilla Mignanti nel suo Lo scojo… così lo ricorda:
“Era un estemporaneo puro, Meo: machiavellico, burlesco, istrionico, astuto; sapeva cogliere a volo ogni occasione che gli si presentava; aveva chiusure d’ottava secche, significative e di grande effetto. Esponeva in piazza un banchetto di cianfrusaglie: fischietti, pupazzetti, trombette; per i grandi un tiro a segno a piumini; oppure spandeva in terra una coperta militare da campo, con sopra articoli da pochi soldi: magliette, camicie, roba presa in qualche asta fallimentare, tanto per attirare la curiosità dei passanti, ai quali cantava e vendeva le storie da lui composte. Per dare un’idea di quanto fosse solo un pretesto la vendita di camicie e magliette, una volta che un Tizio ebbe l’idea di acquistare una di queste camicie, per pochi baiocchi, si trovò fra le mani una camicia talmente lunga, che gli sarebbe meglio servita per fare il fantasma; da quel giorno è restato, in Tolfa, il detto: ‘Longa quanto la camicia de Meo’ per indicare delle cose lunghe da non finire, noiose. Il nostro Meo aveva ottenuto uno speciale lasciapassare come cantastorie, per potersi esibire liberamente in tutte le piazze e fiere d’Italia, firmato addirittura dall’allora re Vittorio Emanuele Terzo; ne andava fiero e lo sbandierava con orgoglio. (…) Se aveva avuto sentore che Minandri, Pizzuti (padre), Toto de la Ginevere, Sfascia, Peppajè, stavano in qualche fraschetta a “spoetà’”, “micio micio” scivolava lungo scorciatoie e raggiungeva, bellicosamente è il caso di dire, l’ambita comitiva, che l’aspettava in quanto, proprio in occasione della sua presenza in Tolfa, aveva intavolato il canto.”
Giacomo Belloni (Tolfa 1863-1944). Dotato di buone capacità di improvvisatore, le sue poesie sono semplici e riflettono in modo realistico scene di vita quotidiana. I suoi versi sono stati trascritti fedelmente dal figlio Luigi secondo la dettatura del fratello Merlino che li ricorda praticamente tutti a memoria. In Estemporanea è presente un suo ricordo con note biografiche e alcune poesie in lingua e in dialetto. Ecco una sua ottava intitolata “Il somarello”:
A cavallo ce vò sul sumarello, / pe’ strada me se ferma ad odorare, / me tocca a fa’ le vice da munello / che si nun odora se mette a pisciare / poe se rigira come un farfarello, / vede una miccia (asina) e si mette a ragnare, / co’ la capezza in man voce alterata / avoia tu a menà, fa ’na risata.
Di Domenico Acciaroli (Tolfa 1912-1998) sono pubblicate in Brezza sul monte ottave in italiano e in Verba manent è riportata un’ottava in dialetto, ricordata a memoria dalla cugina del poeta, Caterina Acciaroli, intitolata “Le capellone”:
Ancora nun se sa con sicurezza / qual è lo scopo de ’ste capellone, / si è pe’dà risalto a la bellezza / o si anna’ ’n giro a falle le buffone. / Le vojo di’ proprio co’ franchezza, / c’hanno l’aspetto de le bastardone. / A chi le vede metteno spavento, / vonno fa’ le frate senza sta’ ’n convento.
Antonio Pizzuti (Tolfa 1920-1979). È presente in Estemporanea, con un suo ricordo e con alcune poesie in italiano. In Brezza sul monte, figurano due poesie in italiano ed una in dialetto “La fraschetta”, in cui rievoca un luogo privilegiato del canto a poeta:
A Torfa, quanno c’era la fraschetta / ce se beviva ’l vino torfetano / dell’Aravecchia, quello del Marano, / Bardone, Pian di Neve e la Lametta. // De Pian de’ Santi, de la Parentina, / del Cavalluccio, Lizzera, la Mola, / de Piancisterna e de la Torficciola; / insomma tutto d’uva genuina. (…) Così s’annava a fa’ la merennella / in quell’ambiente e a beve ’na fojetta, / se raccontava quarche barzelletta, / fra’na risata ed una bevutella. // Infine, spinte un po’ dall’euforia / e da quell’estro innato bernescante, / facivemo silenzio tutte quante / pe’ canta’ ’n po’ de verse ’n poesia. // Cantavemo d’Orlando paladino, / de Rinardo, de Gano, Ricciardetto, / d’Achille, de Ruggero e ogni pochetto / se tracannava un bel bicchier de vino. // Il vino certamente dava brio / e ’nteneriva l’animo col core; / allora il canto, come fosse un fiore, / cresceva d’entusiasmo e de desio.
In Canti e versi dei monti della Tolfa figurano testi in dialetto di Antonio Pizzuti, due dedicati a: “L’acquacotta di Tolfa” e “Le frascarelle e le ghighe” (vedi la nostra sezione Gastronomia), un altro è dedicato ad un animale domestico: “La gallina” che si conclude con “t’ammazzo, poe te spenno e ce fo ’l brodo”. In “Via Roma” si scaglia contro il degrado del corso principale di Tolfa.
Franco Finocchi, (Tolfa 1938) poeticamente è nato dalle osterie dove si è fatto poeta, cantando scherzosamente con i compagni di poesia, gruppi di amici, misurandosi con i più bravi per migliorare e crescere. Afferma Finocchi in Verba Manent:
“Pe’diventà poeta ce vonno trent’anni. C’è sempre da ’mparà’. Penso che poeta è ’na parola grande, io direbbe ‘bernescante’. Poeta è Marino, poeta è ’l Tasso, queste qui. Poeta ce se diventa co’ l’allenamento. Bernescante, ’nvece, col pratica’ i compagni migliori, non quelle peggiore perché con quelle peggiore ’nvece de ’mparà ce se spara!”.
E attraverso il confronto e la lettura dei classici e il confronto ed il contrasto in versi su temi dell’attualità, Finocchi è poeta completo e pronto ad affrontare qualunque tipo di contrasto. Insomma, bernescante, ma solido. Capace di improvvisare ottave sulla love story di Milingo e Maria Sung e “pe’ ricordà la trebbiatura”:
Dal bando si sentia la trebbia parte, / da Sant’Onzino a Valliccetta viene. / Meno male che lì ce l’ho tre parte, / speranno che quest’anno me fa bene. / E l’operaie col suo modo e l’arte, / la metà è già finita ecco le pene, / perché sapete tutte come usava: / tutta la trebbiatura se pagava. // ’L grano a starallone si misurava. / Ed eccoti il padrone del terreno, / ’l barbiere, ’l carzolaro ecco arrivava, / e quello staro lo voleva pieno; / il frate cercatore, ahi, lui cercava / e l’altro prete nun ne po’ fa’ a meno. / Ecco la trebbiatura quell’antica, / ar contadino solo la fatica!
Bruno Moggi, detto Brunetto (Tolfa 1914-2006), in Verba manent rivela come si manifestò il suo amore per la poesia:
la mi ma’ venneva’l vino e allora c’ereno tutte poete più granne che cantavano. Io, me piaceva. Daje ogge, daje domani, quanno avevo dodici anne e mezzo ’ngià cantavo le poesie. E io ero giovanottello quanno ho cominciato a fa’ le gare ’n piazza. Ereno di più de adesso (…) Se cantava tre o quattro vorte all’anno a Torfa. Io so’ nato proprio poeta estemporaneo. Se ve l’ho da di’ quarche poesia, ve la dico. A voja quante cose me ricordo, le poesie ce n’ho’n mare’n testa”.
