MONTEROTONDO (165 m slm -39.092 ab. (al 31/12/2009) detti monterotondesi o eretini – 40,54 Kmq), sorge poggiata su un colle che domina la valle del Tevere, nell’agro romano, in prossimità dei monti Cornicolani. Il territorio comunale confina con quello di Roma.
1. I vocabolari e le grammatiche
In Raccontare Monterotondo, Scardelletti scrive una sintetica grammatica (pp. 201-204) ed un capitolo intitolato “Nostro dialetto quotidiano” in cui afferma: “Dire che il dialetto monterotondese sia da considerarsi sabino non è difficile e non soltanto perché il territorio della Sabina Storica giunge fino alla strade di Vallericca, ma soprattutto perché la quasi totalità delle parole del suo ricco vocabolario sono simili o hanno suono identico a quello delle parole in uso nel reatino, nel cui territorio si ama rintracciare le radici del nostro dialettale linguaggio”. Un’altra affermazione importante di Scardelletti è che il linguaggio locale “soltanto con il tempo, secolo dopo secolo (…) si sarebbe adattato alla parlata sabina, specialmente al dialetto mentanese, per necessità di scambi esistenziali e culturali di buon vicinato, mantenendo tuttavia, una sua identità, specie nell’uso di certe parole che poco hanno a che fare con quelle mentanesi o reatine, di suono decisamente più arcaico”. Per chiarire questo concetto, Scardelletti fa una comparazione tra alcuni termini monterotondesi e mentanesi: accostà (Monterotondese)-accantoscià (mentanese)-accostare (italiano) e, sempre in quest’ordine: capitummulu-capitucciolu-capitombolo / luccicacalla-cucciulapentula-lucciola / rucertola-miciatta-lucertola / artalena-pirulapendula-altalena / seminà-somentà-seminare / bagnatu-’nfussu– bagnato / scintille-lure-faville.
E ancora, aggiunge, “Moltissime parole montorotondesi sono identiche a quelle di certi paesini delle Marche (da cui provenivano numerosi braccianti: i marchitti): in monterotondese si dice passaracciu, in marchigiano passaracciu e in italiano passero e, sempre in quest’ordine: bigunzu–bigunzu-bigoncia / somaru–somaru-somaro / cannitu–cannitu-canneto / puzzu–puzzu-pozzo / ladru–ladru-ladro / ficuni–ficuni-grossi fichi / ginócchiu–ginócchiu-ginòcchio.
In Nostrana di Osvaldo Scardelletti (1985) nelle pp. 146-163 figura un glossario dialettale, uno nuovo accompagna Raccontare Monterotondo (1992, pp. 205-215). Un altro ancora, desunto a sua volta dalle opere citate di Scardelletti e integrato dalle note di Ugo Angelini, Luigi Cataldi e Mauro Felici e curato da Enrico Angelani, Antonio Lagrasta, Nicoletta Nicolai e Edgardo Prosperi è in calce a Antologia dei poeti dialettali Eretini, a cura di Antonio Lagrasta (pp. 195-218).
Da tutti questi abbiamo selezionato: abbisse (lapis), accoccatu (’ccoccatu: di cosa sistemata in modo precario; in senso figurato si dice di un progetto arzigogolato), acitéllu (acqua e aceto; si dava ai lavoratori per dissetarli), acquatu (acqua e vino. Si serviva come l’acitéllu), ancisula (formica rossa che si annida sulle piante di fico), appiccicaréllu (’ppiccicarellu: capolino di bandana e tutto ciò che si appiccica agli abiti), arbucciu (pioppo), barzu (legaccio fatto attorcigliando una manciata di steli di grano intorno alla gregna: mannello di spighe), beverinu (beverino. Qualsiasi polla d’acqua sorgiva in cui si abbeverano le bestie e si dissetano gli uomini), cannillu (segmento di canna tagliato netto da un lato e a forma di becco dall’altro. Introdotto nel foro di un recipiente serviva per bere a garganella, cioè senza attaccarsi al recipiente. Invece, se tagliato netto da culmo a culmo era un comodo attrezzo per lanciare i ciciarélli), cazzitti d’angelu (tozzetti d’angelo, pasta da brodo), cegalìnu (che ci vede poco; cegalóffu: peggio che cegalìnu; ceghittu: quasi cieco), cegne (legare i tralci delle viti sostegno delle canne), ceriola (anguilla, pijà le ceriole: modo di dire, svicolare), chiuvéllu (in senso dispregiativo, bracciante abruzzese e, per estensione, uomo rozzo di qualunque regione. Deriva da chiove, piove, nel dialetto abruzzese. Termine più antico che marchitti: termine dispregiativo per indicare il bracciante marchigiano e poi ogni forestiero), ciciarélli (piccoli frutti neri, a grappolo, dei ligustri piantati lungo la Passeggiata), ciciu (cece; modo di dire: terra pe’ li cici: morire per ingrassare la terra. Si dice anche di persona esigente), colonnetta (comodino), consuprinu (parente alla lontana), cucuzzetta (zucchina), culucinciu (cul di stracci. Malmesso. Sciatto), culumbrina (posizione di chi sta col sedere per aria), favinèlla (samara dell’olmo. Carruba), fazzolittata (Grosso fazzoletto riempito di frutta secca che a maggio si offriva ad una ragazza per dichiararle il proprio amore), femminèlla (asola di metallo per bloccare il catenaccio), ficoccittu (fico immaturo), fitta (linea ideale posta tra il terreno sodo e quello lavorato), frignittu (qualcosa di piccolo e insignificante), forcinétta (mazzafionda), gattamaóne (mulinello d’acqua profonda nei fossi), gnaulà (togliere le foglie alle canne. Anche miagolare), grattaròla (tavola sulla quale si piantavano numerosi chiodi a testa quadrangolare. Così preparata la tavola serviva per stritolare le spighe in modo da liberare i chicchi del grano), lémite (sbalzo naturale del terreno), ’llappatu (che è piaciuto, che attira, ma anche per frutto immaturo che lega i denti), magnacòzza (bruco peloso che divora le gemme delle viti), mallòppa (impasto di terra) mallóppu (impasto di terra e anche mucchio di soldi), mandulina (mandorla ancora verde di cui erano ghiotti i monterotondesi), matròcio (macigno, ma anche uomo robusto e grossolano), mazzaròcca (frusta di fazzoletto annodato per colpire le mani di chi si cimentava nel gioco omonimo), menutilli (uova di pidocchi), mezza cucchiara (aiuto muratore, ma spesso detto con intenzione dispregiativa), molétta (laghetto dove un tempo ci si recava per fare i bagni), moniche e frati (pop corn caserecci. A seconda che sfioccavano erano detti appunto moniche o frati), ’ntróccu (truogolo), ordine (tratto di terreno lavorativo che distanzia i filari delle viti, ampio, solitamente, centoventi