Genzano (435 m slm – 22178 ab., detti Genzanesi – sup. 18,15 kmq). A 28 km da Roma. Sorge nell’area Lanuvina dei Colli Albani, sul versante esterno meridionale del cratere del lago di Nemi, attraversato dal fosso di Montagnano e dal fosso di valle Caia, presso la sorgente di Faiola.
IL DIALETTO DI GENZANO:
Il genzanese. Mario Dell’Arco nella premessa del suo Folclore in Genzano di Roma, Genzano di Roma, 1982, afferma che le sue “antenne dell’apprenti-folclorista hanno vibrato, o ogni passo, all’impatto con le tradizioni popolari, i vocaboli arcaici, i soprannomi: come la verga del rabdomante sulla nascosta vena dell’acqua”. Di questo libro faremo ampio uso nella redazione della nostra scheda, sapendo che esso è stato ispirato dal grande desiderio del poeta di “percorrerlo, frammischiarsi alla gente, coglierne i discorsi, assaporarne il dialetto”. Recuperandone “tramite l’anziano di mente limpida, canti e stornelli, filastrocche e giochi infantili, vocaboli caduti dall’uso, soprannomi. Magari rintracciare smarriti toponimi…”
Complementare all’uso del libro del poeta sarà l’uso che faremo di un altro prezioso volumetto a cura di Anna Baldazzi, Genzano tra memoria e nostalgia. Incontri generazionali, Edizione speciale 2000 della rivista “Castelli Romani.
Testi dialettali genzanesi sono presenti nella tesi di di laurea di Federica Cerretti. Prose interessanti sono quelle di Lucia ’a Panacca (Cfr sezione Teatro).
- I vocabolari e le grammatiche
I glossari che accompagnano i racconti di Lucia ’a Panacca in Lucia nel paese delle meraviglie, rappresentano una preziosa guida nelle espressioni tipiche dialettali di Genzano, spesso accompagnate dai salaci commenti dell’anonimo autore. Eccone una spigolatura:
cria: in termini quantitativi un pizzico. Corrisponde ad una modica quantità di materia grigia consentita nel cranio dei forza italioti;
gnommeru: gomitolo inestricabile: Es. figurativo: “’u sindicu e ’a segretaria fanno gnommeru”;
sgrullata: scossone, anche ripetuto ritmicamente. In anatomia: gesto purificatorio dei maschietti dopo un’abbontante minzione. Figurativo: Cisterninu è natu ’a notte de ’a sgrullata;
puschia: schiumetta salivare, particolarmente abbondante nelle bocche degli anziani (e non solo) della piazza quando passa una bella sorica (grossa topa molto appariscente. Diminutivo: sorichetta: quattro di denari);
fucerdolini: lucertoline; gozzillucci. In senso figurativo si dice che assalgono il petto delle persone sconvolte;
stemperò: diarrea, incontinenza intestinale. Scientificamente: cacarella a fischiu;
caprona: adulterata, tradita, cornificata, vedi corrispettivo americano: Hillary;
stracinoni: portarsi avanti a fatica. Andamento tipico dei dipendenti comunali al mattino;
’ngallato: participio passato del verbo ingallare, un velletranismo che significa trombare, snerchiare,’nzifonare;
girupettu: struppiamento del termine scientifico “angina pectoris”;
baggicarelle: sensazione soggettiva di luccicarelle (lucciole) agli occhi;
rapazzòla: letto con materasso vegetale di canna foglia e foglie di tùtero;
scopìu: sottospecie di ginestra selvatica, i cui rami vengono anche utilizzati per costruire le ramazze dei netturbini o anche rudimentali capanne. Es. architettonico: “u museu de l’Infiorata è più bruttu de ’na capanna de scopìu, e gusta pure qua’ cosetta de più…”;
lopìni: calli, occhi di pernice;
faciòli de ’a reggina: mitica qualità di legumi che, assieme ai “faciòli coll’occhiu” hanno per decenni ’ngorfato ’e budella dei genzanesi, ’ncollénnise ’a soma de chello che ce sta scritto appresso…;
scoreggette vestite: non lasciatevi ingannare dall’innocuo diminutivo: si tratta comunque di un evento catastrofico!;
buffacchiére: colui che deliberatamente e scientificamente fa ’n zaccu de buffi”, cioè di debiti.
In Boscaioli e carbonai, Maria Pia Santangeli traccia un’interessante descrizione dell’attività dei rogaròli di Genzano.
In estate, sui selci caldi di sole della vecchia Genzano, vicino ai gradini delle case, si vedevano dappertutto roghi e roghi ad asciugare. Proprio roghi venivano detti in toscano antico i giovani rami di rovo, che i rogaròli avevano raccolto nei boschi e poi diviso per lungo in due o in quattro parti, a seconda della grossezza. Dopo alcuni giorni, contati accuratamente e stretti in mucchi di cento, venivano riposti nei soppalchi delle cantine o portati a vendere in piazza dell’Opra, la piazza dell’ingaggio dei braccianti, oppure nei mercati dei paesi vicini. Ammollati prima dell’uso, servivano – a migliaia – per legare le viti delle campagne di Valle Riccia, di Albano e di Genzano stessa. Tanti roghi ad asciugare e uomini e donne, davanti alle porte spalancate di case e cantine, che li pulivano delle spine con ’a roncitèlla e poi li spaccavano con un coltello, detto mozzétta. “Se vennemo i roghi, quest’anno a mezz’agosto compremo ’u pollettu”. Per i braccianti, che d’estate avevano poco lavoro, la vendita dei roghi era indispensabile. (…) I rogaròli uscivano di casa con la luna: volevano essere nei boschi appena giorno. Era meno fatica e le vipere erano ancora intorpidite a quell’ora. I rami che venivano raccolti erano quelli giovani, lunghi, che non portano more.
C’era anche un altro tipo di pianta che poteva essere utile ’a razzòla, ma era meno resistente. Per salvarsi dalle spine, i rogaròli tenevano in mano un pezzo de sòla, la suola di una scarpa vecchia, o si aiutavano con un vecchio berretto, che più era sporco e unto meglio era. Il fascio su una spalla, coperta da un sacco, veniva portato subito a casa perché i roghi dovevano essere spaccati freschi. E le mogli aiutavano.
Quello presente nelle pagine finali del Folclore in Genzano di Roma di Mario Dell’Arco è “un vocabolario essenziale, limitato ai vocaboli che più si discostano dalla lingua. Anche vocaboli arcaici, caduti dall’uso (…) Patois de l’âme offerto anche al ‘giovane’ perché si renda conto di quante gemme sia diminuito il forziere del proprio dialetto”. Ed ecco una scelta tra gli oltre 300 vocaboli selezionati dal poeta genzanese:
allaccia-allaccia (vicino-vicino), assìgge (resistere), baggianelle (faville agli occhi), bavella (cotone idrofilo), bevanna (vino ottenuto dalla svinatura), bocchiera (Fascetto di fieno per il cavallo del carrettiere a vino), brugnolu (pugno), budicchiu (involto), bussolanu (dolcetto di miele e mandorle), cacalavero (bacca del lauro), cacciata (germoglio della vite), cànterà, è na (un sudicione), capelificca (capriola), capischiere (vassoio di legno rettangolare), càpito (germoglio della vite), caravina (gravina, piccone), cartoccia (arnese di ferro per piantare pali), catana (bisaccia), chioppu (brutta caduta), ciacca-femminelle (donnaiolo), ciafròcchela (naso a patata), cicittu (pallina o pallino del gioco delle bocce), cioppara (ceppo di legno), cojarella (sassolino tondo), copintu, sta (stare impalato), criàbbitu (orazione da parte d’un mago per fornire notizie di qualcuno), criati (figli piccoli), cucurizzu (monticello di terra), denti de vecchi (cannelli di vecchi), drondru (malmesso), edilizzie (itterizie), effigine (effige), faletta (favoletta), faròla (tarma del legume), formale (buca del terreno), furcina (cappotta del carretto a vino), gisbusci (scarpe festive), golà (volare), gumèra (aquilone; per traslato, baccalà intero secco), incavacciatu (costipato), inferitu (arrabbiato), ingiuccasse (chinarsi), ingregnitu (rattrappito dal freddo), ìnite (sbrigati!), làmpina (lampada a olio), lesciòla (varecchina), livu (olivo), luccicarella (lucciola), lopìna, a la (sguardo di traverso), luffu (rene), manciola (braccio stanco), mazzacchera (lombrico), mazzacutu (rozzo, grossolano), pampuja (sterpaglia secca), pàrtine (paletot), pedicucciu (picciolo), pentu-pentu (su misura), perdiconcinu (piccola prugna), pioto-pioto (lemme-lemme), pomata (sapone da barba), puga (aculeo dell’istrice), pulicà (pulire i cereali), puschia (schiuma), putria (fanghiglia), racìna (incrostazione della botte), ràmicio (malridotto), riartu (spuntino), rigruiato (sgualcito), ruspu, annà de (spigolare), saéttola (tralcio di vite da mettere a dimora), scantosciasse (distaccarsi, allontanarsi), schiantu, schiantarellu (racimolo), scriatu (sparito), sfrasu (parte irrecuperabile), sghiorru (persona insignificante), sgofonatu (mangione), sgriccià (sfamarsi), sorellu (ramaiolo), sorrecchio (falcetto ricurvo), tarpanu (zotico), trama (brigata di giovani), trapogne (trapuntare), trigà (tardare), trommatu (ubriaco), trugnà (togliere il mallo alla noce), vornia (ripetizione noiosa), zacchera (macchia di fango), zappunettu (bicchierino per attingere il vino dalla botte), zeccà (salire).