Autodidatta, si dedicò poi con passione alla lettura di libri classici e mitologici: “me piace assae la mitologia greca e romana… Ho studiato ’l Boiardo, ’l Petrarca, Giacomo Leopardi, ’l Tasso.”
Ottave in lingua sono in Canti e versi… e in Brezza sul monte in italiano e in dialetto misto ad italiano, “’L somarello”, “La donna spennellata” e “Er vignarolo”:
Oh, che brutto mestiere che hai capato, / tu vignarolo che a la vigna vai! / Durante l’anno spesso sei infangato, / la vigna te ne dà molti di guai. / Dalla grandine vieni martellato, / poi vien la malattia ch’è brutta assai, / pronospera, tignola, acetone: / assai lavoro e poca produzione!
In Verba manent il capitolo intitolato “Bruno Moggi, il Grande Vecchio” è ricco di molti spunti e di esemplificazione della sua abilità.
Antonio Carolini è nato nel 1919 a Tolfa, dove ha svolto la professione di calzolaio. Ha fatto parte del Circolo culturale “B. Battilocchio” di Tolfa. Da Canti e versi dei Monti della Tolfa, citiamo “Il Banditore”:
Un apparecchio poco complicato, / ’na macchinetta e ’n amplificatore, / fa quello che faceva un banditore / in meno tempo e senza troppo fiato. In antico c’era Pietto che, con “quella trippa, urlanno a perdifiato” partiva dalla piazza e arrancava per le “scalinette e Prato” fin su al “borghetto” . (…) Poi, per racimolar qualche cosetta, / e arrotondar la misera pensione, / me lo ricordo, con tanta afflizione, / fu ’l mì bà a pijà quella trombetta. // Altro mestiere nun poteva fare, / perché d’en piede adèra mutilato / il braccio sinistro avea amputato / buttava ’l banno pe’potè campare // Quella trombetta ho ’n casa, e con dolore / la guardo, e vedo in essa ’l vecchio amato / e l’ultima eco d’ogni banditore. / Con lui si spense quella millenaria / artistica figura del folclore / ch’oggi già quasi sembra leggendaria.
Di Carolini, in Brezza sul monte, sono riportate alcune poesie in italiano e in dialetto, “’L peparoncino” e “Il vino”.
Pompilio Tagliani, nato da una famiglia di contadini nel 1923 a Tolfa (dove è morto nel 2005); fu impegnato nel lavoro dei campi fin da bambino. La passione per la poesia è nata in lui seguendo e ascoltando i più noti poeti a braccio tolfetani, fra i quali Giacomo Belloni. Ha iniziato a cantare in pubblico nel 1951. Per la veemenza della passione per il canto e per il contrasto, è denominato “il Bronte tolfetano” (dal personaggio mitologico: “Ero come Bronte menavo co’ du’ mano”, dice di se stesso). Per l’originalità del suo canto e del suo carattere è senz’altro un punto di riferimento importante. Si è distinto come promotore di manifestazioni poetiche e si deve soprattutto a lui se questa originale attività culturale è ancora fiorente a Tolfa. Ha promosso la nascita del Circolo culturale “G. Belloni”. Ha pubblicato il libro I giorni cantati. In Estemporanea, sono presenti molte sue composizioni. In Verba manent c’è un capitolo a lui dedicato con testimonianze autobiografiche.
Agnese Monaldi, nata ad Allumiere nel 1946. Attratta fin da piccola dalla poesia a braccio, ha incominciato a cantare sui palchi solo nel 2001 tra improvvisatori maschi dai quali ha saputo farsi accettare. Ha ricevuto anche l’incoraggiamento di poeti grandi quali Mignanti e Moggi, del cui magistero ha saputo trarre ottimo profitto, senza snaturare la sua sensibilità di donna e componendo versi dolci e melodici.
Non canta solo l’ottava rima ma anche stornelli e scrive non solo ottave ma anche versi sciolti. Ha pubblicato quattro raccolte di poesia. Alla sua poesia sono dedicate alcune pagine di Verba manent.
Rappresenta una singolare ed unica presenza nel mondo poetico estemporaneo della bassa Maremma, totalmente dominato dagli uomini, ove si escluda l’illustre esempio di Berta, moglie di Bartolomeo Battilocchio, così ritratta da Balilla Mignanti in Lo scojo…:
Anche la consorte di Meo era una provetta poetessa, con una voce discreta, anche se un poco mascolina, mentre lui aveva una vociaccia rauca e sgraziata. Quando la raucedine lo assaliva, incominciava a dar segni di nervosismo, facendo versacci con tutte le parti del corpo, come fosse colpito da tic plurimo; a questo punto, se la piazza lo richiedeva, subentrava la moglie e lui continuava la vendita delle storie, più che della merce.
Di Berta e di una certa Bicchierara parla pure il poeta tolfetano P. Tagliani:
Berta cantava. Era lo moje de Meo. Cantaveno ’nsieme. Io l’ho ’ntesa canta’. A voja quante vorte. Era ’na bella donna. Cantava bene, pure perché co’ Meo altro che bene poteve canta’. Po’ ’ngià ereno preparate. E a la Torfa pure la Bicchierara c’era. Era ’na Pascucci, la madre de ’Ntogno. Mo’come se chiamava nun m’aricordo. Ero regazzo quann’è morta. Quella cantava co’ Meo, cantava co’ tutte, all’osteria. Me sa’ che è ’na Paradisi. O è ’na Borghesi? Boh, ’na parola! A Viterbo, m’ariccontava sempre ’l mi’ ba’, bonanima, hanno cantato tutta la notte Meo e la Bicchierara, da la sera ’n fino a la mattina. Dovrebbe esse’ nel ’24/’25.
Ugo Zenti, nato nel 1922 a Tolfa dove ha avuto residenza fino al 1947, si è poi trasferito a Livorno, pur rimanendo molto legato alla sua Tolfa. I ricordi delle vie, di personaggi tipici tolfetani ispirano spesso le sue poesie. Da Canti e versi… riprendiamo alcune strofe de “Li carzolari”:
Li carzolari a Tolfa, solo tre / mo so’ rimasti e tutti e tre impediti / perché da ciuchi furono corpiti / dalla poliomelite, cosicché / scersero quer mestiere e come sia / o bene o male cian tirato via. // Mo che nun ce sta più la carestia / e che le scarpe stanno a costà un frego / loro lì de lavoro, nun lo nego, / ce n’hanno sempre piena la scanzìa / e ci buscano un sacco di quattrini / che mo so’ li signori ciabattini. (…)
Di lui segnaliamo inoltre “Er saliscegne”:
La Tolfa è un saliscegne e de girà / si la volesse, devi fa’ attenzione / perché se caso piji ’no ciampicone / vai diritto in quarche spigolo a infrocià. // Dindove vai che vai l’abitazione / son tutte pell’insù, che strabuzzà / li devi l’occhi e tanto de fiatone / pe’ potelli raggiunge, devi fà.
In Brezza sul monte ci sono sei poesie in dialetto: “Le formichelle”, “Pe’ cerase”, “L’acquacottina”, “Li giochi de ’na vorta” e la “La misticanza”. Una critica garbata affiora in “Tempi moderni”:
Pure alla Tolfa, mo’, se so’ ’mparate / de fa lo stesso a li citavecchiese: / a magnà e beve, senza bada’ a spese / e vonno a pranzo e cena più portate. // Le tante ristrettezze del paese / come ’na vorta se le so’ scordate; / mo je piace de fa’ le scarozzate / e godesse la vita a più riprese.