centimetri), pennicchiu (piuma), pistamentuccia (cacciatore da poco, chi porta a passeggio il fucile), pacchiarina (fanghiglia), panontèlla (pancetta o salsicce arrostite sul fuoco e via via strizzate sul pane per raccoglierne il grasso), paparaggianni (barbagianni), pappula (bugia. Americanata), pasu (antica misura, da passo. Diritto ad avere un pasu di legna, dopo ogni avvenuta potatura della macchia di Gattacèca), pattuèlla (patta dei calzoni), pecorillu (abbacchietto allevato per essere macellato a Pasqua), Pincetto (muro eretto agli inizi del Novecento per sostenere la scarpata tufacea a lato del Duomo), pollastra (è un mezzo ordine, ed è posto ai lati di ogni casa, soprattutto a confine col primo filare di viti della vigna di un altro proprietario), porcinu (tipo di terra e varietà di fungo), porverinu (spiaggetta sabbiosa di fiume), remmunnizzu (pulizia di Pasqua), retummulà (rovesciare ed anche far ruzzolare), rinaturu (orinale), saccoccione (tela fitta e robusta per filtrare il vino), santantognittu (o porchittu de Sant’Antognio, sia il maggiolino che l’onisco), sbattoccà (movimento del battaglio nella campana. In senso figurato: scuotere negativamente la testa), scacchiatura (togliere alle piante i rametti superflui, ma anche grosso ramo che si schianta. Cimatura), scafu (fava), scarpàccia (strato di fango che si forma sotto le suole delle scarpe. Anche scarpa scalcagnata), scarpétte della Madonna (bacche della pianta di fusaggine), scarzica (foglie di piante palustri con le quali si rivestivano i tappi per farli meglio aderire ai fori delle botti), scénta (discesa), sciacquaturu (lavello), scoccarèlla (modo di mettere dritti in fila pietre e mattoni, vicinissimi, spingendo il capofila dei quali si costringe tutti gli altri a cadere), scurinu (scuro. Imposta applicata alla finestra per impedire alla luce di entrare nelle stanze), sgamatu (detto del grano al quale sia tolta la pula, ma anche visto e accortosi), soffiaturu (tubo di metallo, semischiacciato ad una delle due estremità, per mezzo del quale si soffiava nel fuoco per ravvivarlo), spadronatu (dimessosi dal lavoro. Senza padrone), tànghisse (tank, carro armato della prima guerra mondiale), tirà la cazétta (morire dando gli ultimi strattoni), tufu (tufo. Anche uomo rozzo o duro di comprendonio), tòtaru (tutolo di granturco), vennemmià (vendemmiare), zannapéllu (erba infestante, borsa di pastore), zéza (mora, gelso), zinzicaréllu (sensazione di prurito alla gola. Stecco appuntito per pungere), zippu doce (ramoscello di liquirizia allo stato naturale che i bambini masticavano senza inghiottirlo).
2. I proverbi e i modi di dire
In Nostrana (pp. 135-137) di Osvaldo Scardelletti mette assieme proverbi e detti, facendo “di tutte quante le erbe un unico fascio, che offro con generosa noncuranza come se si trattasse si una bracciata di taralli” (tarallu/i vuol dire cimetta dei tralci delle viti di cui i contadini si cibano a mo’ di companatico). Ecco una scelta: Lu gattu che guarda la credenza, male fa e male pènza; Biancu come lu culu de le moniche; Maritu fiaccu, serata corta; Se li granu se ’nfittisce, pocu pane partorisce; Li sordati papalini so’ grossi e cazzacci; Chi magna magna, le bevute a paru; Janne a lu pórcu, favette a li somari, cicoria e gazzirru (vino scadente) a li marchitti; Lu povèta senza mériti sta sempre in piazza; Femmina senza zinne, ciammella senza zuccheru; Cià più anni de lu sassu de la Bulligaretta; È natu co’ lu fiore ’n culu, come le cucuzze; Le pèrziche de Ceccóni maturanu sotto la rete.
3. I toponimi e i soprannomi
Toponimi
Alcuni toponimi ricorrono con frequenza in numerosi testi dei poeti eretini (nome che deriva dell’antica città Eretum dedicata ad Era, ossia Giunone, chiamata poi Castrum Rotundum, da cui deriva Monterotondo (Montretunnu nel dialetto locale) per la morfologia del territorio.
Lu Paese si divide in diversi quartieri (o Rioni): Centro Storico, Santa Maria, San Rocco, Cappuccini, Crocetta, Spineti, Tufarelle, La Fonte, San Matteo, San Luigi e San Martino. Lo Scalo ai piedi del comune di Monterotondo, si divide in alcuni quartieri e Rioni: Pie’ di Costa, Borgonovo e Torre Mancina.
Tra i toponimi ricordiamo: Bulligara (da bulicame. Acqua sorgiva calda. Forse il lavatoio pubblico di Monterotondo, così chiamato, doveva essere all’origine alimentato da un’acqua di tipo minerale), Bulligarétta (piccola Bulligara. Lavatoio e abbeveratoio in località La Fonte); ’Bbeveraturu (abbeveratoio. Famoso quello rotondo in piazza della Praterina (Modo di dire: va’ a da’ fócu a lu ’bbeveraturu, compiere cioè un’impresa impossibile); ’Mmattonata (pavimento di mattoni. Omonima via, la prima che a Monterotondo fu pavimentata dagli Orsini); Caciara (caseificio. Famoso quello di Pelosi più in là del Ponticello di Mentana), campittu (famoso campo di giochi dove, adesso, sorge l’ospedale, ma era detto così anche il campo sperimentale agrario), Pratone (ampia località prativa. Località posta a circa cinquecento metri dal centro storico dove sorge oggi lo Stadio Fausto Cecconi), Sbragatu (demolito, crollato. Località in via Felice), Scarrapóne (fosso profondo e scosceso. Tipico e omonimo quello posto ai piedi di Monterotondo).
La Macchia di Gattaceca è rivisitata in una poesia di Scardelletti come un luogo mitico dei giochi dell’infanzia: Tanta la fantasia de tutti quanti / che un gattu era ’na tigre; ’na cornacchia / un condore ’gnidatu pe’ la macchia; / le vacche brade un brancu d’elefanti // E l’arberi?… Piantati fittu fittu, / più gróssi de la panza de Papone, / quasi più arti de lu Casermone / e co’ le chiome strette a fa’ da tittu. // Là mezzu tra li ciocchi e le ramaje / facevamo pe’ finta li zulù / ’ddopranno, come mo nun s’usa più, / le canne camuffate da zagaje. Ritornandoci purtroppo (erano gli anni ottanta!) M’è venutu da piagne, porcoggiuda! / De quella macchia ch’era ’na bellezza / so’ rimasti li zippi, la munnezza / e tanta fanga su la terra gnuda. / Lu core, sarvognunu, me s’è strittu / penzanno che ’sta macchia tantu cara / po fa’ la fine de la Bulligara, / de lu Beveraturu e lu Campittu.