In Genzano tra memoria e nostalgia. Incontri generazionali, l’insegnante delle classi 3A e 3B dell’elementare “C. Marchesi” (a. s. 1999/2000) introduce il Lessico Genzanese inserito nel volume, affermando che esso è il risultato del suo impegno più che ventennale e che raccoglie il lavoro di più cicli scolastici e “consente anche una valutazione longitudinale sul permanere/scomparire dei vocaboli in dialetto, l’evolversi della parlata genzanese. Esso risulta complessivamente composto di 446 lemmi; ma le parole raccolte durante quest’anno scolastico sono in numero inferiore a quello che componevano il Piccolo dizionario pubblicato dal Comune nel 1983 e distribuito in tutte le scuole di Genzano, quasi a dimostrare con nostalgia che il dialetto, aspetto prettamente umano della lingua, è un organismo vivente legato alla vita e agli uomini e con essi si modifica, si altera, cambia, inesorabilmente si perde”.
Ed ecco una nostra scelta di vocaboli dal testo citato:
burzaccinu (taschino interno), buzzicu; buzzicu rampichinu (barattolo; gioco a rincorrersi), cacalippa (paura), cacatu e pentu (del tutto rassomigliante a…), carrecchiere (guidatore di carretto a vino), cateragnacchera (vecchia strega che mangia i bambini), Cenduriendola (Cenerentola), cennisigheru (accendino), chiocchie (fossette delle guance), cionga (rilassamento dei muscoli di tutto il corpo), ciongu (sbronzo), coccetta (de sapò, residuo del pezzo di sapone che si dava che si dava alle bambine per avviarle a lavare i panni), cojarella (castagna appiattita, non maturata; persona fisicamente di poco peso), éllelu (eccolo), fìsica (angustia, ansia), gricciòli (brividi di freddo), grischianu (cristiano, persona), lacarolu (persona che va al lago a fare il bagno), mammanella (ostetrica di paese), martera (mobile di cucina), ncavacciatu (di persona che ha una cattiva digestione), ’nguarnellatu (uomo sottomesso alla donna), pannarolu (ragnatela), sbaviarella (sbadigliarella), scenta (discesa), scorzu (unità di misura per terreni: 1000 mq), scotettà (tagliare i tralci rimasti dopo la vendemmia), sruià (ripulire i rovi dalle spine), spetturiatu (scollato).
2. I proverbi e i modi di dire
Due proverbi genzanesi: Ce vònno de Fuligno li funari e de Genzano vecchio i rogaròli (addetti alla lavorazione dei roghi, cioè rovi) e: Chi beve l’acqua de San Bastiano / nun se potrà mai scordà Genzano.
E diversi modi di dire, e commenti, tratti da Lucia nel paese delle meraviglie di Lucia ’a Panacca:
carciu a ’u buciu: raccomandazione, spintarella, in cambio di voti o prestazioni da studio ovale;
pisto come l’onto: malmenare qualcuno così come fa il mortaio con il lardo;
cionga e longa: stremata e adagiata. Es.: “Quanno Pasqualina Napoletano ha saputo da Nando che ’u pidiesse era perzo ’mpar de mila voti, s’è sentita cionga e longa (e Nando ha pjato ’n sorecchiu e s’ha sgarato ’a panza comme ’n samurai);
’ngriccià ’a pelle: rabbrividire al sol pensiero;
guarisce più un tortore che ’a ricetta de ’n dottore;
Tè ’na lengua così zozza che se terìa da fa’ tutte ’e mmatine i gargarismi co’ ’a lisciola (candeggina);
te puzza ’o brodo grasso: disprezzare l’abbondanza;
’ggiustà ’u gelatu: indegno sotterfugio da nonni golosi per rubare vigliaccamente il gelato dei propri nipoti. L’abominevole stratagemma funziona così: “prima te còmprino ’n gelatinu de mille lirette (ciucu ciucu e nicu nicu) perché te dìchino che più grossu te farìa arrestu, po’ comìncino a ’ggiustàttelu co’ a lengua a diraspatrìce, co’ ’a scusa che te cola, lascènnite comme ’n stronzu, co’ ’n mano ’u conu vòtu, ma zozzu de gelatu…!.
I proverbi raccolti in Genzano tra memoria e nostalgia. Incontri generazionali sono frutto del lavoro svolto nell’ambito del Corso di formazione culturale per la Scuola Anziani, a. s. 1998/1999 da un gruppo formato da: Ida Lommi, Carolina Gramiccia, Rita Terribili, Marisa Iacoangeli, Angelo Giovanangeli, Ivana Sabatini, Ida Bianchi, Emora Nasoni, Emelinda Gramiccia, Onelia Belardi, Latini Cimini, Bruna Ferrari, Bruna Ferreri e coordinato da Luisa Bellardini. La raccolta è avvenuta con schede che sono state classificate per campi di significato e di contenuto. Eccone una scelta:
Acqua che conca! (Esclamazione attribuita a Gigi Sventola, personaggio folclorico che abitava la torre di Genzano vecchia e usava stornellare a braccio); a Genzano so tutte morette / a Ariccia so tutte ciovette; / a Arbano so perzica sfatte; / a Nemi so tutte stortacce; chiè a lengua peggio de a Panacca; e femmine de piazza Margherita, / so larghe de fianchi / e strette de vita; e femmine de Genzano vecchiu, / prima piìno maritu / e po’ u fanno seccu (o beccu); e femmine de a Nunziata / piìno marito / e po’ gne levino a corata; i ricciaroli co’ u garofolettu / i genzanesi co la rosa ’n petto; nun ce stanno né Santi né Madonne; / volemo a terra de Macchedonne (riferito alle lotte contadine e all’occupazione delle terre dei grandi latifondisti da parte dei braccianti agricoli); chi fa a maese / nse paga manco e spese; chi lavora ’n campagna / fatica ma nun magna; l’acqua che gabba u villanu / spenne poco e piove piano; na botta d’accetta / nun abbatte na quercia; u somaru se zoppa de vennegne; vota u bicchiere che è pienu, / jempi u bicchiere che è votu: / nu u tenè mai pienu / e nu u lascià mai votu; u patrone te liscia u pelu / e te porta via a pelle; u patró / è comme o vino au fiascu: / oggi è bonu e dimane è guastu; a gatta dentro a credenza / male fa e male penza; vajo all’ortu de zi Pio, / si nce sta issu ce sto io; l’aria che gira pe u corpu / trova u buciu e fa u bottu; l’erba nun fa stronzu; a piazza, o vinu e u lettu, / fanno l’omu poverettu; chiè quattro facce come u sapó; lunga vita e cortu lettu; nbaciu nun fa buciu; si magnato o dorce… / mo caca l’amaro; a colazione falla bona. / u pranzu prima dell’ora; / a merenna nun tardà, / sinnò a cena nu a po’ fa; e parole nun so maldette, / si nun so mal piate; si vo’ vede’ n’ome da poco, / mettigne mano femmina e focu; tre gocce d’acqua / nun fanno npantanu; u debbitu magna giornu e notte.
Alcuni modi di dire raccolti da Mario Dell’Arco: gnè vè fantasia puro d’ ’o féghito de crapa (per un buongustaio); me pare u stattezittu de Bonelli (a chi parla poco); dorme più d’u Siccu (al dormiglione), Sgreccia / più magna e più se ’nneccia; “Ce tenghi ’u canì” (detto a chi stravince al gioco); magna’e foje e po’ n’ ’e vo’ (rivolto all’insoddisfatto)
3. I toponimi e i soprannomi
Soprannomi – Riprendiamo la premessa di Mario Dell’Arco al capitolo sui soprannomi da lui raccolti (1.400) in Folclore in Genzano di Roma:
“Il soprannome nasce spontaneo sulle labbra del popolo. Intende sottolineare condensandoli in un vocabolo unico, gli altrui pregi (pochi), gli altrui difetti (molti), gli altrui tratti risibili (moltissimi). Sono palleggiati di padre in figlio, per intere generazioni. Qualcuno regge all’usura del tempo, qualcuno sparisce. Sostituito al nome di battesimo, diviene quasi un nome di battaglia.