Balilla Mignanti e Ettore Pierrettori
Balilla Mignanti (Tolfa 1923) è stato dipendente della Provincia di Roma come capo cantoniere. Ha frequentato gli studi fino alla quinta elementare. Verba manent gli dedica un profilo: “Balilla Mignanti, il Poeta insegnante”. Eccone alcuni passi:
Balilla è un poeta trasversale. Un poeta che ha attraversato più volte la poesia a braccio e la poesia scritta, in un andirivieni dettato da episodiche circostanze. Ne esce fuori un poeta “colto”, che ha gradualmente colmato i vuoti delle origini, accompagnando a questa opera di riempimento culturale il passaggio dalla poesia a braccio a quella scritta. L’innamoramento per la poesia lo coglie in prima elementare e da allora rimane. La segue, la sfrutta per evadere ed alleviare i problemi personali. Da subito, in lui, l’aspetto lirico dei versi prevale sulla concretezza. Questo è anomalo per un poeta a braccio. Infatti Balilla improvvisa ma, nel contempo, scrive. La scelta della scrittura matura nel 1975, insegnando poesia scritta nelle scuole medie, quando si rende conto che “insegnando la poesia ‘perfetta’ (scritta), non poteva continuare a cantare la poesia ‘imperfetta’ (a braccio).
Ha pubblicato i libri di poesie A zompe guase a scarto de cavallo e (Ingrata… amara), ma tanto amata terra e in prosa Lo scojo. Due passi in punta di cuore. È presente con sue poesie in Canti e versi dei Monti della Tolfa e in Brezza sul monte.
Mignanti ha però mantenuto la capacità del poetare a braccio, evolvendosi in guida e maestro e scoprendo il talento di Agnese Monaldi che ha avviato al canto fino a condurla sul palco e poi seguirla con utili consigli.
Il tema dominante, quasi ossessivo, della sua poetica è il il rammemorare: “Ricordare particolari momenti di vita cittadina tramontati nel tempo e col progresso tecnologico, non è solamente un piacere per chi li ha vissuti, ma anche un dovere. Da certe usanze e tradizioni si può risalire alle origini di un popolo.” Il dovere di ricordare è però nel poeta non un rifugiarsi in un passato idealizzato o un rifiuto dei cambiamenti, bensì una tensione verso il futuro grazie al forte legame conservato, coltivato di quegli elementi peculiari delle tradizioni che fanno parte dell’identità di un popolo, di cui è bene mantenere la consapevolezza. Afferma Italo Fiorin, nella prefazione al libro Lo scojo…, non a caso intitolata “A memoria d’uomo”, che “dei tre destinatari del suo lavoro, siano i giovani il destinatario più importante”. Gli altri due destinatari sono: i tolfetani di oggi e tutti gli italiani in genere, ammalati di smemoratezza e incoscientemente protesi in un’omologazione distruttiva.
Mignanti ha scritto e scrive in lingua e in dialetto. Quando scrive in italiano, in prosa e in versi, si sente forte l’istinto del poeta estemporaneo, nutrito della lettura, dell’ascolto e della declamazione dei classici, soprattutto dell’epica cavalleresca. Un esempio per tutti, l’incipit della poesia “Allor saremmo…”, collocata in apertura dello Scojo: “Dove il Tirren… più dolcemente ingolfa, / fra il mar di Pirgi e i lidi di Traiano, / svettano, in alto, i Monti della Tolfa / e l’ampio territorio tolfetano…”.
La sua preferenza è però per il dialetto:
Io per esempio scrivo tantissimo in dialetto, in maggioranza in dialetto. Se io dovessi dire il piacere mio è quello di scrivere in dialetto, perché il dialetto è la madrelingua nostra! Il dialetto è la madrelingua di quelle etnie che compongono un popolo. Un dia-letto è composto di etnie e le varie etnie hanno i suoi vari dialetti. E l’etnia proprio nel dialetto si esprime maggiormente.
Non a caso, prima di dare avvio alla sua “quasi biografia” nello Scojo…, avverte che la stessa sarà accompagnata da “note di poesia e pennellate di coloriti discorsi e dialoghi dialettalmente umoristici”. E dopo aver riconfermato lo scopo di questo suo lavoro (“tener vivo il ricordo delle nostre origini, perché su di esse, poggia le fondamenta il nostro avvenire”), introduce un sonetto bicaudato sulle origini del “dialetto torfetano” che riportiamo nella nostra Antologia. In “’Nguatta miserie” rievoca il trasloco dei contadini, notturno, perché nessuno potesse accorgersi del comò tarlato oppure: de ’n piede rotto e ’n artro che zoppava, / de la specchiera col vetro spaccato, / del credenzone tutto sganghenato, ’l farinaro o la cassa che mancava. // De ’nguattone, a lo scuro, bene o male, / ’ste mutilate arrivaveno a porto / su le spalle o teste o su animale…
Mignanti eccelle nel cogliere dialoghi dalla vita di tutti i giorni. Una lite tra lavandaie in “Pe’ la strada de Canale”:
Doppo, s’accapellonno tutte e tre; / le mano se ’nfilonno ’nfra le cosce, / ’nfra le pantasce brindellone e mosce, / nere, come fonnacce de caffè. // Che vo’ senti’ le strille e parolacce! / Quel fagotto de cule a gruzzelone, / veste per aria, urle e ’mpregazione, / pariveno tre para de bisacce. (…)
In “Da un dialogo fra comari” ecco un concitato scambio di complimenti:
Si pie ’n bastone ’n fae ’n sordo de danno! / No che:… dote, mobija e biancheria!… / Si passa ’n cane, schizza e scappa via: / si ’n vo’ patì trecento giorne l’anno. // Poraccia!… Dice!… ’n corpo che le pia! / Allora perché ’nnava sbraitanno:… / le cose che ciò io, l’artre nun cianno! / Ciò: sorde, robba, e, de bona famia! // Le sorde… nun ce l’ha! … la roba manco; / bona famija!… Com’adè sta bona?… / Pequera sì… ma pequera de branco! // Ha fatto la gradassa… la spaccona: / ’n mar de ’nvitate, pagge e velo bianco / e mò… pare ’na pequera schiavona!
In “Sta brindellona” l’invettiva si espande nell’intero sonetto:
Se’ peggio de ’na pequera schiavona / co’ ’n sacco de brindelle pe’ la vita: / vede de datte ’n po’ ’n’aripolita!… / Qui… la gente… te scansa o te cojona. // La zèlla ’ndosso l’hae d’ave’ ’ncarnita! / L’otelo te sobbona: brindellona! / Te pararà da essa ’na matrona, / cossì bardata e a modo tuo guarnita. // Scacete ’n po’, nun see po’ tanto vecchia! / Datte ’n filo de cipria su le guance: / fa come quelle giù de Citavecchia. // Da’ ’n’arricciata a quelle quattro sbrance; / mettete du’ cerchiette ’ndell’orecchia / e smette le cazzole co’ le ciance!…
In “Poro fiarello mio” una madre così tenta di dissuadere il figlio da un matrimonio foriero di guai:
Poro fiarello mio, che fine hae fatto! / Come la mosca d’oro proverbiale, / ch’annette a sbatta dentro all’orinale / e proprio nel momento meno adatto. (…) // Mò… te l’hae da tene’… quel vescicante, / quella freghemedorce e venimeno…! / Che ortre tutto… è pure ’na ’gnorante!… // Con quella lengua zozza e senza freno. / Si ’n te sbrighe a levattela davante, / te lo farà ’ngoia’ solo veleno!