In apertura di Dodici mesi per raccontare una città (in giro per le mura… della mia), Mauro Felici con la poesia “Montretunnu” ci accompagna in visita alla sua città:
Ridente Burgu da più de mill’anni / sta rengriccatu ’n cima ’na collina. / Lu sòle je girava tuttu ’nturnu / quann’era recintatu da le mura. // Coscì da San Nicol’a sottar’Cigno, / vidi la torre de Palazzu Orsini. / Annanno ’nanzi trovi l’orologgio, / appressu la funtana e li leuni. // Po’ Porta Garibbardi, Ramarini, / la Maddalena che chiude le mura. / Allora ’bitevamo tutti drento / mimose e vigne stevanu de fòra. // Da quella porta finu a Grottacega / se scenne lentamente a la Mentana. / Pe sentinella c’è la Maddalena / a salutà chi entra tra le mura. // Guardanno Roma, sopra da Cecconi / n’do pure là, è passatu Garibbardi / trovi ’n Conventu co drento li frati / venuti da più de quattrocent’anni. // C’è ’na cappella verzu San Luigi / co’ lu sperone de Monteciafrone. / A fianc’a Collelungu ce sta l’“Esse” / che lega Montretunn’a’la Stazione. // La reppa prima de’ la cappelletta / era piena de vigne fatt’a rasu. / A metà strada c’era ’na villetta / che chiamevamo Villa Paradisu. // E po’ sallenno su da Vallericca / sgropi la torre co’ tutti li titti. / Appressu vidi ’n colle, che resalle / finu a le vigne de Sirvio Moretti. // Verzu sinistra ce sta ’n atru colle / co ’n’uliveto e file de maggese / le vigne che degradanu a valle / fau da cornice e tuttu lu paese. / ’Na vota propiu fora da le mura / portavanu le bestie a beverane. / C’eranu: Mazzatora e Bullicara, / do’ ’nnavanu le femmone a lavane. // Su a Santa Maria c’è ’na Chiesetta / che sfoga tutta verzu San Martinu / a destra ’rrivi a la Bullicaretta / refatta tra la Font’e Via Ticinu. // Dall’atra parte Villa Ramarini / da do’ se vede fium’e la vallata. / De notte s’areempie de lumini / e la pianur’è tutta ’lluminata. // Da S. Martinu scinn’a la Salaria / e t’aretrovi subbitu ’n Sabbina. / Fiume profuma l’aria quanno salle / pe’ maturà lo vinu a la cantina. // So’ tutte passeggiate de salute / che trovi pure mejo, pe lu munnu. / Queste però pe’mmè, so’ le più belle / perché so’ natu qua! A Montretunnu!
Soprannomi
In Nostrana di O. Scardelletti figura (pp.133-134) un elenco di “Soprannomi famosi” tra i quali: Cartavelina, Ciangaribèlla, Coccatoppe, In Nostrana di O. Scardelletti figura (pp.133-134) un elenco di “Soprannomi famosi” tra i quali: Cartavelina, Ciangaribèlla, Coccatoppe, Lampeggia, Lu Paparaggianni, Lu Papparappiero, Lu Sciacquaru, Occhi de Piummu, Pilu Biancu, Rosicamorti, Rosicapallocche, Sturapippe, Zampadegrillu, Zigopicchio.
Alvaro Fiocchetta in Anni passati elenca numerosi soprannomi di cui scegliamo: Ciuboletto, Digamella, Gnommerò, La foca, Maccarò (soprannome della famiglia Fiocchetta), Magnacaciu, Melocco, Mezzuculu, Mezzuchilu, Peppe lu porcu, Quattrétti, Recchiamozza, Sellarò, Titinella, Zinnò.
Gino Pietrosanti in appendice al suo libro di poesie, Ieri, oggi, e… (2010) fornisce un elenco di circa 250 soprannumi, affiancati dal cognome dei titolari degli stessi. Tra questi scegliamo: Bastalamossa, Ciangasecca, Cirulalla, Faccetta nera, Felicecurtu, Limalimone, Lu Papparappiù, Mazzasomari, Oiu duru, Peprepepè, Spaccacentesimi, Tre ficuni, Vuta paiacci.
4. Canti – filastrocche-indovinelli – giochi- gastronomia- feste&sagre-altro
4.1 Canti
Giggi Zanazzo in Canti popolari romani, con un saggio di canti del Lazio, Roma, S.T.E.N., Torino 1910, riporta 40 stornelli “dé bene” (di bene, di amore, di passione) e 45 stornelli “dé male (di dispetto) e ddé ggelosia”.
Tra i primi selezioniamo: 1387 – Sotto l’acqua li fai nutri’ li pesci; / quanto sei bella si t’arimirassi / tu dé te stessa t’innammoreressi! 1388 – Avete un par d’occhiucci neri neri, / a l’amanti jé dite: vieni, vieni, / e come l’acqua al mare te li meni. 1389 – Avete ’na boccuccia tanta bella: / quando l’aprite per poté parlare / ritorna in pace ogni perpetua guerra. 1393 – Ciavete ’na boccuccia sì carina, / quanno l’aprite per pote’ parlane, / subito ce facete la risatina. 1395 – Quanno tè vedo él sangue mé sé môve, / comincia da li piedi a venì’ sune, / quanno lo sento nominà’ ’l tu’ nome. 1398 – Ma varda che m’ha fatto fa’ la sorte, / m’ha fatto innammurà’ de le morette; / le biancoline mé danno la morte! 1403 – Fior d’insalata, / de la finestra tua vorria la pietra / indove lo tenghi lo petto appoggiata! 1404 – Séte ppiù bianca de li fedelini, / più bona séte de li maccaroni, / incantà’ fai él sole quanno cammini. 1407 – E prima che tè lassi e t’abbandoni, / s’avranno da seccà’ li sette mari, / la primavera co’ tutti li fiori. 1408 – De la melella / tu stai sotto a lu letto calla calla, / io sto deé fora a ffa’ la tremarella. 1409 – Fiore dé nocchie, / l’occhi de lo mi’ amor so’ pistolette, / tireno pistolate ggiorno e nnotte. 1413 – Quanno cammini e dai li passi ai venti / li fiori tè fioriscono davanti; / sarai la bbella mia si tté contenti. 1418 – Fiore dé riso, / boccuccia risarella damme un bacio, / moro contento e vvado in paradiso! 1420 – Avete l’occhio nero che vvé bbrilla, / boccuccia inzuccherata dé cannella, / beato quel coruccio che vvé piglia! 1422 – Avete un par d’occhiacci neri e ttonni, / co’ ’n solo sguardo lo sole commanni, / co’ lo tuo ben parlà’ ll’omo confonni! 1446 – Che tté credevi, screpantello mio, / si nun amavo a vvoi, gnesuno amavo? / E ccento ce n’avevo ar commanno mio. 1450 – Nun giova, bella, ni sospiri e pianti; / séte lo fosso de tutti li ponti, / séte lo purgatorio dé l’amanti. 1451 – La carrozzella tua tanto ’nfioccata, / da lo troppo currine s’è’vvelìta (stancata), / ha trovo lo fangaro e s’è renata (arenata). 1454 – Fiore dé pero, / m’avevi preso per un cerasaro (un semplice, un imbecille); / ma so ’na gorbe (volpe) co’ tanto dé pelo. 1455 – Quanno cammini, tutta tè smucini, / pare che hai da saline cinque piani / brutta ruffiana de li tabacchini. 1460 – Fiore dé nocchia, / sei tutta sbrozzolosa ne la faccia, / puzzi più tu che ’na gallina morta. 1461 – Fiore d’arbuccio, / ho fatto senza de la grazia vostra: / séte rimasta come don Francuccio! 1462 – E mé mannassi a chiama dé premura, / dicessi che la chiave nun era bona, / te l’anno invece rotta la serratura. 1466 – E si pe’ ssorte lo pigli marito, / io te l’ammazzo subbito sposato; / tu resti vedovella, e io smarrito.