Il soprannome è scherzevole: Leccapiatti, Fischia-e-frolla, Magna-onto, Che-ora-è, Merlugnudu. È maligno: Fiacco, Gobbittu, Rondinó, I-tre-ladroni, Bavosu. Sottolinea una deformità: Muccona, Nasogonu, Scucchió, Zannutu; o rivela una bellezza fisica e morale: Boccabella, Maria-a-dorce, Bellachioma, Bellopietro, Bella-d’ ’a Croce-santa. Allinea ortaggi: Faciolinu, Brocculó, Favetta; o frutta: Ficorella, Melasecca, Peru-ruzzu, Zi’persica. Rende omaggio ai divi del cinema: Scianèi, Sciarlotte, Zalamorte. Perseguita il bigotto: Baciagesù, Monicasanta; o il prete: Ziprete, Frató. Tira in ballo reali e nobili: Reggina-de-Monteggiove, Principe-de-Genzanu-vecchiu, Baronettu, Contetacchia. Si ispira agli uccelli: Chiù, Zarrettola, Frunguellu, Sbuciafratte, Grastica; agli animali: Canaccia, Cavallu, Leprettu, Gallinacciu, Lope; ai pesci: Tinga, Sardó, Ciriola, Porpu, Pescepuzzu; agli insetti: Cecala, Farfalló, Formichetta, Lapetta, Pidocchiella. Plagia talvolta la testata di giornale: Messaggeru, Tribbuna, L’Unità. Non trascura il personaggio famoso: Mussolini, Negus, Lumumba. Allinea le armi più disparate: Cannó, Pistola, Sciabboletta, Schioppittu, Spadinu. Infine è scatologico, amico al pari dello scarabeo della palla di sterco e la ruzzola, in luogo del parato, per le vie del paese: Cacarittu, Caca-stracci, Caca-zecchinu.
Scelta di soprannomi da Lucia ’a Panacca (esplicazioni incluse):
Peppe Lambretta: leggendaria figura di casarecciotto, svinatore e sommelier del popolo;
’Ncosciafredditu: sinonimo di “coscefredde”. Vezzeggiativo usato spesso dal compianto Gino per definire il suo successore; Giubileo;
Micchelò: mitico personaggio del folclore locale genzanese;
Tore ’u pelosu: il Petrarca della letteratura genzanese. Virtuoso poeta a braccio, fine dicitore dialettale;
’E monachelle: versione nostrana di Madre Teresa di Calcutta. Comme Teresa sgraveva ’i lebbrosi da ’o male, così ’e monachelle enno sarvate ’e recchie de mezzu Genzano, a fforza de perette d’acqua calla, pe’ levà tonnellate e tonnellate de tappi de cerume;
’A Zeppieri: leggendaria linea di diligenze che spaziava dalla ciociaria al West. Alle sue vetture si deve l’epica colonizzazione genzanese de “’a Fossa Beach” e de Marcavallo;
Filibberto ’u flipper: insuperabile ideologo ed eminenza grigia dei demo sinistri genzanesi. Al suo genio sfolgorante si devono assiomi del tipo: “Si mi’ nonno teneva cinque palle, era ’n flipper…”;
Buciuneru: popolare capitano di Sventura genzanese, destinato a rifondare in eterno il comunismo mondiale;
Armida ’a Ronghetta: simpaticissima fotocopia di Lucia ’a Panacca. È la reginetta indiscussa del chiacchiericcio vignaiolo, nonché del “taglia e cuci” quotidiano tanto in voga al Centro anziani di Genzano;
Ciccillo: pioniere dell’imprenditoria popolare, che ha campato ’na marea de fij, a forza de venne ’liva, fusaje e castagnole;
Luce perpetua: è il soprannome del simpatico decano degli elettricisti comunali, Commodini, il profeta del risparmio energetico;
Cita Pavone e Tederéno: una delle coppiette più famose d’Ariccia (dopo quelle affumicate d’Azzocchi…). Si deve a loro la geniale creazione del “Festipall de i sconosciuti”;
Trabbogna: maestrocerimoniere della vita notturna cimiteriale. Al suo genio folgorante e funesto si debbono invenzioni quali: “’a cassa a du’ piazze, i fornetti termoventilati, i loculi bbifamijari a schiera co’ vista su ’u lagu, ’u tresette co’ ’u mortu, l’omemortu, ’u mortu a galla, ’a manomorta, ’a mortatella, ’a mortingala (’u toto-neru de i campusantari…).
Intitolata, (con acrostico) a “Le vigne di Genzano” la poesia di Cladinoro Di Lello: La Pèdica e Ronciano: vino jotto. / E a l’Aspero, a Li Piani e in più a Presciano. // Vendemmia a li Scassati e a la Selvotta: / Infiorata de “greco” e marvasia. / Generose la Selva e la Fajola: / Nun pare vero, tutta cortesia. / Er moscatello a Montecagnoletto. // Dorce Pozzi-Boelli e Ginestreto; / Invece, “piscio d’angeli” a Suriano. / Gajardo cesanese a Pescarella / E m’ariposo giù a Pianomarano. / Novecento le bótte a Montegiove. / Zi’ ficca, vanga d’oro a Valleverta. / Acquaramata a Muti e Marcavallo. / Nun me scordo Stradone e Straonello / O Cinque Rubbia; vino tonnarello. // Doppo Stampija, Landi e Vigne Nove / In bottija. Da Màrmero c’è er “bello”. // Rugantine Crocette e Cellettara; / Ogni vite un barile a la Fornace. / Mejo Montecagnolo e Parmetane, / A Sangennaro metto l’ale e volo.
Toponimi
Nel libro prima citato, Dell’Arco, pur riconoscendo nel capitolo “Antica Toponomastica” il fatto che i toponimi odierni hanno ringiovanito la mappa urbana si esercita a “reinvecchiarli”, in preda alla nostalgia. Eccoli: costa Maratti, vicolo Sorbini e “della Sorbina”, piazza dell’Hostaria, piazzetta del Macello, piazza del Forno Venale, piazza del Forno a Socce, stradone di San Sebastiano, stradone degli Olmi (le olmate), Croce Santa, strada Livia, strada Sforza, piazza dell’Opera, piazza de Fòri, piazza dell’Erba, piazza Margherita, via Carolina, via del Montano, via e piazza dell’Oratorio, via Arco Scuro, corso Vecchio, via delle Fontanelle, via delle Pietre Antiche e Moderne, via della Costarella. E cita anche “i nomi di alcune località, cadute sotto le unghiate dei secoli e degli uomini”: il Cantone, la Porta, le Vinchiete, la Cona, i Porticali, il Celseto, la Pozza, il Castellano, la Pécima, il Cavone, la Pentimicchia, lo Scajó, l’Arcu-Scuru, Piazzó, Belvederuccio, la Madonnella, Oratorio della Coroncina.
Infine toponimi con commento di Lucia ’a Panacca:
Bon Simmental: struppiamento del nome “Von Siebenthal”, dall’omonima clinica psichiatrica;
Macchia dell’arquatani: piccolo polmone verde, situato a sorpresa tra ’u spidale, ’u monumentu de Padre Pio, l’antenna abbusiva de rete azzurra, ’u palazzacciu de Primus Gaiàr, ’a pretura fantasma, e ’a parrocchia virtuale de Don Claudio;
“La carovana de: i Caconi, i Cachini, i Cacanti, i Cacalento, i Cacarella, i Cacasìa, i Caca e curri, i Cacafava, i Cacafinu, i Cacamiràcheli, i Cacastracci, i Cacastronzi, i Cacazecchini, i Cacazzeppi, i Scacacciacancelli, i Scacacciari, i Scacacciati, i Scacciarella, i Fionnammerda, i Biloffe, i Loffa ceca, i Fischia e frolla, i Smerdacuscini, i Scoreggioni e i Pasquale mmerda”.
4. Canti – filastrocche-indovinelli – giochi – gastronomia – feste&sagre-altro
4.1 Canti
In Boscaioli e carbonai M. Pia Santangeli ricorda che le genzanesi mentre erano intente a pulire delle spine i roghi (rovi) cantavano questi stornelli:
Fior de limone / come se semo accompagnati bene / tra la micragna e la disperazione. // Fior de farina / tròvite bella mia che te ce sòna / a me me s’è passata ’a fantasia. // Fiore d’antènne, / la fettuccia se misura a canne, / misùrite ’sta scucchia che te pènne. // Te credi d’esse bella, bella tanto / dimmi le tue bellezze ’ndó ’e tiè / e si le porti sotto’a vestarella / perché ’n faccia n’ te l’ho viste mai.