Balilla è abile narratore di usanze e vicende del mondo contadino, sia che si tratti di rievocare la faticosissima costruzione di una casetta di fango e tufi in “La lucchesina”, sia che si tratti di ritrarre la dura fatica dei campi in “Le quarte torfetane”:
Ce voliva ’n par d’ora de pedagna / p’arriva’ su le quarte torfetane; / sette croste ciaviva, allora ’l pane: / all’acqua, neve, gelo e la solagna. (…) P’arimedia’ quel “frizzelo” de grano, / che sì e no bastava pe’ campa’ / te strascinave ’n giro ’n anno sano. // Si ce scappava p’arisementa’, / coperto ’l fabbisogno quotidiano, / ritrovave la voja de prega’.
Sia nel ricordare “Porverì” un riparatore, quando non si buttava niente:
Adera ’n vero gegno manuale, / vedello lavora’ era no’ svago: / col fil de ferro ’l filo e co’ lo spago; / un vero artista: pratico e gegnale. // Pariva accomedasse pe’ divago / qualunque cosa e col viso gioiale: / brocchette, pile, scole, le boccale; / diciveno le gente: quello è ’n mago!…
Tra i ricordi del tempo in cui “Vittorio” (era la faccia del re stampata sulla moneta) poco circolava, Mignanti raccoglie l’amaro sfogo di una vedova in “Quanno ammazzo quel porchetto”:
Ogni vorta che ammazzo quel porchetto / tirato su… a mozziche e boccone / aricomincio a fa’ la sottrazione / co’ ’l sangue all’occhie e col magone ’n petto // ’na parte a ’l prete pe’ quelle funzione:… / ’n sia pe’ rinfaccio… pe’ quel poveretto; / ’l compare se contenta del buzzetto: / io me lo magno’l fritto e le rognone.
E poi via via, pezzo per pezzo, sottraendo, alla poverina rimane solo la possibilità di lagnarsi:
Scuseme… si ’sto sfoco me permetto!… / L’ho da fa’ sempre si ’n vojo crepa’ / ogni vorta che ammazzo quel porchetto!
Non mancano le ricette della cucina povera tolfetana: “L’acquacotta” “’L battutello d’onto” che a La Torfa adera ’l primo attore ’n tutte quante le scene de cucina, “’L cenone de Natale” che è l’unica vegija magnareccia, anche se quella del poeta “è casa de le poverelle”: Ciavemo meno, ma nu’ stamo male! / Unisse’n pace,’n desco e du’ storielle, / so’ le vere ricchezze de Natale.
Infine ne “La solidarietà del vicinato” un valore, lascia intuire il poeta, da riscoprire:
Quello che fa quarc’una del paese, / quelle del terzo monno e le romene, / pe’ ’no sfojone e passa p’ogni mese, / più quella libertà che le conviene… / e a tante ancora… pure alloggio e spese: / prima era fatto tutto a fin de bene. / La solidarietà del vicinato / nun pesava al vicino …né a lo stato. // ’L rione adera come’n patriarcato / co’ le famije in piena libertà… / ma… nel momento serio… e delicato: / c’era la vera solidarietà… / Ognuno se sentiva vincolato / nello slancio d’amore e carità. / C’era coscienza, che le tempe brutte / prima o doppo veniveno pe’ tutte!…
Ettore Pierrettori è nato a Tolfa nel 1927. Passato, nel dopoguerra, attraverso le più svariate attività lavorative, ha poi conseguito il diploma di geometra e, ottenuto il titolo I.S.E.F., è stato insegnante di Educazione fisica a Grosseto. È attualmente in pensione. Nel maggio 1994, nella sua prefazione alla seconda raccolta di Pierrettori (A la Tòrfa… da lontano) Tullio De Mauro così delinea il suo percorso poetico:
Nel 1982 una sua prima raccolta di poesie dialettali apparve presso la casa Gruppo Editoriale Forma di Torino, nella collana ‘Biblioteca degli scrittori in dialetto e lingue altre’ che dirigevo con Maurizio Pallante. La raccolta fu curata da Eugenio Bottacci, Giuseppe Morra e Angelo Pierantozzi e portava il titolo La Tòrfa dal barsòlo. Poesie in dialetto tolfetano. (…) Adodici anni di distanza, ecco una nuova testimonianza dell’attività poetica di Pierrettori. Che (…) a partire dai tardi anni Settanta si è fatto poeta, per amore della sua gente e della sua terra, per amore della sua parlata minacciata da un forzato e superficiale abbandono. Con questo amore, non sopito, non sopibile, Pierrettori torna a noi, a ripopolare il nostro orizzonte delle identità presenti nella sua memoria e nelle sue ricostruzioni poetiche. Le note ai testi e i commenti ci restituiscono con puntualità filologica quel che c’è da sapere per gustare appieno il recupero di identità locali che Pierrettori ci dona. Ci dona, a me pare, ben oltre l’orizzonte della Tolfa, anche se chiaramente il suo obiettivo, i lettori e le lettrici che i suoi testi vogliono selezionare, sono quelli della sua gente e della sua terra.
Nato da una famiglia di piccoli artigiani, ha vissuto la fanciullezza durante il “ventennio”, l’adolescenza durante la seconda guerra mondiale, la giovinezza nel periodo postbellico, la maturità nella crescita industriale. Testimoniano i curatori di La Tòrfa dal barsòlo:
La scoperta della poesia è avvenuta nell’A. in modo del tutto improvviso e fortuito; non ha infatti scritto un verso, né pensato di scriverlo, prima che, in un momento di intensa commozione, si sentisse spontaneamente, e diciamo pure presuntuosamente, spinto a farlo. (…) a noi sembra che la cosa si possa spiegare più semplicemente se si tiene conto del fatto che il culto per la poesia a braccio, per la battuta o l’arguzia ‘tirate’ in rima è una caratteristica del nostro retroterra culturale popolano e contadino e, quindi, è facilmente spiegabile che tutti si sentano intenditori di poesia e siano in qualche modo ‘poeti’.