Tra i secondi: 1427 – De l’insalata, / meriteresti d’essere moneta, / per essere da tutti maneggiata. 1431 – L’albero fa le foglie e poi le grulla (scuote) / e così sete voi cicia de mamma, / dé tanti amanti se’ rimasta a nnulla. 1432 – Fior dé granato, / nun sso si sse’ zzitella o cciai marito; / povero palazzetto spiggionato. 1435 – Vattene via, nun possi arivenire; / li lupi tè sé possino magnare, / li cani tè sé possino fenire. 1443 – Mé vojo fa ’n cortello trapuntato: / nun me curo si lo pago u’ scudo, / t’ammazzo e me ne vado carcerato. 1444 – Tutto lo monno lo possi ggirane, / gnesuno in grazia tè cé possa venine, / solo lo nome mio possi bbramane.
A Monterotondo, grazie al poeta dialettale Ugo Angelini e alla Pro Loco, la Ciummacata, scomparsa all’inizio dell’ultima guerra e fino al 1972, è tornata a rivivere. La festa è un invito esteso a tutti, forestieri compresi. Basta sedersi a tavola. Nel 1930, o giù di lì, fu bandito un concorso per adottare la più bella canzone nostrana da dedicarsi alla festa di San Giovanni in occasione della quale (il 24 giugno nella piazza del Duomo) si svolge la ciummacata-sagra delle lumache. Vinse Aldo Vitali con la canzone “S. Giuvanni Montretunnese”: T’arecòrdi Carulinetta, le belle nottate / ch’emo passate / tant’anni fa. // San Giuvanni era la festa de tutti quanti, / mo nun ce véngu / pe’ dignità. // San Giuvà, che si giratu / su e gnò pe’ ’ssi paisi, / dimme un po’ che sì truvatu / ’n mèzzu a ’ssi montretunnisi. / Tuttu s’è remmoticatu, / tuttu cambia co’ ’n menutu, / sólu tu nun si cambiatu / ma sì sempre lu benvenutu.
(In Nostrana Scardelletti presenta anche il testo e la partitura della canzone “S. Giovanni Montretunnese” di Aldo Vitali, nato nel gennaio 1911 a Monterotondo).
Uno scambio di stornelli tra monterotondesi: Fiore de tittu / pe’ coje li rampazzi li marchitti / se mittu tutti quanti a culu rittu e marchitti, in risposta: Fiore cortese, / nui stemo a culu rittu fra le rase / pe’ dà de panza a le montretunnese. Altri stornelli di vigna: Fior de collina / lu sole fa l’occhittu a la lontana / all’uva che deventa zuccherina. Fiore appassitu / la vigna téa, che nun sì lavoratu, / inveci de lo vinu fa l’acitu.
Da Una volta si mangiava così di Mauro Felici dalla poesia “Stornello di Nannina” citiamo: Fior d’ogni fiore, fior de fiordalisu / guardanno ’ssi filari sempre ’n fiore / me sento nella terra dell’amore / me pare d’esse nata ’n paradisu. (…) Fior d’ogni fiore e fiore de ginestra / a Montretunnu pare sempre festa / basta opri’ l’occhi prestu la matina / per respira’ ’n arietta sopraffina.
4.2 Filastrocche, indovinelli, invocazioni, scongiuri
Felici, Mauro, Libertà (Le filastrocche del nonno raccolte lungo i viali della vita), Vivaci Pensieri Editrice, s.l., 2009 – testo completamente in italiano.
Scardelletti, Osvaldo, Il giardino dell’erba voglio, Editrice Carrier, 1956, favola poetica in italiano per bambini e adulti.
4.3 Giochi
Dei tanti giochi, ormai dimenticati, è interessante consultare l’elenco fatto minuziosamente in Nostrana di Osvaldo Scardelletti (pp. 138-145) di cui oltre all’elenco viene fornita la modalità: artaléna, battimuru, belle statuine, bótti co’ lu carburu, bùzzicu, carrozze, cascarella, ’cchiapparella, chi ride paga pegno, ciripiripì, cucuzzaru, equilibristi, forcinetta, garaghé, grucchiu, leppa, lu primu e l’urtimu, lu scuiu, marrone, mazza rocca, montecavarcata, moscuni, nìccolu, pallini, palluni, passa l’arberi, pattinella, pésca, pesci, piastrella, picca, pisciarella, puntamazzu, quattro cantuni, sartu co’ l’asta, sottomuru, spaccapriccolu, tanghisse, tappa, trampoli.
Tutti giochi che il poeta mostra di conoscere molto bene per averli praticati e di cui conserva tanta nostargia ed un ricordo indelebile, anche dei luoghi deputati in cui si svolgevano (pp. 119-130) e che vengono ulteriormente rivisitati in “Lu tempu che passa”: Li munellitti sopra a ’sta collina / so’ vispi, paraculi e mattacchioni, / fannu caciara a tutti li cantuni / finu a la sera, già da la matina. // Tra li giochi che fannu tutti quanti / ce sta a la picca, a buzzicu, a marróne, / a le carozze e, giù a lu Carrapóne, / a li sordati a caccia de briganti. // A leppa e a garaghé pe’ San Nicola, / a ’cchiapparella e a tana da Rossini, / sólu a pallone su a li Cappuccini / e a battaja navale dentro a scola. // Inzomma, tutti quanti li munélli / giocanu spensierati come sanno / infino a quanno nun impareranno / a fa’ l’amore e a béve a li tinélli. // Du’ còse bòne, è viru, e tuttavia / quella che fu l’infanzia spensierata / svanisce come l’acqua svaporata / e lascia dentro tanta nostargia.
In rapidi capitoletti Scardelletti tra i luoghi dei giochi descrive: San Nicola, Lu Campittu, Lu Ponticellu, La macchietta (boschetto) de li Frati, Lu Pratone, La Passeggiata, La scarpata, Li bagni, La Moletta, Fiume (Tevere), non senza aver fatto cenno al mitico gioco de le ruzziche che si svolgeva molti anni fa nelle campagne intorno a Monterotondo: “La pizza (o forma) ben stagionata veniva più volte attorcigliata con una funicella detta sparacina, e scagliata lontano. Srotolandosi la sparacina imprimeva alla pizza una velocità considerevole. Dopo una serie di lanci calcolati, chi raggiungeva per primo il traguardo stabilito vinceva, oltre ad un premio in denaro, anche tutte le ruzziche che avevano partecipato al gioco.” Tra i giocatori più bravi venuti da altri paesi c’erano: Domenico lu mentanese, Giangaspare da Frosinone, Nello di Villaperto, Evaristo di Spoleto, Guido di Tor Lupara; tra i campioni locali: Peppe Ciangaribella ed Ercole Capinera.
Alvaro Fiocchetta, in Anni passati ricorda che ai suoi tempi “la mentalità dei genitori era un po’ chiusa, perciò specialmente i genitori delle bambine raccomandavano: li maschi co’ li maschi e le femmine co’ le femmine”. Ovviamente, almeno quando i genitori non ci vedevano, continuavamo a giocare anche con loro, ma meno di quanto giocavamo tra noi maschi.”