Tre stornelli di Cladinoro Di Lello, da Finestre aperte su Genzano:
Facioli tonni: / ’nutile, mamma mia, che te ciaddanni!! / Tanto l’amore lo faccio pe l’ormi // Fior de gaggia / li pupi vonno bene a mamma sua, / io vojo bene a la regazza mia. // Fiore de canna: / ma chi te cià mannato, la Madonna? / O quela vecchierella
de sant’Anna?
In Canti popolari romani con un saggio di Canti del Lazio, Giggi Zanazzo presenta 75 stornelli di Genzano, dai quali scegliamo: 1230 – Noi semo genzanesi e vve lo dimo, / pavura nun avemo dé gnisuno: / ciavemo bbôna lengua e mmeglio mano! // 1231 – E ddrent’Arbano so’ tutte morette, / drento la ’Riccia so’ ppèrsica sfatte, / e a Genzano so’ bbriccocolétte! // 1232 – Poveri Civitani senza corata / ché ppé’ la strada se l’hanno perduta; / li genzanesi l’ahanno aritrovata. // 1246 – Fior de ’nsalata, / li genzanesi cercheno la dota: / gné damo Camposanto e l’Annunziata. // 1250 – Sora Nanna, / a la finestra tua cé so’ le corna; / parino du’ vovetti de campagna. // 1257 – Che serve che tté lavi e cche tt’allisci? / che sserve che tté facci ’s’i riccetti? / tanto ’ssi’ ccaccolosa e nun comparisci. // A la finestra tua cé so’ li sportelli / cé venghino a ccantà li pappagalli, / muccaccio spizzicato da l’ucelli. // 1277 – Fior dé livello, / mettete la gallina accant’ar gallo, / e lo vedrete che bber giocaréllo! // 1288 – Quando t’amavo a tté, ero pollanca (pollastra, cioè, piccola); / e mmó, bellino mio, me ne so’ accorta / e vann’a bburlà’ un’altra; a mme m’abbasta. // 1297 – A la finestra mia cé so’ li vasi, / a la finestra tua li panni stesi: / quest’è l’urione (il rione) de li ficcanasi. // 1302 – A la màmma der mi’ amore cortellate, / e ffattignele grosse le ferite, / spacca tigne él coraccio come le rape. // 1304 – Uh Ddio che ccallo! / Fàtimicelo metté un tanti nello / dentro la vostra stalla il mi’ cavallo.
Nel presentare una selezione di stornelli genzanesi in Folclore in Genzano di Roma, Mario Dell’Arco afferma: “Lo stornello è detto anche ‘fiore’, perché l’avvio è affidato a un fiore. Fiore comune (mughetto, giaggiolo, verbena). Fiore peregrino (pero, nocchia, riso). Fiore inverosimile (castoro, ricotta, sarmento). Consta di un quinario seguito da due endecasillabi, rimati o assonanti. Spesso gli endecasillabi sono tre e il fiore è sparito. Canto popolare, si leva a voce spiegata all’aria aperta: nel prato, nella vigna, nel campo di grano. Odora di mentuccia, si inghirlanda col pampano della vite, si indora al riflesso della spiga…”
Ecco alcuni stornelli:
Palomma d’oro: / vatte a posà a’e vigne a san Gennaru: / damme’n salutu a ’u regazzu miu. // O bella mora, / da quanno porti li pennenti a pera, / nun te pozzo dì più/ mezza parola. // Io de stornelli ne saccio ’na gregna, / me l’ha portati mamma da la vigna, / pe rigalalli a ti, muccu de fregna. // De giugno che se fanno le ’nfiorate, itu è l’amore mio a coje ’e rose. / Attenta e’e spine, ché ve puncicate. // Fior de livellu, / affàccete a ’a finestra brutta marru: / buttime ’na goccia d’acqua co ’u sorellu. // Fior de viola, / digne a la bella tia si è rotta o sana / ’a pila che crompò a piazza Nacona.
Il 27 aprile 2013 nel corso della presentazione del libro di Alessandro e Mirco Gallenzi Io de stornelli ne saccio na gregna (Edizioni Cofine, 2013) il linguista Claudio Porena ha svolto il seguente intervento a commento dei testi raccolti nel libro (250). Ecco il testo:
Il libro Io de stornelli ne saccio na gregna, Roma, Cofine, 2013, dei fratelli Mirco e Alessandro Gallenzi sugli stornelli a Genzano «è il frutto di una ricerca pluriennale, svolta sia sul campo, con interviste di prima mano a informatori locali, sia raccogliendo quanto era stato già edito in passato da studiosi di folclore, dialettologi o semplici appassionati». L’oggetto di studio sono gli stornelli, forme metriche generalmente di tre versi (nel libro sono testimoniati esempi anche di più versi) di cui il primo quinario (o endecasillabo) e gli altri endecasillabi, il primo e il terzo legati tra loro tendenzialmente da rima e legati al secondo tendenzialmente da semiassonanza e consonanza, non senza eccezioni, metriche e rimiche, dovute variamente a corruttele, interpolazioni, trascrizioni a orecchio, imperizia dell’improvvisatore (l’immentatore), ecc. In nota, vengono segnalati i loci critici, le varianti della tradizione, le proposte di emendamenti e/o di integrazione, le fonti, ecc.
Per la trascrizione sono stati seguiti in particolare i seguenti criteri: uso dell’accento in luogo dell’apostrofo per le apocopi, uso della dieresi metrica, scrizioni analitiche, ci attualizzante non agglutinato al verbo (per es. ci ho invece di ciò, ci avete invece di ciavéte, ecc.).
FONOMORFOLOGIA. Fenomeni generali. Epitesi o paragoge: giràne 14, 1 (T2), piàne 144, 1 T12), pïàne 249, 1 (T12), capane 153, 2 (T12), rubbàne 176, 2 (T2), virtùne 33, 1 (T12), Neguse 61, 3 (T1), mene 176, 3 (T2), ecc.; metatesi: bricocolette 51, 3 (T2), crompa 79, 3 (T12), batteccona 174, 3 (T2); sincope: orlòggiu 80, 3 (I1); discrezione e concrezione dell’articolo: l’urione 2, 3 (T2), st’urione 66, 1 (T2), 67, 1 (T2) vs stu rione 64, 1 (T12), ecc. Vocalismo tonico. Conservazione del monottongo latino: còre passim, mòre passim, ecc. Vocalismo atono. Conservazione della –u latina: muccacciu spizzicatu 3, 3 (T1), corpettinu 9, 2 (T1), niciunu 12, 2 (T1), 196, 2 (T2), 238, 3 (T2) vs niciuno 163, 2 (I2) e nessuno 70, 3 (I7), u lupu 67, 1 (T2), l’òrloggiu 80, 3 (I1), u sorellu 103, 3 (T2), l’ossu 113, 3 (T10), u monnu 119, 2 (T2), lu linaru 132, 2 (T10), u zinalettu 148, 2 (I1), bigonzu 169, 1 (T1), lu livu 177, 1 (T2), natru scalinu 205, 2 (T10), ecc.; labializzazione della vocale protonica in contesto labiale: ciovette 1, 2 (T10), giuvinotti 69, 2 (T12), spummidori (verbo) 89, 3 (T12), uprito ‘aperto’ 190, 3 (T2); chiusura della vocale protonica: cusì 238, 3 (T2), rigalata 187, 1 (T12); apofonia meccanica: fàtignele ‘fategliele’ 8, 2 (T2), spaccàtigne ‘spaccategli’ 8, 3 (T2), spuntino ‘spuntano’ 45, 2 (T12), ’ffaccite ‘affacciati’ 78-79, 1 (T12) e 80-81 (I1), monichella 110, 2 (T2), pareno ‘paiono’ 212, 3 (T12), facétimelo ‘fatemelo’ 244, 2 (T2). Consonantismo. Affricazione della sibilante dopo nasale e liquida: perzica 1, 3 (T10), 152, 1 (T3), 153, 1 e 3 (-o T12), vorzuto 181, 3 (T2), ’nzogno (verbo) 243, 1 (T12), ecc.; affricata prepalatale spirantizzata: ucelli 3, 3 (T1), facioli 76, 1 (T12), 77, 1 (I1), niciunu/niciuno/niciuna 12, 2 (T1), 196, 2 (T2), 238, 3 (T2), 163, 2 (I2), 122, 2 (T2); assordimento delle occlusive sonore: patri 20, 1 (T2), patrona 81, 3 (I1); lenizione delle occlusive sorde: guasi guasi 4, 3 (I1), migragna 99, 3 (T10), grespigna 225, 3 (T12); assimilazione progressiva totale del nesso nd: tènne 5, 1 (T2 : pretenne 3), granne 5, 2 (T2), quanno 23, 2 (T2 vicino a tondi : confondi e commandi), annà e monno 60, 1 (T12), prenne 69, 2 (T12), cannela 178, 2 (T12), pennenti 198, 2 (I1), ecc.; assimilazione progressiva totale del nesso mb: palomma 73, 2 (T12), 203, 1 (T6), bammace 83, 1 (T12); geminazione delle nasali: ommini 26, 2 (T1), 212, 1 (T12), cammera 33, 2 (T12), nummeri 123, 3 (T3), commanda (-à) 39, 2-3 (T2), commanno (134, 2 (T12), stammatina 217, 3 (I1), spummidori (verbo) 89, 3 (T12), mmalati e mmalatia (68, 2-3 (T1), comme 99, 2 (T10); dileguo della laterale: natru ‘un altro’ 205, 2 (T10); mancata labializzazione della velare: chist’anno 89, 3 (T12), chella 92, 2 (T2), 127, 3 (T1); passaggio tj > chj: chié ‘tiene’ 61, 2 (T1), carrecchieri 131, 3 (T12); passaggio b > v: vovetti ‘bovetti’ 11, 3 (T2); mancata anafonesi: lenguaccia 13, 3 (T12), lengua 54, 2 (T12), 196, 3 (T2), 239, 2 (T12), lengua (pezzuta) 136, 4 (T10), 157, 3 (T12); ecc.