E che Pierrettori sia stato un cultore della poesia a braccio lo si può evincere da una poesia (“’L silenzio è d’oro”) in cui tesse lodi sperticate al poeta a braccio per antonomasia Bartolomeno (Meo) Battilocchio: me piacerebbe d’èssa come Meo, / nostro poeta de fama e successo, / ma n’è cossì; quanno la rima creo, / ’nvece d’annàlle avante, le vò apprèsso! (…)
Da quell’avvio improvviso, Pierrettori ha saputo assecondare la sua ispirazione poetica, cimentandosi con il duro lavorio poetico, durato lunghi anni, accompagnato da riflessione e da una più che congrua pausa tra una pubblicazione e l’altra. Pierrettori è poeta di paese (di un paese comunque agricolo e pastorale) e conosce la fatica e la civiltà contadina anche se non è poeta contadino tout court come Balilla Mignanti. La visuale, il punto di vista da cui guarda è dal paese, quello di Mignanti è dalla campagna, dalla capanna verso lo Scojo, verso il paese. Non a caso si intitola “Guardànno dal barsòlo”, la poesia che da il nome alla sua prima raccolta. Dal ballatoio, seguendo l’esempio materno, ha imparato ad osservare i fatti e le persone, sapendone cogliere il lato originale, buffo ed esprimendoli in modo assai efficace. Gli occhi sono quelli di sua madre: “Quante vòrte t’ho vista sul barsòlo…” – ricorda il poeta, colloquiando con la madre – mentre eri alle prese con le tue mille occupazioni. E tuttavia: Da quel barsòlo n’ te sfuggiva gnènte, / fatte dell’altre ne sapeve assàe, / chè pò’ t’ariccamàve nde la mente / e co’ la lingua n’ te zittave mae / e come nne ’n bèl gioco divertente / quante pecette appiccicate adàe! Sull’esempio materno, il poeta ha saputo immagazzinare e rielaborare (“ricamare”) nella mente immagini, di dolore, di festa, di fatiche, scene di vita nei campi e nel paese degli anni che vanno da prima della seconda guerra mondiale fino agli inizi degli anni Sessanta, quando il suo mondo ha cominciato a sgretolarsi in maniera decisa e rapida, con il rovinoso declino della civiltà contadina. Osservano E. Bottacci,
G. Morra e A. Pierantozzi, curatori di La Tòrfa dal barsòlo:
Di questo periodo egli dipinge un affresco che a volte assume il carattere della miniatura; la dovizia di particolari, con la quale descrive e puntualizza gli usi, le tecniche lavorative ed i momenti topici, contribuisce a documentare in maniera organica, anche sul piano storico e del costume, le peculiarità di questa cultura e del suo modo di produrre e di fruire. Questa esigenza di documentazione, che costituisce un indubbio pregio della raccolta, nasce dalla consapevolezza dei caratteri particolari dell’economia agricola locale, anche in rapporto al contesto economico del periodo descritto. (…) Aquel mondo il poeta “si rivolge in continuazione, nel tentativo di recuperare la risposta ad un bisogno, che non è solo suo, di punti saldi di riferimento, di valori assoluti, di sicurezza, di pace, di serenità, di socialità, di autentico divertimento”.
La grande capacità di descrivere il suo ambiente e i suoi personaggi colpisce ed avvince perché sempre ispirata e caratterizzata dal profondo attaccamento al paese ed alle sue genti. Citiamo ancora i suoi curatori:
Le cantine del Bassàno, la fontana de la Lìzzera, ’l Belvedere, ’l Torione, ’l Convento de le Cappuccìne, la Ròcca sono alcuni dei luoghi descritti con semplicità, ma anche con notevole efficacia, attraverso le pennellate amorose dell’Autore. I personaggi sono colti in questo ambiente nel pieno delle loro attività, dei passatempi, delle feste, delle sofferenze con una ambivalente capacità di rappresentazione drammatica o comica, con una vena a volte ironica, a volte incline alla predicazione morale o alla considerazione sapienzale. Specie laddove l’A. ha conseguito una sperimentata perizia tecnica nell’uso del dialogo (“A la fontana de la Lìzzera”, “La cursa de le cavalle pe’ sant’Antògno abbate”, “La tribbiatura”) i personaggi sono di una freschezza e di una spontaneità difficilmente conseguibili.
Pierrettori sa variare i registri, aderendo alla vicenda dei suoi personaggi sia che si tratti di descrivere la tragedia di un ragazzo travolto nel tentativo di guadare un fiume in piena nella poesia “’L ponte”:
… provò a guada’, passanno sasso sasso, / … ma l’acqua le ’rivava su al ginocchio: / se ’mpaurì, ce sguillò ò perse ’l passo? // L’acqua lo strinse ’n gola e spense l’occhio, / l’aribbiràva e strascinava ’n basso / come ’l mare che porta a spasso ’n ròcchio. // … Lo trovònno ch’annàva ancora arròcchio, / pietosamente fu portato al monte …
sia che si tratti di un suo zio, ritratto nella poesia “’L lamento del zi’ Leo’”:
… era ’n ometto basso de statura, / curvo ’n avante, come a fa’ ’n inchino; // du’ baffe lunghe più de la misura, / mèzze ’ngiallite pe’ quel toscanino / che se fumava come fusse ’n cura, / magàra preferito al pane e al vino. // De sera, quanno s’èremo corcate, / nde la cappanna entrava, p’aripète / ’ste vèrse, che ngià s’èremo ’mparate: // “Si lo sapevo ch’adèra ’sto mète, / prète, da ’n pezzo, m’ero fatto, o frate: / pe’ tutte adèro mo sor arciprete!”.
C’è tanta condivisione nel descrivere la fatica inumana dei campi rispettivamente in “Lo spicchiatore” e in “’L vignarolo”:
Sotto ’l sole cocente dell’istate, / curve sul picchio pe’ vortà da fonno / scòmede quarte e desolate prate, / che rènne più de que’ pròpio nun pònno, // stanno ècco qui come anime addannate / che scónteno le pene nde ’sto monno. // Scanàja a sera le terre spicchiate / cercànno, stracco, de pote’ pià sonno. // Quanta fatica pe’ ’n sacco de grano! / “La vanga ammazza e ’l picchio t’assottèrra” / diceva que’ ’l cafone torfetano, // sputànno su le calle de le mano / e a ogni picconata che te sfèrra / fa ’n fiòtto che più gnènte cià d’umano… Lenta la vanga nde la terra affonna / e nazzicànno ’ntanto s’aripòsa, / ’ppoggia al ginocchio e ’l manico s’attonna, / bira la tòppia e a posto pò’ la posa; // la fronte è mòlla e de sudore gronna…
Tra i ritratti meglio riusciti quelli di Romèo de Bartòccia, Sergetto, Nino, Cammilletto, Greto’, la sora Pà. Grande la sua maestria nel riprodurre atmosfere di feste, di riti, usanze da quella descritta ne “La fraschetta d’inòro” (“e manna via la schiuma… n’ave’ fretta / co’ ’n goccio sciacqua e le bicchiere avvìna, / ché l’acqua bbòna è quella benedetta”) a quella della cottura del pane “Quanno commannàva la fornara” o della preparazione dei cibi, “La trista” (vedi nostra sezione Gastronomia).
Paragoni e similitudini, dialoghi, linguaggio, tutto è finalizzato ad assecondare l’urgenza di un tentativo prometeico di fermare un mondo in dissolvimento. Pierrettori eccelle anche nei paragoni; ne citiamo alcuni: sparì come ’na bolla de sapone / che schiòppa e rèste llì come ’n babbèo in “La tribbiatura” oppure: come nde l’incannato ’l pequeraro / pe’ carosa’ le pèquere ’mpastora, / cossì faceva, quann’ero scolaro, / pe’ strascinamme a la pettinatora in “Davante a la pettinatora”; col vellutino dentr’a ’na balletta / tutta sbucata che sortìva fòra, / come ’l carcàgno fa da ’na carsetta in “Tempo de presèpio”.
Straordinaria l’efficacia delle sue descrizioni. Un solo esempio, da “Belle e brutte”, relativo a una ragazza va allo struscio con le amiche lungo la Lizzerata, la strada principale del paese, che: …fingènno bene pe’ appari’ modesta, / se guarda ’ntorno e guarda si è guardata.
Già nella prima raccolta emergono temi e toni, che si dispiegheranno nella successiva, e che collegano in qualche modo Pierrettori alla corrente detta “neodialettale”.