Ai “posti” (Bulligara, Bulligaretta, ’Bbeveraturu, via Felice, Pincetto, ecc.) dove si svolgevano e una trattazione completa degli stessi (figurine, le armi, li cannilli, nasconnarella, palline, parmittu, righetta) trovano ampio spazio nel libro citato di Fiocchetta, con l’accompagnamento di numerose poesie sull’argomento giochi. Bella in particolare “L’amore de la madre” che descrive gli amorosi improperi di sua madre (che lui chiamava la ‘sirena’ / pe’ quantu urlava) arrabbiata perché il figlio, tutto preso dal gioco, non andava a cena e allora ella gridava: “te possa piatte un corpu e resta’ rittu!!! / Te piasse qua, te piasse là!” (che guerra!) / “Ogni vota me fai magna’ lo frittu! / Che te pozzi casca’ e resta’ pe’ terra!. // Ma un giorno, pe’ senti’ che me diceva / e me so’ ’nciampicatu a lu pallone, /curze da casa più lesta che poteva; / io stavo ancora in quella posizione, // me disse: “come stai bèllu de mamma?” / Ce tengo lu ginocchiu mezzu stortu, / ma mo me passa ma’, tu statte carma!” / “Me si fattu mori’, te piasse ’n corpu!”
4.4 la gastronomia
Ciambelle a zampa
Farina, vino, olio, anice e sale, sono i cinque ingredienti che occorrono per preparare le ciambelle a zampa, il prodotto tipico della festa di Sant’Antonio. Sono dette ‘a zampa’ poiché riproducono la forma degli zoccoli dei bovini. Sono ottime per il palato specie se accompagnate dal vino bianco; non sono dei dolci. Un tempo le ciambelle venivano preparate nel forno domestico dai parenti o dalle amiche della famiglia che ospitava il Santo per un anno. Oggi sono preparate dalle consorelle (le donne di quanti sono stati Signori della festa) con l’aiuto di alcune volontarie. La preparazione avviene con una settimana di anticipo rispetto alla festa. Quattro quintali di farina vengono offerti dal Nuovo Signore, un quintale viene messo a disposizione dal Vecchio Signore. Nella settimana successiva alla domenica dei festeggiamenti il prodotto viene venduto ed il ricavato consente di reperire nuovi fondi da mettere a disposizione per la festa del Santo.
(tradizioni popolari in https:////www.santantonioabatemonterotondo.it/curiosita.php)
Frascarelli. Una specie di polentina con acqua e farina di grano.
In Dodici mesi per raccontare una città (in giro per le mura… della mia), il poeta Mauro Felici accompagna il calendario del 2011 mese per mese con ricette tipiche della cucina locale.Ein Una volta si mangiava così, la Storia è servita…, con destrezza, ci fa sognare Sagne Monterotondesi oppure Maccaruni a “Centu”, però ci riporta subito alla realtà con gli avvenimenti di guerra, quando tutto acquista un sapore diverso: il sapore della “fame”. Così pure il Pancotto de la Guerra sa di squisito: A repensacce mo, ce vè da ride’ / Che se po’ fa’ na’ zuppa co ’le stozze. / Ma con ’lla fame allora ’n ce se crede / pure a’ lo pane tostu s’eva a nozze. / E ppo er bisogno tutto popolare /, e ’na gastronomia ’n po’ più nostrana / spissu ci aiuta tutti a realizzane / na zuppa antica ch’era pure “bona”. / Devi soffrigge’ pe dieci minuti / du spicchi d’aju, oju e pummidoro / che devi allunga’ co’ ’n po’ d’acqua calla. / Appena bolle metti sale e pepe / e quattro stozze toste color d’oro, / che dau piacere quanno s’aremmolla.
“In questo libro – scrive Mario Pecora – denso di sensazioni e dovizioso di memorie e di ammaestramenti, [Felici] racconta usi, costumi, ed eventi di Monterotondo, dove è nato e abita e agisce”, ma soprattutto ci serve piatti prelibati, “cibarie saporosissime perfino nelle parole e nei versi […]. Né manca a un tal piacere quel che, con Proust, chiamiamo intelligenza del cuore: il sentirsi parte di tutto, lo stare con gli altri e fra gli altri come compagni di viaggio e di avventura, benedicendo la vita e i suoi doni anche nei giorni difficili, tenendo fede al patto che ci tiene nel mondo”. Infine un inno al pomodoro: Spacca du pommodori senza pelle / puliscili per bene d’ogni seme / riempili d’origano e acciughelle / prezzemolo ’n po d’ajo sale e pepe. / Poi mettili su’ ’n fojo già oleato / sistemato per bene a ’na spasetta. / Dopo che ci hai passato er pangrattato / li passi ar forno e spetti mezz’oretta./ Li’ poi servi’ come secondo piatto / e pe antipasto so’ ’n capolavoro. / Pure Papa Clemente c’eva matto / da quanno li asoggiò da ’n Gesuita, / che lui ribattezzò Don Pommodoro / perché se li magnò tutta la vita”. (Salvatore G. Vicario)
Feste e Fiere
Carnevalone. Festa mascherata di mezza quaresima. Si costruiva un grosso pupazzo di cartapesta in piazza dei Leoni e a sera, dopo le sfilate dei gruppi mascherati e dei carri allegorici, gli si dava fuoco.
Tra le feste principali, quella di Sant’Antonio abate è la più sentita da tutta la popolazione. È una settimana di festeggiamenti in onore del santo protettore degli animali e comincia il sabato subito dopo la ricorrenza vera e propria (il 17 gennaio) con una processione che parte dalla casa del Vecchio Signore, che ha custodito per un anno la statuetta d’oro raffigurante il santo, fino al Duomo per poi fare il percorso a ritroso. La mattina seguente alcuni colpi di mortaio segnano l’avvio della festa della domenica quando il Signore fa il giro dell’ospedale e di tutte le chiese cittadine con la statuetta in mano e su una carrozza accompagnato da un corteo di fantini e cavalli addobbati per la festa con fiori di carta colorati. Questa è la Cavalcata che fa il giro delle principali vie cittadine e i fantini coprono le loro teste con un cappello di colore nero che ogni volta al grido di Evviva Sant’Antognu agitano in aria in segno di festa. Il Duomo accoglie la funzione principale ed il portale e la navata centrale sono decorati per l’occasione. Dopo aver compiuto il giro delle chiese della città il Signore, tutti i fantini, la Pia Unione, l’associazione che si occupa della gestione della festa e gli accordi con il Comune, e la banda Eretina vanno a pranzo insieme sempre a spese del Signore della Festa. La festa ricomincia nel pomeriggio quando la statuetta è di nuovo portata al Duomo per il passaggio di consegna dal Vecchio al Nuovo Signore, che la prende in consegna e promette di conservarla per tutto l’anno seguente e di esporla alla popolazione nella propria casa. Quando la statua esce dal Duomo, i cappelli che alla Cavalcata erano neri, vengono girati e diventano di colore rosso, segno che sta per cominciare la Torciata. La statua viene portata in processione per le vie della città fino alla casa del Nuovo Signore. La caratteristica della Torciata sta nel vivere l’evento, in quanto molto sentito dalla popolazione che accompagna il santo con canti in dialetto monterotondese e le classiche cupelle, fiaschi di vino che dissetano i Torciari. Quando il santo, che in genere segue la processione, entra a casa, il Signore bussa alla porta della sua casa, e la moglie da dentro chiede “Chi è?”, e il marito risponde: “è Sant’Antonio” e si aprono le porte della casa in cui il santo rimarrà per un anno intero a disposizione della popolazione. La festa prosegue per un’altra settimana ma non per la città ma all’interno della Pia Unione, che organizza pranzi a base di prodotti tipici locali. Fino agli anni ’80 esisteva anche Il Palio di Sant’Antonio in cui partecipavano tutti i rioni della città con i loro stemmi e simboli.