MORFOLOGIA. Lex Porena: i sportelli 3, 1 (T1), a conca 24, 2 (T5), e carte 26, 3 (T1), a piazza e a Chiesa 31, 1-2 (T1), i riccioletti 36, 1 (T12), e rose 49, 2 (T1), i mattoni 100, 2 (T10), a coccia 104, 3 (T1), a pila 120, 3 (T1), a sua razza 124, 3 (I1), e scale 125, 3 (I1); negazione apocopata: n’ se la magna 48, 2 (I1), n’ c’è nessuno 70, 3 (I7), n’ me lo vòi buttà 81, 3 (I1), n’ se la fa più 114, 3 (I1), n’ ce rientra 138, 3 (T12), n’ se lavora 173, 2 (I7), n’arde 179, 3 (nun arde I7), n’ te l’ho viste mai (T10 > nun te); articolo neutro lo vs maschile lu: lo sole 33, 1 (T12), lo mare 53, 1 (T12); 54, 1 (T12), lo mi’ amore 56, 1 (T12); 57, 1 (T12), 58, 1 (T12), lo lino 132, 2 (T10), lo tuo male 250, 2 (T12), ecc.; metaplasmi di declinazione: ale 73, 2 (T12), le canzone 78, 2 (T12), dota 111, 2 (T2), educazzione ‘-i’ 151, 3 (T3), vita ‘vite’ 166, 1 (T12), gente ‘-i’ 179, 1 (I7); accordo di genere tra avverbio e aggettivo: tante ben fatte 55, 2 (T12), tanta bella 79, 3 (T12); gne ‘gli’ proclitico 9, 1 e 3 (T1), 111, 3 (T2), 154 (I1); gne enclitico 8, 2-3 (T2), 120, 2 (T1), 242, 2 (I7); dimostrativo deittico di II persona (< IPSUM): sso mercante 7, 2 (T12), ssa regazza 34, 1 (T2), ssi riccetti 40, 1 (I1), 41, 1 (T2), 42, 1 (T2), 44, 2 (T2), ssa bella voce 83, 2 (T12), ssa boccuccia 92, 3 (T2), ss’occhiucci belli 115, 3 (T12), ssa bianca mano 130, 3 (T2) vs stu rione/st’urione cit. e sta gialluta 249, 2 (T12), ecc.; possessivo enclitico: màmmita 176, 2 (T2); suffisso –aro < -ARIUS: sciacquatore 129, 2 (T10), piantinaro 164, 1 (T12), marinari 166, 2 (T12); participio forte (suffisso Ø): nun ho riposo ‘non ho riposato’ 14, 2 (T2), s’è strucca la corda ‘si è stuccata la corda’ 116, 3 (T12); scambio di ausiliari: si saputo e si capito 153, 2-3 (T12), te sò vorzuto 181, 3 (T2), sò uprito ‘ho aperto’ 190, 3 (T2), m’ho fatto ‘mi sono fatto’ 233, 2 (T10); congiuntivo analogico: facci ‘faccia’ 44, 2 (T2); condizionale di I persona in –ìa: vorrìa 175, 1-2 (I1); condizionale di I persona in –ebbe: vorebbe 176, 3 (T2); II persona plurale del presente indicativo della I coniugazione in –e: ve lavete ‘vi lavate’ 30, 2-3 (T10), ce portete ‘ci portate’ 148, 2 (I1), ecc.; forme particolari: pòzzo ‘posso’ 47, 1 (T12), 198, 3 (I1), 247, 1 (T12), 239, 1 (te pòzzino T12), 240, 1 (te pòzzino T12), saccio ‘so’ 50, 1 (T12), 170, 1 (I2), ecc.
SINTASSI. Dislocazioni a sinistra: A la finestra mia/tia ce sò li vasi 2, 1 (T2), 3, 1 (T1), 4, 1 (I1), 6, 1 (T12), A la finestra tua ce sò le tènne 5, 1 (T2), A la finestra tua ce sò le corna 11, 2 (T2), De ritornelli ne saccio na grégna 50, 1 (T12), le veci le farai de mi’ marito 47, 3 (T12), E pe st’urione ce batte la luna 66, 1 (T2), E pe st’urione c’è passatu u lupu 67, 1 (T2), la vita mïa […] l’ho da passà […] 160, 2-3 (I7), Io de stornelli ne saccio ’n bigonzu 169, 1 (T1), Io de stornelli ne saccio na grégna 170, 1 (I2), Io de stornelli ne so tanti 171, 1 (T1), chi de le morette ne dice male 143, 2 (T12), tutti li cuori li vorrei dipinge 221, 2 (I7); dislocazioni a destra: er Papa ce l’ha messi quindici anni 25, 3 (I7), pe compagnia me lo porto ’r sole 59, 2 (T12), E quanti n’ho girati de paesi / e quanti n’ho guariti de malati 69, 1-2 (T1), nun vedi che l’ha persi li colori 89, 2 (T12); risalita del clitico: n’ me lo vòi buttà ‘non vuoi buttarmelo’ 81, 3, (I1), me vojo divertì ‘voglio divertirmi’ 117, 2 (T2), Genzano lo pòi dì ’r mijor castello 162, 3 (T2), Io me ne vojo ì in California 173, 1 (I7), Pe dispettacciu gne vorrìa esse nòra 175, 2 (I1); perifrasi deontica avere + da + infinito: ma come ho da fà io? 142, 3 (T12), l’ho da passà 160, 3 (I7), ce n’ho da caricà sei bastimenti 171, 2 (T1), ecc.
LESSICO. perzica ‘pesca’ 1, 3 (T10), 51, 2 (persica T2), 152, 1 (T3), 153, 1 e 3 (-o T12), muccacciu 3, 3 (T1), muccu 169, 3 (T1), 170, 3 (I2), Anda ‘guarda!’ 20, 1, (T2), ì ‘andare’ 24, 1 (jate T5) e passim, grégna ‘covone’ 50, 1 (T12), 170, 1 (I2), burli ‘bulli’ 63, 1-3 (I7), palomma ‘colomba’ 73, 2 (T12), 203, 1 (T6), spummidori (verbo) ‘la sfanghi’ 89, 3 (T12), migragna ‘miseria, povertà 99, 3 (T10), pèntime ‘pendii scoscesi’ 101, 2 (T10), sorellu ‘paiolo’ 103, 3 (T2), cocozza ‘zucca’ 104, 2 (T1), strucca ‘stuccata’ 116, 3 (T12), pila ‘pentola’ 120, 3 (T1), beccalumi ‘beccamorti’ 121, 3 (T12), cascà ‘cadere’ 123, 2-3 (T3), schina ‘schiena’ 123, 3 (T3), bùzzichi ‘barattoli di latta’ 125, 1 (I1), nnàzzichi ‘oscilli, ondeggi’ 125, 2 (I1), rùzzichi ‘rotoli’ 125, 3 (I1), sciacquatore ‘lavandino’ 129, 2 (T10), sciornetta ‘schiocchina’ 129, 3 (T10), dà retta ‘prestare ascolto, obbedire’, 129, 3 (T10), pezzuta ‘appuntita’, 136, 4 (T10), 157, 3 (T12), peperone ‘grosso naso’ 140, 2 (I1), scucchia ‘bazza’ 140, 3 (I1), fiara ‘fiamma’ 141, 2 (I1), immentatore ‘improvvisatore’ 144, 3 (T12), zinalettu ‘grembiulino’ 148, 2 (I1), marciate ‘buffonate’ 149, 3 (T3), rimetti ‘metti al riparo, ricoveri’ 152, 2 (T3), acquarone ‘acquazzone’ 152, 3 (T3), perzico giallone ‘varietà di pesca’, 153, 3 (T12), papetto ‘moneta da 2 paoli e 20 baiocchi’ 163, 3 (I2), piantinaro ‘semenzaio’ 164, 1 (T12), sgrigna (i denti) ‘digrigna (i denti)’ 164, 3 (T12), ua ‘uva’ 166, 1 (T12), zecca (verbo) ‘sale’ 166, 2 (T12), zécchi ‘sali’ 205, 2 (T10), bigonzu ‘bigoncio’ 169, 1 (T1), frégna ‘vulva’ 170, 3 (I2), se strina ‘si gela’ 174, 1 (T2), corata ‘interiora > coraggio’ 206, 1 (T5), pollanca ‘pollastra’ 210, 1 (T2), micco ‘sciocco’ 235, 2-3 (I1), capoccia ‘capo’ 237, 1 (T2), asciutta (verbo) ‘asciuga’ 237, 3 (T2), ecc.