Nella poesia “Pensànno a la Tòrfa da lontano”, presente non a caso sia nella prima che nella seconda raccolta di cui di fatto suggerisce il titolo, è segnalato il distacco del poeta dalla sua terra. Si tratta solo di un breve soggiorno lontano da Tolfa (a Milano l’8 agosto 1981), ma è sufficiente a scatenare un’ondata calda di nostalgica illusione:
Rifréschete laggiù a quel ventarèllo / (…) Iere, sognànno ’l Monte col Castello, / se semo fatte ’n piatto d’acquacòtta, / pèrsiche, biscòtte e ’n bòn vinèllo, / tutta robbetta che la trippa abbòtta. // Ciabbàsta poco pe’ facce contente / nne ’sto monnaccio pieno de zozzure, / riannàmo ’n prèscia tra le nostre gente / sènsa fasse svortà d’altre rosure, / godémese lo scòjo e le su’ vènte / e famo ’n modo che più a lungo dure.
Nella chiusa del sonetto affiora la vana aspirazione di trattenere il più a lungo possibile un mondo, il “suo” mondo, dall’imminente deriva che egli paventa. La Tòrfa dal barsòlo si concludeva con una sorta di testamento affidato agli amici più cari “Al Mancìno, a Pèppe e al Gaimone” (Angelo Pierantozzi, Giuseppe Morra, Eugenio Bottacci) che stava per lasciare insieme all’amato Scojo, dove chiede di essere sepolto:
Quel giorno ch’annarò via da ’sto scòjo, / ch’attìra come fusse calamita / e la mi’ vita nun sarà più vita, / vo’ capirete ’l bene che ve vòjo. // (…) Partènno lascio qui ’n bel po’ de còre, / v’ho dato poco e ho ricevuto tanto, / ’n cambio dell’amicizia ho avuto amore, // n’ me vergogno de di’ ch’ho pure pianto. / Portàteme de prato quarchi fiore / quanno ch’ariverrò… su al camposanto.
Significativamente un nucleo di poesie già pubblicate in La Tòrfa dal barsòlo (1982), viene riproposto in A La Tòrfa… da lontano (1994) “per la loro attinenza con alcuni dei temi trattati” si dice in una nota, supponiamo dell’Autore. Si tratta di: “Pensànno a la Tòrfa da lontano”, “Fatte de guerra, “Lo picchiatore”, “Nde le bisacce e dentro a le catane”, “Meno companatico e più pane”, “’L pane asciutto”, “La fraschetta d’inòro”, “’L vignaròlo”, “Quanno commannava la fornara”, “La donna torfertana”, “Guardànno dal barsòlo”, “L’ìrcio del Convento de le Cappuccine”, “Le pallone de Giacobbe”, “Tempo de Presèpio”, “La pascipèquera”, “La viggìja de Natale”, “La processione del Vennardì santo”. La loro riproposizione, a nostro avviso, risponde a due scopi, il primo di irrobustire l’ossatura della raccolta e il secondo di stabilire un confine temporale, tra il prima e il dopo l’esilio a Grosseto.
Nella raccolta sono presenti alcune incongrue riempiture (le parti intitolate “Dai proverbi di Frate Indovino”, “ Fattarelle… cossì cossì” , “12 anni passati alla scuola… Ungaretti di Grosseto”). Tuttavia anche in queste poesie, che difettano di ispirazione, emergono alcuni versi isolati davvero considerevoli.
E, nella sezione dedicata agli anni di insegnamento a Grosseto, emerge la poesia “A Bottacci, a Peppe e al Mancino. “È guase ’n testamento”, davvero notevole e che riproponiamo nella nostra Antologia.
Giovanni Barone, nella presentazione della seconda raccolta, sintetizza in tre ordini di motivi la valenza poetica di Pierrettori: 1) il valore linguistico di un recupero dialettale a livello culturale, sociale, economico e di comunicazione; 2) la rilevanza del recupero memoriale delle passate culture e tradizioni popolari; 3) l’inesauribile vena poetica che “attingendo agli archivi della sua memoria o da spunti occasionali ed estemporanei, offre un campionario di umanità e situazioni, colti secondo vari registri, tra i due poli del suo paesaggio interiore: Tolfa e Grosseto”. A sostegno di questo cita, e noi concordiamo con questa scelta, alcune poesie che, per brani riprenderemo qui di seguito, nelle quali si coglie “la essenzialità e la scioltezza delle rime, l’immagine o la situazione che prende campo a tutto tondo, il messaggio che varia dalla riflessione amara, al rimpianto, al rifugio nella memoria”. Da “’L testamento del metitore”:
Quanno l’urtima stella ’n cielo è nata, / e n’ cià più forze ritto su a tenello, / ce casca come carne ’nanimata. // “Nghiótteme, terra ’ngrata e tanto cara! / Perché è toccata a mi ’sta mala sorte / e la mi’ vita hae resa cossì amara? // Ma ce sèe solo tu che me conforte; / te prego, allora, aggrùppeme la bara, / quanno che ’riverà sorella morte!”.
“Pane e sapore de renga” (dal sottotitolo ironico La miseria vò ’l su’ sfòco) rappresenta una scena di povertà con un avvio epico: Magra miseria, che le file annoda, / tèsse la tela da porta’ al sudario, / tanto lavoro pe’ ’n tantin de bròda / lungo ’l cammino pe’ sali’ al Calvario. L’aringa veniva legata per la coda e appesa al lampadario e con essa si ungevano le fette di pane senza strofinarle, perché bastava il pane con un po’ di sapore, ed era meglio stare lì a guardarle: come ’na matre fa con gran dolore, / che tante bocche n’ sa come sfamalle: / s’accontentava spesso dell’odore.
Ancora più struggente “La cena de le poveracce”:
Nde la cassa del pane n’ c’è più gnènte, / manco ’na crosta pe’ fa’ divozzione… (…) // Sette bocche ch’aspètteno ’l boccone, / sette tazze pe’ ’n po’ d’acqua bollènte, / com’a di’ “questo e gnènte l’ è parènte”: / pe’ ’na matre so’ gran proccupazione. // Quante sere, aspettano ’ntorno al fòco, / su le braccia del patre addiricchiato / ce s’addormiva ’n fio, giocanno ’n giòco! // Co’ ’n verso, allora, dal tempo lograto, / lo dà a la moje e dice, mezzo ròco: / “Mette a letto, Mari’ … che que’ ha magnato”.
Poi il ritorno al paese e il disincanto in “A le Spiagge” (località tolfetana):
Capitato a le Spiagge dopo anne… / Dio mio, ’l locale come adè cambiato! (…) // Lì, m’aricòrdo, c’era ’l perguelato, / nde ’sta spianata qui le du’ cappanne: / là quella tonna, ricoperta a canne, / e l’altra, pe’ ’l sumaro, sul serciato. // Le roghe mo so’ sparse dappertutto / e quante piante ormàe se so’ seccate…
Per quanto così care al poeta, che vi dedica un intero capitolo (in Appendice di A la ˙Tòrfa… “L’insalatina di campagna”), anche le verdure, colte nell’orto di Edoardo in “Verdura strascinata qui, ’n Maremma” non hanno più quel sapore di una volta: …Però, a Grosseto, l’acqua dell’Ombrone / smòrsa ’l sapore pure a la rughetta: / potrà veni’ mae bbòno ’l minestrone?!