Detti e acclamazioni della Festa di Sant’Antonio Abate
Monterotondo. Oggi Festa di Sant’Antonio Abate è bello riportare i detti sulla giornata e le acclamazioni gridate nei suoi vari momenti. Cadendo la Festa liturgica il 17 gennaio si dice: La Pifanìa tutte le Feste porta via, po’ viè Sant’Antognittu e ne porta n’atru sacchittu. Dato il periodo poi si afferma: Sant’Antogno barba bianca o la neve o la fanga. Durante la cavalcata della mattina e la torciata della sera si gridano delle frasi propiziatorie e di lode al Santo. Il contesto cronologico della Festa (a ridosso di altre festività ab antico legate alla fertilità e al risveglio primaverile) e alcune azioni compiute durante la torciata fanno ascrivere tali acclamazioni a frasi propiziatorie per la fertilità e vigorìa sessuale degli animali e degli umani. Pe’ Sant’Antognittu nostru bellu gajardo e tostu: Evviva Sant’Antogno!. Di tanto in tanto risuona durante la cavalcata e la torciata: E n’atra vota tutti quanti ’nzeme: Evviva Sant’Antogno! In particolare c’è da notare che durante la torciata che porta la statuina del Santo a casa del Nuovo Signore (colui che lo avrà per l’anno in corso) i torciaroli indossano il copricapo tipico della Festa – di velluto nero – al rovescio, mostrandone la fodera rossa. Questo si ritiene tradizionalmente un gesto di rivendicazione e ribellione dei vignaroli verso i ‘Padroni’ e le autorità ecclesiastiche. Io penso che qui vi sia anche un indizio di arcaiche valenze falliche. Ciò è rafforzato dai gesti dei partecipanti alla ‘torciara’ (dialetto) che di tanto in tanto formano dei capannelli, abbassano fino a terra le torce accese unendole in un solo punto e poi alzandole in alto gridano: E che ce n’eramo scordati? e n’atra vorta sola sola: Evviva Sant’Antogno!” o le altre citate. Oltre a queste espressioni ‘canoniche’ durante la torciata ne risuonano altre estemporanee. Specchio dei tempi esse variano sempre e sono per lo più legate alla quotidianità e ai luoghi ove si sta passando. Così le frasi divengono più esplicite e colorite, complice anche il vino bevuto dalle ‘cupellette’: invettive e bestemmie rivolte al Santo che non concede vino e frutti della terra sufficienti Sant’Antogno dacce lu vinu; preghiere per la virilità: Sant’Antognittu nostru faccelo tostu!; e varie imprecazioni contro le gerarchie ecclesiastiche le quali, specialmente nel passato, non vedevano tanto di buon occhio tali ‘manifestazioni’ di religiosità popolare. La ‘spiegazione’ – anch’essa popolare – per tale avversione alla torciata della Festa è che si riteneva Sant’Antonio avesse espresso il desiderio che i preti fossero ‘castrati’!
Pubblicato da Filius Lunae a 12:13 su https:////filtrodamore.blogspot.com/2011/01/festa-di-santantonio-abate.html (si tratta di Domenico Perri domenicoperri56@alice.it <domenicoperri56@alice.it)
Un video della festa del 2011 è su https:////www.youtube.com/watch?v=V8EVYKnzF4c
Video su cavalcata e torciata 2010 è su: https:////www.youtube.com/watch?v=S4fhQyzBhtA&feature=related
Poi c’è la patronale (Santi Filippo e Giacomo, 3 maggio).
Altre feste di quartiere come la Sagra dello Spiedino nel quartiere Spineti, la Festa dell’Estate a Piedicosta, la Sagra della fava e del pecorino a Borgonovo e Sant’Antonio di Padova a Santa Maria.
5. I testi in prosa: il teatro, i racconti
TEATRO
Osvaldo Scardelletti fonda la Compagnia teatrale “9 settembre”. Questo nuovo interesse lo porta alla stesura del dramma Noi Padri noi Figli del 1989 e nel 1991 della commedia Lu processu a lu Magu di cui cura anche la scenografia.
La trama della piacevole commedia scorre liscia nel primo e secondo atto raccontando una lontana epoca monterotondese, quando imperava il duca Gargarózzo, nella quale Ciangaruccio, il mago, cercava il filtro che gli consentisse di proiettarsi nel duemila. Ma è nel terzo atto che il disegno teatrale di Scardelletti si completa e dove la farsa diventa satira, con ciò rendendo molto interessante e più valido tutto il lavoro. Satira del sociale che scaturisce dalla meraviglia del mago quando scopre che l’agognato 2000, cioè l’oggi, è addirittura peggiore del “presente” del duca Gargarózzo. Ed ecco una scena tratta dal terzo atto.
Martocia (alza la testa): Parla Ciangarù, ché te sento.
Ciangaruccio: Giorni fa me so’ accortu che me so’ scordatu de portamme appréssu la boccetta maggica… Tu me la dovrissi portà qua, e te spiego io come devi da fa’.
Martocia: Portàttela?!… A me nu’ me piace de ìmmene via da lu Montretunnu de qua. (stringe la mano di Gargarózzo.)
Ciangaruccio: Ma appena me pórti la boccetta repartémo inzème pe’ revenìccene sà.
Martocia: Revenì qua?… E perché? Sà in do stai nun ce stai bene?
Ciangaruccio: Martocia méa, a guardallu da de fori lu témpu de lu duemila e passa, in do’ so’ capitatu, pareva tuttu béllu vistu da sà, ma a stacce drento è peggio dell’inferno. Lu munnu de qua è governatu da ducentomila Gargarózzi… E le tasse?… Penza tu, appena unu nasce già ce tè un debbitu de trenta mijuni!… E po’?… Le bombe, le ribbelliuni, le guerre, li terroristi, li mafiosi, l’assassini e li politicanti. Gentaccia che sta a avvelenà la terra. Robba che li mari, li laghi e li fiumi so’ deventati ’na fogna. L’aria che se respira è peggio de lu stabbiu.
Martocia: E la gente? E la gente che fa?
Ciangaruccio: Quella ricca che conta fa come je pare. Li poveracci, paoli. E nun se sarva niciunu!… Ogni perzona ce tè un nummeru appiccicatu a lu nome séu e po’, co’ certe maghinette più intelligenti dell’ommini, se tiranu fori li nummeri pe fa’ pagà le tasse a tutti, ma che propiu perché le maghinette so’ inteliggenti, li nummeri de li ricchi nun scappanu mai.
Martocia: E a Montretunnu?… la gente campa contenta?
Ciangaruccio: Te sembrerà stranu, ma pare de scì. Benanche tutti nun fau che lamentasse, t’hau ’nventatu un centinaru de feste: lu carnovale dell’eretini, le piazz band, la festa de li riuni, lu Paliu de Sant’Antognio abbate, la Ciummacata, la festa dell’elezziuni e de la resistenza, la festa dell’amicizia, l’estate eretina…
Martocia (interrompendolo): Allora de che te laminti?