ITALIANISMI. Apocopi mancate: vieni a convertir 21, 2 (T10), vorrei entrare 33, 2 (T12), lassare 57, 2 (T12), fan morire 57, 3 (T12), camminare 59, 3 (T12), allacciare 122, 2 (T2), onorare 124, 3 (I1), vedere 178, 2 (T12), 224, 3 (T12), negare 224, 1 (T12), partire 247, 1 (T12), tirare 247, 2 (T12), sono 53, 3 (T12), son 229, 2 (T12), ecc.; dittongamento toscano: siete 25, 2 (I7), l’uomo 98, 3 (T12), nuova 178, 3 (T12); assimilazioni mancate: rimirarte 18, 2 (T2), prendila 21, 3 (T10), tondi : confondi e comandi 23, 1-3 (T2); ci attualizzante senza chiusura della vocale protonica: ci ho ecc. passim; mancata chiusura della vocale protonica: nessuno 70, 3 (I7), nessun 211, 3 (I7), 229, 2 (T12); condizionale italiano: vorrei 33, 2 (T12), 134, 2 (T12), 145, 2 (I1), 219, 2-3 (T12), 221, 2-3 (I7); passato remoto: ’r sol vedei 22, 3 (T12), fidai… fui 241, 2-3 (T12); aggettivi possessivi italiani per forma e posizione: miei 18, 3 (T2), 39, 1 (T2), 222, 3, 5-6 (T10), i tuoi 80, 2 (I1), la mia mente 87, 2 (T12), la mia memoria 87, 2 (T12), i nostri còri 90, 3 (T12), la tua sposa 108, 3 (T10), der mio dolore 247, 3 (T12); enallage mancata: ’r mijor castello 162, 3 (T2); lessico italiano: diva 53, 2 (T12), arma ‘alma, anima’ 73, 3 (T12), ora 85, 2 (T2), rilucerebbe 225, 2 (T12), barze ‘balze’ 246, 2 (T12), caggiò ‘cagione’ 247, 3 (T12); stornelli quasi totalmente italiani: (Fiore de mòre,) / prima ch’io lascio te, mio dolce amore, / vorrei vedere i monti camminare 145, 2-3 (I1), In mezzo a un sasso / trovai scolpito in questo modo istesso: / «Viva l’amore» con «Maurizio abbasso» 165, 1-3 (T2), La penna del pavone potesse [possa] avere [avéne] 176, 1 (T2), a punta di diamante 204, 2 (T12), Quanno t’amavo io t’amava il sole, / t’amavano le sarde e i pesci al mare. / Mo ch’io n’te vojo più, nessun ti vuole 211, 2-3 (I7), Se l’acqua de lo mare fosse sangue / tutti li cuori li vorrei dipinge, / ma quello del mio amor vorrei fà piange 221, 1-3 (I7), Vorrei per te dottore diventare / e lo tuo male lo vorrei guarire / pe non vedette più, bello, penare 250, 1-3 (T12), ecc.
Ninnenanne
Dal libro di Mario Dell’Arco:
Ninna ooo, ninna ooo: / che pacenza che ce vo. / Co sti pupi nun c’è pace: / la pappetta nun gne piace: / vonno sta sempre a zinnà. / Pora mamma come fa?
Ninna nanna, ninna nanna / si t’addormi, dimane se magna (altrimenti la madre non può preparare il pane).
Coccodè, / mamma nun c’è. / È ita a la vigna: / quanno rivè / te dà la zinna (la ninna nanna è cantata da una sorellina).
4.2 Filastrocche, indovinelli, invocazioni, scongiuri
Dallo stesso libro di dell’Arco: uno scioglilingua: Vaio a Nettuno cojenno bottoni, / rivengo natenno (nuotando), bottoni cojenno; e alcune filastrocche:
Curri, munè, / ché mamma nun c’è. / È ita a la vigna: / quanno arivè te porta ’na pigna.
Sega moneta / le donne de Gaeta / che filino la seta, / la seta e la bammace.
Giovanni me piace. / Me piace Giovanni / che fa cantà li galli, / li galli e le galline / co tutti li pucini. / Va giù a quer pozzo / va un po’ più giù: / ’u gallu fa “cuccuruccù”.
4.3 I giochi
Alcuni giochi tratti dal libro di Dell’Arco Folclore in Genzano di Roma.
Cuccumè: rivorta ciciottè! (ciciotta=conchiglia. È la forma dei bottoni. Il bambino si umettava il pollice di saliva e premeva sul bottone a terra per farlo capovolgere. Vinceva chi riusciva a rovesciarli tutti).
A cova (cova=sassolino. Il bambino lanciava in aria cinque cove e cercava di raccoglierle a volo sul dorso della mano. Tornava a lanciare quelle cadute a terra. Finché riusciva a raccoglierle tutte sul dorso della mano).
A cacio (si lanciavano forme di cacio come ruzzole. Vinceva chi riusciva con un certo numero di tiri a lanciare più lontano la propria forma).
4.4 La gastronomia
A“Er pane de Genzano”, onore e vanto locale) è dedicata questa poesia di Mario dell’Arco pubblicata su Apollo Buongustaio del 1996:
Acqua de fonte e sale, / farina de frumento, / lèvito naturale: / l’impasto è pronto. // Legna de sottobosco de castagno / già scoppietta e sfavilla drento ar forno: / tonna, croccante, jotta / fiorisce a punta d’arba la pagnotta. // “Sor Peppe, sora Nanna e sora Betta” / s’ariccomanna san Gregorio Magno: / “Pane cotto d’un giorno / e er sangue scorre mejo in ogni vena”. / Intanto er Santo affetta / e magna a bocca piena. // Er dio der pane è er Sole: / bacia la spiga verde e la fa d’oro. / Cinzia è la dea: / dea-luna che inargenta / la notte der fornaro. // Sia bruno o bionno, / unico ar monno er pane de Genzano / un pane-fiore, fiore da Infiorata. // Pane educato. / Ammollo ar caffellatte / e la famija intorno, / dice a tutti “bongiorno”. / Ammalappena / er desco è apparecchiato / a la luce der vino, / dice “bonpranzo”, dice “bonacena”. // Pane educato, pane affortunato. / A qualunquora / abbasta una carezza / d’ajo e d’ojo e de sale / su la fetta de pane abbrustolita / e viè fora gradita la bruschetta. // Odor de pane, / pane de Genzano. / Grazzie, Signore, / grazzie der “pane nostro quotidiano”.
5. I testi in prosa: il teatro, i racconti
“Il travaglio di una roccaforte rossa nel pieno trionfo capitalista attraverso i brani tratti da Il Giornale Locale” è l’ironico sottotitolo del libro di Lucia ’a Panacca, Lucia nel paese delle meraviglie, che passa in rassegna personaggi, storie e pettegolezzi di paese molto riconoscibili, anche se l’autore dei testi precisa di non riferirsi a persone reali. Impossibilitati a rispondere all’interrogativo su chi si celi sotto lo pseudonimo di Lucia, ecco la definizione nell’introduzione del libro di Corrado Lampe e attribuita al dott. Vairo Canterani: “L’incarnazione idealtipica della straordinaria saggezza popolare dell’ineguagliabile fiuto e intuito della vox popoli, della straordinaria lungimiranza e capacità analitica del senso comune popolare, il quale può essere sì bonario e sornione, ma mai idiota e del tutto vano.”
Il libro, molto divertente nel suo complesso, lo è ancor più nei raccontini di vita paesana, corredati di Glossario, tratto da “La zingarella”, dizionario universale tardogenzanovecchiese-italiano “(Rocevicche editore)”. Ne scegliamo uno di critica politico-amministrativa, argomento prediletto, intitolato “Fregna, nonna! E chi paga?” sottotitolo “Doppo dicino che Lucia tè ’a lengua longa!”:
Quanno succedino certe fresche e comme fa’ a statte zitta? Sentéte chesta: ’mpo’ de giorni fa (’u 29 de lugliu), stevo pe’ via Livia a spettà ch’apreva’a bottega de ’e gaudenzie (che una de esse è pure ’a socera de Gladio Napoleò, pora grischianaccia…). A ’n certu puntu, te vedo Giancarlo ’u sindicu, ribbadizzatu “’u fantasma formagginu” (perché nu’ ’u cchiappi manco si tte sbadizzi), che steva a ffa combinella co’ Èrmane, ’u “Rasputin” de ’a croce santa, che è comme’u pappagallu de ’u nemese: nu’ ’u senti mai parlà!