In una poesia “’L soléngo” paragona con vigore epico la sua condizione nell’esilio grossetano a quella del cinghiale che vive isolato dal branco:
Cascàe de bòtto qui nne la Maremma, / soléngo me trovae dentr’a ’sta macchia, / lontano da la Rocca, che n’ se stacchia, / ferrengo sasso e rilucente gemma. // (…) ’nvènto ogni giorno quarchi stratagemma, / ché n’ vòjo né pastora e né mordacchia. // Me sento sperso ’n mezzo a ’sta radura / e co’ nessuno ancora ho fatto lega (…)
Il poeta prosegue nel suo scavo interiore, nella poesia “Tristezza e noia, che malinconia!” (sottotitolo: o que’ adè la mi’ fottografia?), inquieto autoritratto:
Quanno so’triste m’appassisce ’l còre, / me sento solo ’n mezzo a tante gente; / parlo, nessuno pare che me sente, / e sempre più giù m’affúgo nde ’l dolore. (…) // “Spasso di fòra e trìbbelo de casa”, / que’ me diceva la mi’ pora Mamma / (e chi sta ’n po’ co’ mi, presto m’annasa). // Recito la commedia quann’è ’n dramma, / làgrimo e ’ngià la brocca ho guase rasa, / dentro me brucio e ’n fò vede’ la fiamma.
Si approfondisce lo spaesamento e lo smarrimento. “Nu lo so più manch’io” è il titolo di una delle più significative poesie della raccolta (la riproponiamo nella nostra Antologia) in cui Pierrettori confessa il forte richiamo della sua terra, l’ossessivo riandare ad essa con la fantasia. Poi, una volta tornato a Tolfa:
Ma llì nun trovo più la compagnia, / la casa è fredda e c’è ’l cammino stento… / sentènnome foresto pe’ la via, / me metto a piagne, scappo e po’ me pento. // Dio mio, la troverò, ’n giorno, la pace? / So’ stracco a fa’ su e giù, come ’n fringuello! / Ma ’l monno, ’ntorno, è come ’n muto: tace! // Di dentro inutilmente m’arrovèllo; / me sento ’n ferro che, doppo la brace, / se trova fra l’incudine e ’l martello.
Un incidente (Sinistro scrocchio, simile a saetta) che lo costringerà a rinunciare all’amata bici e all’attività sportiva (descritto nell’autoironica poesia “L crollo de ’n mito”) accumulerà tristezza a tristezza. La sua visione del mondo si incupisce ancora in “La felicità n’ è mae davante”:
Davante a mi nun vedo altro che buro, / la luce è come si fusse smorsata, / la strada adè, mo, ’no stradello duro, / la vòja de lotta’ me s’è passata. // Quarcosa avante a mi c’è che nun furo, / ch’ha messo fine a ’na vita sfrenata (…)
A La Torfa… da lontano si conclude con la bellissima poesia “A Bottacci, a Pèppe e al Mancino” (sottotitolo È guase ’n testamento). La si può leggere nella nostra Antologia ed è dedicata, come quella di chiusura del precedente libro A la Tòrfa dal barsòlo, agli stessi amici (E. Bottacci, G. Morra, A. Pierantozzi). Sono passati circa 7 anni (16 marzo 1981- 24 gennaio 1987), ma tante troppe cose sono cambiate, nell’Italia e soprattutto nell’esistenza del poeta, nella sua poesia:
Vedo lo Scòjo sempre più lontano, / la Rocca vedo sempre più sfocata. / Dio mio, ch’ho fatto?! Méttece le mano, / sbròjeme ’sta matassa ’mpatassata! // Ma l’eco scegne giù dal monte al piano / e la mi’ voce passa e n’è ascortata, / me svejo e ’l sogno de torna’ al Bassano / svanisce, come nebbia assolinata. // E più ce penso e sempre è meno chiaro, / qui dentro so’ cascato e più n’ se sòrte; / vòto ’l bicchiere e più del fiele è amaro!
Ed ecco un video dei poeti a braccio
GIACOMO BELLONI
Il pidocchio
Chi è che dice male del pidocchio
ch’è mansueto come ’n agnelletto?
La purcia pe’ la vita ce va arròcchio,
lo spicca ’l sarto come fa ’l capretto,
nun fae attèmpo a vedélla col tu’occhio
ché subbito te ’mbocca ’l viqueletto;
’l pidocchio cammina piano piano
e ’nvece de scappà te vène ’n mano!
(ce va arrocchio: si muove liberamente; te ’mbocca ’l viqueletto: si nasconde nella piega della pelle).
BALILLA MIGNANTI
’L dialetto torfetano
’L dialetto torfetano adè un mischiume
de quello ch’adè ’n po’ ’l passato nostro,
che nun se po’ spiega’ co’ carta e inchiostro
’sta sbobba d’infruenze e de costume.
Si pozzo, a modo mio ve lo dimostro,
però ve giuro ce vo’ ’n po’ d’acume:
perché più accènno e più se smorza ’l lume
che po’ fa’ luce pe’ guarda’ ’sto mostro.
Le pequerare ’nde le transumanze
hanno lassato dette proverbiale,
le Marsicane cante e costumanze,
le Marre nenie e geste manuale;
de le Romane tutte le ruganze;
e ’l resto ’n po’ da tutto lo stivale.
Però, più che parlamo è co’ le mano;
quello, ve giuro, è frutto “torfetano”.
ETTORE PIERRETTORI
Guardànno dal barsòlo
Quante vòrte t’ho vista sul barsòlo
col tu’ sinale e ’l fazzoletto ’n testa
che stave a rinnaccià quarchi linsòlo
ò a lustra’ le scarpe de la festa.
Seccàve pacche al sole ò sopra al sòlo,
capàve su lo schifo, e adère lèsta,
lenticchie, fave e cece col faciòlo,
scejéve ’l grano da ogni veccia ò rèsta.
Da quel barsòlo n’ te sfuggiva gnènte,
fatte dell’altre ne sapeve assàe,
chè pò’ t’ariccamàve nde la mente
e co’ la lingua n’ te zittave mae
e come nne ’n bèl gioco divertente
quante pecette appiccicate adàe!
Nu lo so più manch’io
Sento ’l richiamo de la terra mia,
l’odore antico che me porta ’l vento;
me metto ’n gròppa a la mi’ fantasia
e giù a lo Scòjo volo, nne ’n momento.
Ma llì nun trovo più la compagnia,
la casa è fredda e c’è ’l cammino stento…
sentènnome foresto pe’ la via,
me metto a piagne, scappo e po’ me pento.
Dio mio, la troverò, ’n giorno, la pace?
So’ stracco a fa’ su e giù, come ’n fringuello!
Ma ’l monno, ’ntorno, è come ’n muto: tace!
Di dentro inutilmente m’arrovèllo;
me sento ’n ferro che, doppo la brace,
se trova fra l’incudine e ’l martello.
A Bottacci, a Pèppe e al Mancino*
(è guase ’n testamento)
Vedo lo Scòjo sempre più lontano,
la Rocca vedo sempre più sfocata.
Dio mio, ch’ho fatto?! Méttece le mano,
sbròjeme ’sta matassa ’mpatassata!
Ma l’eco scegne giù dal monte al piano
e la mi’ voce passa e n’è ascortata,
me svejo e ’l sogno de torna’ al Bassano
svanisce, come nebbia assolinata.
E più ce penso e sempre è meno chiaro,
qui dentro so’ cascato e più n’ se sòrte;
vòto ’l bicchiere e più del fiele è amaro!