Ciangaruccio: De tuttu!… La gente nun ce capisce più gnente… Qua s’è remmoticatu lu munnu… Le femmine so’ vestite come l’òmmini e l’òmmini se véstu e se ’mprofumanu come le femmine… E portenu pure li ’recchini… Magari a ’na récchia sola perché ancora nun sàu da che parte buttasse… Hau voja le regazze de qua a scosciasse li vestitélli pe’ fasse reconosce pe’ poté fa’ quale vòta l’amore… E po? Pure lo fa’ l’amore è deventatu periculusu, perché te po’ beccà ’na malatia che nun se guarisce mai!… Ma lo più bruttu de tuttu è che quilli che commannanu nun se morenu più… Mancu lu morì è ’na soddisfazzione pe’ tutti!… Inzomma, Martò, la gente, qua nun sta più in mani all’ommeni vivi, benzì a li cadaveri, che come tutti li cadaveri nu’ je batte più lu core e nun so’ più capaci de volé bene a niciunu.
Martocia: Ma tu come campi?
Ciangaruccio: Male!… Faccio lu vu cumprà!… Nu’ me vo’ reconosce niciunu e sto sólu come un cane.
Martocia: E Sempliciano?
Ciangaruccio: Lu pòzzino ammaìllu!… Strada facenno, appena che ’rrivassimo all’anno 1867, a Porta Sa’ Rocco t’hau vistu unu che steva a fa’ a schioppettate e che strillava “O Roma o morte!”, un certu Peppe Garibbardi… E coscì Semplicianu ha dittu: “Me se putesseru armuticà à li vesciche! ssu Garibbardo la pènze propie còmo la pènze ìe!”. E senza mancu dimme ciao, s’è fermatu e s’è missu a fa’ a schioppettate pure issu. Martocia méa, nu’ je la faccio più a sta qua… Portame la boccetta maggica e ce ne revenémo inzème.
Con il romanzo in italiano La pelle degli altri (ambientato a Monterotondo intorno all’8 settembre 1943) e con il dramma Noi figli, noi padri oltre che con molti articoli sul periodico “Ergo” Scardelletti tratta a lungo l’argomento Monterotondo nel periodo della guerra. Il dramma di Scardelletti si può leggere nella collana teatrale delle Edizioni della B.I.G. insieme con quelle di altri autori sabini (reatini e aquilani: Vincenzo Cenciarelli, Savino Pasquetti, Rodolfo Fallerini, Rosanna Crisi Villani) in Lu teatru ddé la Sabbina. In Noi figli, noi padri uno dei nodi più tragici della
storia recente di Monterotondo (8-9 settembre 1943) viene assunta esemplarmente a valore paradigmatico, in una rappresentazione allo stesso tempo realisticamente puntuale e simbolicamente totalizzante, attraverso un impegno che nel presente caso appare dichiaratamente civile e sociale: valido documento, e al contempo rivisitazione critica – ma anche palpitante di passione e di rimpianto – della memoria storica collettiva.
Tra il 1990 e il 1991 Osvaldo Scardelletti pubblica Raccontare Monterotondo un libro che parla della sua cittadina, con lo scrupolo e l’emozione e la commozione di chi ama il proprio luogo di origine. Lascia un inedito L’universo del nostro silenzio (“Una saga con ambizione sostenuta di epicità dal suggestivo titolo, un’opera di profondo impegno anche letterario”, la definisce Achille Serrao nella prefazione a Er monno da principio). Ed ecco un sapido brano di prosa in dialetto “Che bellu lu somaru!” tratto da Raccontare Monterotondo.
Lu somaru era lu protagonista principe de Montretunnu. Sólu li marchitti, poveri retummula-toppe, braccianti senza un pezzittu de terra e senza lu biccu de ’n quatrinu, potevano fa’ a minu de lu somaru. Li montretunnisi no. Pe’ issi lu somaru era lu millecento de óggi, lu fòri strada, lu furgonatu, per eccellenza. E si è viru che quale bastonata,’gni tantu se la remediava sopre a la schina, pe’ faje passà la voja de annasà quale pisciatèlla de somara, o pe’ faje smette de camminà accóstu accóstu a lu lemmite, a rischiu de scapicollasse de sotto co’ tutta la soma, è pure viru che quanno era a la sera je se davanu du’o tre pacche tenere sopre a la capoccia, ’na ’llisciatèlla a lu pilu e ’na tastatèlla bonaria perzinu sotto a la coda, prima de daje la “buonanotte”, lasciannolu repusà finu a la matina, magari ’nzème a un pecorillu perché se ne stesse in compagnia co’ qualedunu e nun ce tenesse paura a dormì da sólu a lo scuru.
Scì, è viru, de giorno sgobbava da viru come un somaru, ma tutti je volevanu bene, e tutti se vantavanu de tenéccelu:
– Lu somaru méu magna quantu un cellittu, ma ce tè ’na forza, fiu de Dio, che tre quintali sopre a la schina je so’ de pisu quantu un piséllu in mani a ’na munèlla!
– Robba che quanno lu somaru méu se mette a curre, lu cavallu de Memmetto nu’ je la fa a staje appréssu!
– Ce tè du’ recchie ritte che nu’ je le pighi mancu se je ce ’ttacchi un pisu de cinquanta chili!
Insomma, lu somaru, fusse pure che stesse là là pe’ deventà pelle de tammurru, che ce tenesse l’ernia strozzata, le piaghe perpetue sopre a la schina, li zampi più adatti a pià le cipolle che a camminà speditu, era come ’na foriserie de óggi, era lu méjo de lu mèjo, un motivu de vantu e de fanaticheria appéttu a lu quale qualunque bestia dell’antri valeva, a di’ tantu, la metà de la metà.
E quanno ch’era giornu de festa? Je se metteva lu mastu, un bigunzu pe’ parte, pìni de grazzia de Dio e de munellitti che ancora nu’ je la facevanu a camminà, lu padrone in groppa, la famija appréssu e via!, tutti a Grotte Marozza, a la Muletta, de Fratini, all’Acqua Ferrata, insomma dovunque ce stesse un póstu béllu pe’ divertisse, come óggi se fa co’ qualunque sia maghina annannosene a Sorrento, a Pariggi, a la Costa Brava, che però ce se deverte de minu, ce se carica de buffi e se fa solu pe’ finta de èsse contenti!…
Epo’? Vo’ mette lu somaru? Nun ce dovivi pagà niciuna tassa: lu rinnóvu de la patente, lu bóllu, la supertassa-biada, lu meccanicu, li posteggi, lu pedaggiu, ecc.
Lo più béllu de tuttu era che pe’ camminà a lu somaru nu’ je serveva la benzina o lu disel datu a strózzu. Lu legavi a ’na fratta, drento a un cannìtu o sopre un pezzittu de pratu e issu se preoccupava de fa lu “pinu” da sólu, pe’ èsse prontu a repartì come ’na littorina.
Che béllu lu somaru! Je se deva cérti nomi de simpatia che le maghine de mo se li sognanu: Ciciaréllu, Pisciacellittu, Garibbardi, Cipolletta, Magnataralli, Savoia, Pappazippi, Pistamentuccia, Favinèlla, Culuniru, Maccalè, Zannapéllu, Magnarampazzi, Addis-a-Bebba, Caporetto, Soffiascurégge, Cinquezampi, Tanghisse, Napoleone… E ’nzème co’ lu somaru ce se fotografava spissu, perché issu era come unu de famija. Era lu vantu e la soddisfazione de tutti. Era lu termine de paragone de qualunque sia meritu, de qualunque sia onèsta fatica. Séte mai sentitu di’ óggi che un politicu,’nu scolaru, un gristianacciu qualunque ressomija a ’na cinquecento? A un’Arfa sudd? A un Ferrari? Inveci ’na vota bastava pocu pe’ di’ a chiunque:
– Ammazzate che somaru che sì!