Issu dice che penza… T’o credo, co’ chell’anima de capoccia! C’era pure don Armando Iugliano, ch’u chiamino Cristoforo Colombo, perché a Genzano ha trovato l’America: penza che pija armeno tre stipendi (segretariu communale, direttore generale e capu dell’ufficiu cambiali).
’U quartu omminu era ’u ’ngegnere de ’u Commune, Castelli, soprannominatu ’u norcinu, perché fa mejo ’e sarcicce che i palazzetti de ’o sporte. Allora ho fatto faccia e gnò ditto: Aè, ma che è ’ssu riddunacciu? Congressu de vorpi, stragge de galline, eh? ’Chiappa e mme risponne ’u sindicu, mentre Èrmane gne suggerisceva senza parlà: “A Lucì, stemo a spettà Tito Flavio Gabbarini, ’u proconsole dell’imperu petruccianu. Tenemo da ì a Salerno a vedè certa robba de compiutere ma, ’o sa’ che c’è: l’appuntamentu è pe’ ’e otto, mo ce manca ’n quartu d’ora, ma chi ciò fa fa’ a sta’ stretti? ’Cchiappa e se ne jamo, e chi s’è vistu s’è vistu…! So’ montati sopra a ’n maghinò de lusso, ’mpar de sgommate e se ne so’ iti. A ’e otto precise, écchite che te ’rriva Tito Flavio. Guarda de qua, guarda de llà, po’ comincia a biastimà. Allora gne faccio: “E che se bbiastima così?” E issu: “A Lucì, quanno ce vò ce vò! Ma che sì vvisto ’u sindicu e n’atri tre?” E io gnò ditto: “Cellacchiò, mettigne ’o sale a ’a coda… Damò che se ne so’ iti! T’hanno fatto ormu!”
Ditto chesso, Tito Flavio se ’ncazza comme ’n picchiu, caccia ’u telefoninu e chiama i tassinari: “Venetime a pijà a ’u Commune e portetime de curza a Salerno!” Fino a llì, ho penzato: “Ha fatto proprio ’bbè, chissà sì che ttè i cojoni sotto! Guasi guasi a ’e prossime votazzio’ gnè crocio pure io…”. Doppo però ho spappolato Bonficò, che è unu d’u meschiere, e m’ha ditto che ’n viaggiu così gusta da ’e ottocentomilalire a ’n migliò. Arifregna, nonna! Aumentino sì ’e tasse: issi vanno cazzareggenno, e’ tassì gnu paghemo noi! E mò che vanno ’n Europa, chissi ce fanno’n buciu comme ’n’or de notte!
Ma Lucia ’a Panacca, imperversa anche sul web: www.panacca.it.
Infine ecco un brano di prosa di Dario Olivastrini in dialetto genzanese, pubblicato su “Controluce” (febbraio 2001) intitolato Era ’na vota
Esselu u Genzanese ’nticu, facetelu passà che va de prescia, t’hé da ì de cursa giù all’ortu de Prescianu a richiede. E esso u enzanese modemu pure ìssu va de prescia ma all’ortu ’n ce va più, preferisce i ’n piazza a chiacchierà. So’ cambiati i tempi, o benessere gna dato ’n capo, ’n tenno voia de fa ’n cazzu ssi magna a sbafu, però u chiacchiericciu nu ie manca ringrazienno Dio. (…) A u Genzanese ’nticu gne piaceva fa ’n saccu de cose de chelle genuine, o magnà veneva quasi tutto dall’ortu e o vino ognuno so faceva da sé, e vigne e tenevino comme ’n gioellu e po’ sotto casa a cantina co du’ botti e ’na grotta pe tene’ a robba ’n fresco, artro che frigoriferu. Mo so’ proprio pochi chilli grischiani che hanno ereditato sta curtura de passio’, a maggioranza fa prima a ì a u supermercatu ’ndo trovi de tutto e, pure se sa de plastica, che gne fa, tanto so’ bbituati da munelli e ’n ce fanno caso.
6. I testi di poesia
Considerato a buon diritto il quarto grande della poesia romanesca insieme a Belli, Pascarella, Trilussa, Mario dell’Arco (1905-1996), era fiero delle sue origini genzanesi: “Mio nonno Giovanni, vignaiolo genzanese riempiva d’ottobre trecento botti di vino e per meglio smerciarlo aveva aperto a Roma tredici osterie”. Nato a Roma – così Gino Cesaroni in occasione del suo funerale il 6 aprile 1996 – “nello stesso tempo si sentiva orgoglioso di considerarsi cittadino di Genzano ove era nato e vissuto suo padre e ove Mario aveva trascorso la sua infanzia. (…) Sentiva profondo il legame tra Roma e i Castelli Romani. E questa unità, questa integrazione tra Roma e i Castelli la sentiva profondamente e non soltanto perché il padre era nativo di Genzano e la madre di Marino, ed in questo si univa l’Infiorata alla Festa dell’Uva”.
Dell’Arco non considerava i Castelli una sorta di Arcadia e, giustamente, osserva Ugo Onorati (“Castelli Romani”, marzo-aprile 1996):
“Ciò che circonda il poeta non viene idealizzato ma nobilitato dalla sua parola. Dell’Arco non è estraneo, ma partecipa fino in fondo alla natura del posto e alle usanze della gente che vi abita. Se Genzano trova nelle sue poesie un posto d’onore (vedi la raccolta Genzano mon amour) gli altri luoghi dei Castelli non sono da meno, soprattutto nelle prose, pubblicate in prevalenza su questa rivista. Dal 1956 a oggi abbiamo contato più di cento interventi in poesia e in prosa, in parte raccolti nel delizioso volumetto del 1974 Invito ai Castelli Romani, ovvero diamo una breve tregua con dolce vino all’affannosa vita”.
Al suo paese natale ha dedicato i suoi libri di poesia Folclore a Genzano e Genzano mon amour. Bastano poche citazioni delle sue ultime poesie dedicate all’amato paese per rendersi conto della profondità del suo attaccamento: Non solo il Pane e il Vino al mio paese. / C’era una volta anche una piantina / esile, profumata, timidetta: / la Violetta …E ancora sul pane: Er dio der Pane è er sole / Bacia la spiga verde e la fa d’oro. / Cinzia è la dea: dea luna che m’argenta / la notte der Genzano. / Sia bruno o biondo, unico ar monno / er pane de Genzano, / un pane fiore
da Infiorata.
Renato Lefevre concludendo il suo saggio intitolato “I Castelli Romani” in Invito ai Castelli… ci invita a leggere due brani autobiografici di Mario dell’Arco, uno velato di accorata malinconia, che in fondo è sempre nell’animo di questo singolare poeta scrittore e saggista; l’altro in cui il poeta riscatta questa sua malinconia con una impennata di scanzonata sicumera, tutta romanesca e castellana:
“In vecchiaia sono tornato a Genzano dell’Infiorata. Olmi fronzuti, ricordavo, olmi liberi di calpestare l’erba del viale. Oggi in coma, nella strettoia delle bende di cemento sono rassegnati alla morte. Piango i miei olmi perduti: piango mia moglie perduta ma tuttora presente nel viale. Secco sotto a uno stormo / de fronne secche, hanno tajato l’ormo. / Sparito er tronco in riva ar prato, l’ombra / è rimasta sull’erba – e fermo all’ombra / dell’ormo morto te ritrovo viva. I miei figli, Maurizio e Marcello, invischiati nella storia dell’arte, sono a Roma. Lontani eppure vicini. Cerco di calcare con violenza i miei passi e renderne evidenti le orme. Un invito, un incitamento a ritrovarmi, quando (scomparso) avranno nostalgia di me. … Er matto, fermo avanti allo scaffale, / Belli o Trilussa o Pascarella: quale / scejjerà? Quatto-quatto / scejje dell’Arco. Allora nun è matto.”