Però ve chiedo, mille e mille vòrte,
che ’l corpo mio, pure su ’n sumaro,
s’ha da porta’ laggiù, doppo la morte.
* Eugenio Bottacci, Giuseppe Morra, Angelo Pierantozzi, intimi amici del poeta.
Scòjo: il monte della Rocca, simbolo del paese di Tolfa. Sbròjeme… ’mpatassata: risolvimi questa situazione confusa; al Bassano: rione tolfetano; assolinata: dissolta dal sole.
Cenni biobibliografici
Acciaroli Domenico (Tolfa 1912-1998), poeta in ottava rima, si è distinto in numerose gare poetiche vincendo premi e trofei. Sue poesie sono presenti nell’antologia Canti e versi dei Monti della Tolfa e in Brezza sul monte. A p. 235 di Verba manent è riportata un’ottava ricordata a memoria dalla cugina Caterina Acciaroli.
Battilocchio Bartolomeo (1875-1952). In Verba manent (pp. 236-240) vengono riportati il documento rilasciato nel 1904 dal Comune di Tolfa a Bartolomeo Battilocchio, merciaio e poeta, per l’esercizio del mestiere di Cantore ambulante e la sua poesia in ottave “Grandezza italiana”. Interessante il capitolo “La ramificazione dal modello Bartolomeo Battilocchio agli altri modelli” (pp. 48-50).
Belloni Giacomo (Tolfa 1863-1944), poeta popolare estemporaneo, dotato di buone capacità di improvvisatore. I versi di Belloni sono stati trascritti fedelmente dal figlio Luigi secondo la dettatura a memoria del figlio Merlino. Sue poesie sono in Canti e versi dei Monti della Tolfa. In Estemporanea è presente un suo ricordo (pp. 78-85) con note biografiche e alcune poesie in lingua e in dialetto.
Carolini Antonio è nato nel 1919 a Tolfa. Calzolaio, poeta a braccio, è stato nel consiglio direttivo del Circolo Bartolomeo Battilocchio, dove era molto apprezzato per la voce intonata e altamente canora. Sue poesie sono presenti in Canti e versi dei Monti della Tolfa e in Brezza sul monte.
Copponi Enzo, detto “Il Ficaro”, è nato ad Allumiere nel 1937. A scoprire il suo estro poetico sono stati gli amici del Circolo Culturale B. Battilocchio di Tolfa. è presente in Canti e versi dei Monti della Tolfa e in Brezza sul monte.
Finocchi Franco è nato a Tolfa nel 1938. In possesso della sola licenza elementare, ha voluto conseguire, nel 1984 a Civitavecchia all’età di 46 anni, grazie alla scuola serale delle “150 ore”, quella di scuola media inferiore. Per 39 anni è stato operaio specializzato presso il deposito costiero di Civitavecchia. Suoi versi, assieme alla poesia “L’Italia malata” sono in Verba manent.
Mignanti Balilla è nato nel 1923 a Tolfa, dove è stato dipendente della Provincia di Roma come capo cantoniere. Ha pubblicato i libri di poesie dialettali A zompe guase a scarto de cavallo (1984); Lo scojo. Due passi in punta di cuore (1996); (Ingrata…amara), ma tanto amata terra (2000). è presente in Canti e versi dei Monti della Tolfa e in Brezza sul monte. Suoi versi sono pure in Verba manent (pp. 95-111).
Monaldi Agnese è nata ad Allumiere il 27 ottobre 1946. è sposata dal 1968 ed ha tre figli. Ha svolto l’attività di commerciante, gestendo un negozio di abbigliamento a Civitavecchia, dove abita. Ha pubblicato quattro raccolte di poesia: Voci nel cuore (la storia di sua madre), La mia terra (usi e costumi di Allumiere), Pensieri degli angeli e Satire e pensieri d’amore. E’ presente in Verba manent (pp. 127-138).
Moggi Bruno, detto Brunetto (Tolfa 1914-2006), ha interrotto le scuole in seconda elementare per lavorare nei campi. Già a 12 anni manifesta il suo amore per la poesia. Autodidatta, si è dedicato con passione alla lettura di libri classici e mitologici. Esordì come poeta a braccio in un ristorante di Torvaianica, ottenendo in seguito numerosi premi in gare poetiche. è presente in Canti e versi dei Monti della Tolfa, in Brezza sul monte e in Verba manent (pp. 113-125).
Pierrettori Ettore è nato a Tolfa (RM) il 16 giugno 1927. è stato insegnante di Educazione fisica a Grosseto dove risiede da pensionato. Nel 1982, per i tipi del Gruppo Editoriale Forma di Torino, nella Collana “Biblioteca degli scrittori in dialetto e lingue altre”, diretta da Tullio De Mauro e Maurizio Pallante, ha pubblicato la raccolta poetica in dialetto tolfetano La Tòrfa dal barsòlo. Ha poi pubblicato A la Tòrfa … da lontano. Poesie in dialetto torfetano (Roma, Nuova Impronta Edizioni,1994), a cura di Giuseppe Morra e Eugenio Bottacci con prefazione di Tullio De Mauro e presentazione di Giovanni Barone.
Tagliani Mauro è nato nel 1962 a Tolfa, dove risiede. è presente in Canti e versi dei Monti della Tolfa.
tina Gargioli.
Zenti Ugo è nato nel 1922 a Tolfa risiedendovi fino al 1947. Ha prestato servizio nella Pubblica Sicurezza. Da pensionato, vive a Livorno. Ma Tolfa è sempre rimasta la sua vera terra e i ricordi delle vie e di alcuni personaggi tipici tolfetani ispirano spesso le sue poesie. Suoi versi sono in Canti e versi dei Monti della Tolfa e in Brezza sul monte.
Bibliografia
Amabili, Marco – Compagnucci, Alessandra, Verba manent. Pensare e Sentire i Poeti a Braccio dei Monti della Tolfa, Proloco Tolfa, 2003
Bianchi, Ferdinando, Storia dei Tolfetani. Dalle origini alla fine dello stato pontificio, Tolfa, s. e., 1984.
Bianchi, Ferdinando, Racconti inediti, manoscritto.
Bianchi, Ferdinando, L’insorgenza antifrancese (e altri miti e storie della Tolfa), Comune di Tolfa, [Tipolitografia Cooperate di Santa Severa], 1999.
Bottacci, Eugenio (a c. di), Estemporanea, Tolfa, Circolo culturale Giacomo Belloni, 1983.
Brezza sul monte, antologia, Tolfa (RM), Circolo poetico-culturale Bartolomeo Battilocchio, 1983.
Canti e versi dei Monti della Tolfa. Antologia, Allumiere (RM), Comunità Montana Monti della Tolfa, 1980.
Mignanti, Balilla, A zompe guase a scarto de cavallo, s. l., s. e.,1984.
Mignanti, Balilla, Lo scojo … Due passi in punta di cuore. Saggio autobiografico, s. e., [La Litografica, Civitavecchia], 1996.
Mignanti, Balilla, (Ingrata… amara) ma sempre amata terra. Usi e costumi, Ass. Pro Loco Tolfa, 2000
Pierrettori, Ettore, La Tòrfa dal barsòlo. Poesie in dialetto tolfetano, Torino, Gruppo Edit. Forma, 1982.
Pierrettori, Ettore, A la Tòrfa … da lontano. Poesie in dialetto tolfetano, Roma, Nuova Impronta edizioni, 1994.
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