Igino Argentini, nato a Genzano si è trasferito a Roma nel 1931, è rimasto legato al paese d’origine dove è spesso tornato per “n picchelu riartu” o “na rillegrazziò” in qualche cenetta o “stuzzichino” nel tinello. Ha collaborato dal 1952 alle riviste “Rugantino”, “Romanità” ed altre. Nel 1985 ha pubblicato Mesticanza genzanese, poesie e prose dedicate al paese natale, sia in dialetto genzanese che in romanesco, nel quale è inserita una presentazione di Mario dell’Arco, che gli dedica questo lusinghiero elogio:
“La misticanza di I. Argentini, genzanese a ventiquattro carati, è nata a due passi da Roma, a Genzano: Genzano, per intendersi meglio, dell’Infiorata. Forse rattiene anche il profumo dei fiori, tessuti in occasione del Corpus Domini nell’arazzo steso su via Livia. Invece di corolle e di petali di vario colore, agresti o educati nel giardino, I. Argentini, argentinamente tesse versi e l’arazzo presenta con semplicità, limpidezza e bravura ‘scenette, discorsi e curiosità nel dialetto genzanese’. Versi malinconici, vuoi umoristici, vuoi festosi. Anche prose e dialoghi: il tutto intriso d’un sano gusto popolaresco, d’una visione sorridente della vita. Versi nati lungo le olmate, o sulla china di Montepardo, o nella mareggiata di filari delle vigne, ove viene maturando la vita, ansiosa di darci il ‘licore animallegratore’.”
Ecco come Argentini descrive un incontro in un tinello (luogo in cui avviene la vinificazione) in “’U stuzzichinu a ’u tinellu”:
…“Come ’o volete? Asciutto oppure dorce? / Levète ’n po’ da mezzo ssu bigonzu. // Tu da ’na sciacquatina a ssi bicchieri. / Pia l’acqua, sta lli dentro a ssu mastellu / che ce n’è rivanzata ’n po’ de ieri. / Mo ve do chesto qua de ’u caratellu. // Tu areggime ’n cenicu ’sta cannela. / Arzela ’n po’ più ssu… chesta è ’a magnera! / Ammazza! Guarda ’n po’ che ragnatela”. / “Ma ’o vedi che me sta ’mpiastra’ de cera?” // “’N broccone è sufficente? V’o bevete?” / “Avoja! Porta qua, jempi ’u bucale” / “’Sto vino pare ’n barzimo; ’o sentete?” / “E’ robba fina, qualità speciale!”
Cladinoro Di Lello, poeta in dialetto romanesco, ha dedicato al paese dell’Infiorata la raccolta Finestre aperte su Genzano, poesie semplici dal suggestivo interesse folcloristico, come ad es.,“Scalette” (Diciotto le scalette, // Cijo de travertino / e griggio er sampietrino. // Quanno è giugno se vesteno / de rose, de ginestre, / e de garofoli. // È pronto er defilè de l’Infiorata), impegnate a mettere in evidenza sia i valori delle cose perdute, sia i vocaboli caduti dall’uso comune, sia gli smarriti topònimi. (Segnaliamo quelli, numerosi, della poesia “Le vigne di Genzano”, nella nostra
sezione.) Ma Di Lello sa anche essere poeta lirico:
In “Bervederuccio”: Perla de li Castelli / Genzano: una loggetta, / un bosco e piagge verdi. // S’arispecchia ner lago, / se pèttina coll’onna e fa toletta.
In “La Sorbina”: Er faro de la notte / è la fraschetta verde for de mano / che sversa dar bucale / er mejo vino fresco; / è bianco, è rosso er gotto de Genzano. // Intanto li tinelli / canteno li stornelli romaneschi
e nella splendida “L’Ormate” nella nostra Antologia. Ne “La strada de la Croce Santa” riecheggia l’epica delle lotte contadine e dell’occupazione delle terre:
È tutto un serra-serra / de zappe, e vanghe, e sorrecchi arrotati: / vanno a occupà li Muti, / Presciano e Marcavallo. // E la terra approfitta: / butta fòra er vassallo. // E taja, e ammucchia, e abbrucia / zeppi, fratte e rogare. // E la vanga contenta / apre la fitta / ar bidente che attacca lo scassato. // A primavera / sbottona er filaro, / piagne la vite e ride la sementa.
Nella sezione a ciò dedicata infine abbiamo inserito quattro stornelli di suo conio.
Da Splendore dei Castelli Romani di Luigi Devoti riportiamo questa poesia di Arnaldo Di Biagio, dedicata a Grottaferrata:
(…) C’è l’aria bona, è vero, l’alegria, / un vino pe’ sborgnasse a communione, / ma chi l’ha scritto ne la giografia / è un monaco co’ tanto de cordone. // Se chiamava San Nilo da Rossano / e da una grotta chiusa da una grata / raccapezzò un convento basiliano. // E attorno attorno fabbricò er castello / che poi lo battezzò Grottaferrata / pe’ via de la ferrata e der tinello.
Antologia
MARIO DELL’ARCO
Una a una scancello
Una a una scancello
dall’occhi guje e cuppole – e scarrozzo
lungo l’Appia. L’ormata
è una freccia puntata sur tinello.
Cinzia se specchia in acqua, io ner trebbiano:
m’ariposo a Genzano
de sessant’anni d’ozzio.
Un fiore in bocca
Senza un pensiero, senza
un affanno, sdraiato sotto all’ormo
ammazzo l’ore.
Er vento a scaja a scaja
sparpaja intorno semi, Abbi pazzienza
e domani te nasce in bocca un fiore.
Come un’ape
Sia San Gennaro, sia Montecagnolo,
sia Pèdica, è buffo:
abbasta un tuffo
drento a la vigna – e un vago de moscato,
uno de marvasia,
uno de cerasolo, sbrodolato
de sugo d’uva come un’ape, volo.
Trebbiano de Genzano
Trebbiano de Genzano.
Ar primo gotto ignotto
l’ormata: un artro gotto
e ignotto er lago: un artro gotto e ignotto
via Livia e l’Infiorata.
Arrivo ar fonno der bucale, e c’è
Genzano dentro a me.
E bevo fiori e vino
Una ventata spalla l’Infiorata
e dar tinello de via Livia cola,
colore der rubbino,
una marrana. A galla
er petalo de rosa, de viola,
de garofolo. E bevo fiori e vino.
Da Genzano mon amour (1991)
CLADINORO DI LELLO
L’Ormate
Arberi senza l’anima
stracco er soriso.
Rami insecchiti e ignudi,
che strappeno dar celo nuvoloso
tant’acce de turchino.
Una sgrullata
e sboccia da ogni rama
la gemma sprofumata.
Una grillanna sopra la capoccia
è primavera.
La rondinella fa la canofiena.
Cenni biobibliografici
Argentini Igino, nato a Genzano, si è trasferito a Roma nel 1931. Ha collaborato dal 1952 alle riviste “Rugantino”, “Romanità” ed altre. Nel 1985 ha pubblicato Mesticanza genzanese, raccolta poetica dedicata al suo paese natale, in dialetto sia genzanese che romanesco
Mario dell’Arco (1905-1996) è considerato il quarto grande della poesia romanesca insieme a Belli, Pascarella, Trilussa, Mario dell’Arco
Di Lello Cladinoro, poeta in dialetto romanesco nel 1990 ha dedicato al paese dell’Infiorata la raccolta di poesie Finestre aperte su Genzano (edizione accresciuta rispetto a un precedente libretto). È anche autore delle raccole poetiche Frutti di staggione (1976) e Pianto per mio figlio (1978) e di Il principe Roberto (narrativa, 1977).
Di Biagio Arnaldo, poeta di Grottaferrata. Una sua poesia dedicata alla cittadina è in Splendore dei Castelli Romani di L. Devoti
Lucia ’a Panacca, pseudonimo di un autore genzanese di dissacranti racconti di vita locale pubblicati nel libro Lucia nel paese delle meraviglie.
Olivastrini Dario scrive testi di prosa in genzanese su“Controluce”.
Bibliografia
Argentini, Igino, Mesticanza genzanese, Genzano di Roma, Giovanni Ventucci Libraio editore, 1985.
Dell’Arco, Mario, Genzano dell’Infiorata, Roma, Mario dell’Arco Editore, 1972.
Dell’Arco, Mario, Invito ai Castelli Romani. Ovvero diamo una breve tregua con dolce vino all’affannosa vita, Roma, 1974. (Ristampa, 1995 a cura di Ina Banca.)
Dell’Arco, Mario, Folclore in Genzano di Roma: Festa dell’Infiorata, Genzano, 1985.
Dell’Arco, Mario, Genzano mon amour, [S.l.], 1991.
Dell’Arco, Mario, Otto a baiocco, Mario dell’Arco Editore, 1993.
Di Lello, Cladinoro, Finestre aperte su Genzano, poesie, Genzano di Roma, 1990.
Di Lello, Cladinoro, Frutti di staggione, poesie, 1976.
Di Lello, Cladinoro, Il principe Roberto, narrativa, 1977.
Di Lello, Cladinoro, Pianto per mio figlio, poesie, 1978.
Luciani, Vincenzo e Faiella, Riccardo, Castelli Romani e Litorale sud. Dialetto e poesia nella provincia di Roma, Roma, Ed. Cofine, 2010
Webgrafia
www.genzanoparola.it (dialetti)
www.panacca.it
ultimo aggiornamento 05-05-2013