Vàjelo a di’ óggi, vàjelo a di’: nun se lo merita niciunu! che inveci ancora je se potesse di’:
– Ammàzzete che somaru che sì! – allora scì che lu munnu potrebbe continuà a ruzzicà pe’ lu mejo!
Da Noi figli, noi padri, un brano dal secondo atto:
Giovanni: Allora Paoluccio ’na vota ce tenéva un vizziu. ’Puntava sempre lu ditu ’n faccia a la génte, sia che ce scherzava, sia che ce litigava. Coscì (Punta il dito ad un palmo dal viso di Memmetto)
Memmetto (ritraendosi): Aho, e io nun me ne so’ mai ’ccortu.
Giovanni: Se te stai zittu capisci lu perché… Era témpu de vendemmia. Io, Lorenzo de Zivivì, Mastr’Arcangelu, Sor Bernardo Ceccóni, Papóne, lu Bovittu e qualedun’atru, stavamo a séde a lu barre de Frosi quanno Paolucciu, passatu l’arcu de Sarròcco, viè su frustanno lu somaru pe’ fa’ vède a tutti quantu ancora fusse arzillu dópu avé viaggiatu pe’ tutta la giornata. E lu somaru guasi se mette a curre, ma appéna ce ’rriva davanti pia ’na cipolla e casca facènno sbatte li bigunzi che se spaccanu come li granati. Un canéstru de fìcora, da sopra a lu ’mmastu, schizza pe’ l’aria e recasca ’n bracciu a Papóne che, mentre nui currémo a riarzà lu somaru, se mette a magnà le fìcora quattro pe’ vota, senza mancu capàlle. (Ridono un po’ tutti)
Nui intantu cercassimo de remétte ’n piedi lu somaru povera bestia, che pe’ lu sforzu e la gran paura se mise a sparà da sotto a la coda che pareva de sta a sentì li fóchi de maggiu. (risate) Paoluccio, niru come la pece, ’ppunta lu ditu própiu davanti a lu musu de lu somaru e se mette a strillà: “Te piasse un córpo subbitu! Te venisse la cacarélla a fischiu!”… E lu somaru: “Ahammm” je mozzica lu ditu, coscì. (morde il suo dito) E nun lasciava più!… (risate). Le passonate, povera bestia! Je dovessimo strigne le fròce de lu nasu pe’ faje lascià la presa (risate). Ma mica è fenita qua: mentre ’ccompagnevamo Paolucciu a lu spidale pe’ fallu medicà, Papóne je se para davanti e je reddà lu canéstru vótu. Trenta chili de ficora s’era magnatu tuttu da sólu e je dice: “A Paolù, repìate lu canestru. ’Sse ficora nun valevanu gnente: so’ ìte giù come l’acqua”. Se ’ncazza Paolucciu. Punta ’n faccia a Papóne lu ditu ’nsanguinatu e je fa: “Te potissi strozzà, bruttu scostumatu!” E Papóne: “Ahammm” je mozzica lu ditu, come aveva fattu lu somaru. (risate) Da quella vota Paolucciu n’ha più ’ppuntatu lu ditu mancu pe’ sentì da che parte tira lu véntu.
Mauro Felici, prolifico poeta eretino, nel 1994, dalla Pasquetta dell’Eretino, ha tratto una commedia musicale in dialetto. La sua esperienza teatrale è continuata con Ornitologica (1999), Il Sorbo è diventato rosso (2001), L’albero delle gensole (2004), Totus Tuu (2006), Il mio Pinocchio (2007), Un burattino dall’infanzia negata (2010). Tutti i testi indicati sono stati rappresentati.
https:////www.teatroantico.org
Teatroantico è un’Associazione che dal 1990 produce Spettacoli Teatrali e Mostre sui grandi nomi del Teatro e del Cinema Italiano e Internazionale. Sede: Via Vladimiro Riva, 75 – 00015 Monterotondo (Rm). Presidente: Cecilia Di Stefano. Presidente Onorario: Arnoldo Foa’. Capocomico: Elisabetta Centore.
In Montecirco (2010) di Angelo Mancini, poeta e narratore, in racconti pervasi di molti termini dialettali e umori locali, secondo Marta Aceto “disadattati, folli balordi, soccombenti all’evolvere dei tempi, vivono solitari in una dimensione mai alienata, anti-eroi fieri di un ancestrale purezza, creature istintuali dai primitivi bisogni che sono tuttavia della stessa immateriale sostanza dei sogni. Montecirco appare in definitiva una terra di mezzo, un microcosmo popolato di insidiosi lenoni; uomini sconfitti, emarginati, annichiliti dal peso dei cambiamenti, ma estatici e incredibilmente dignitosi nel difendere una civiltà ormai indecifrabile. (…) La manipolazione del dialetto è sapiente nella forma, geniale nella reinvenzione di una lingua che alterna e intreccia i timbri, il colore delle singole voci, in una tessitura polisemica che dà vita a un ipertesto sonoro”.
Un breve accenno della sua prosa dialettale: “Bbutti, butti, bbutti… butti pure vui, guardie zzozze, co’ lu cervéllu menutu come qquillu de ’n cellittu, ppiù mmenutu de lu méu… sempre su l’atténti a sservì e obbedì a chi ve cummanna… a mette ’n galera pure la matre che vv’ha cacatu se vve lu ordinanu… ma io so’ pazzu!”
In una breve nota Andrea Camilleri sottolinea come Montecirco sia
“un lavoro originale e nello stesso tempo vicino a tutti noi” e non ha dubbi che l’autore “abbia una buona disposizione al racconto e lo si vede da come sa comporre le storie individuali dei suoi personaggi e collocarle, contrapporle, fino a disegnare un insieme di speranze, di dolori, di fantasie, di illusioni. Il racconto è ambientato in un paesino di fantasia della Bassa Sabina nella seconda metà del secolo scorso e rappresenta sostanzialmente il progressivo declino di una cultura contadina, con il suo modo semplice di rappresentarsi il mondo, rispetto ad una realtà consumistico-industriale destinata a far tabula rasa del passato. Da qui la necessità narrativa di adoperare anche il dialetto – isola di fortissima, coinvolgente espressività – in continua alternanza con una lingua di avvolgente omogeneità. E mi pare, questa, una scelta giusta, condivisibile.”
Segnaliamo anche di LeoValeriano, Novelleion, ovvero I racconti della Fraschetta. Miti e leggende della provincia romana, Carlo Marconi editore, Roma, 2003. I racconti sono ambientati a Monterotondo, Mentana, Palombara Sabina, Montecelio, ecc.
6. I testi di poesia
L’Antologia dei poeti dialettali eretini, Università Popolare Eretina, Monterotondo 2010 a cura di Antonio Lagrasta è senz’altro l’opera più completa e aggiornata sui principali poeti dialettali del luogo. È preceduta da un ampio saggio del curatore e da una premessa critica per ogni autore antologizzato (esclusi tre), ma mancano i dati anagrafici e in appendice un ampio, utile glossario.
Gli autori antologizzati sono: Roberto Abruzzese, Ugo Angelini, Augusto Carletti, Luigi Cataldi, Lorenzo De Angelis, Mauro Felici, Adolfo Ferrari, Mario Fiocchetta, Aldo Fossati, Gino Pietrosanti, Osvaldo Scardelletti, Benedetto Silvestrini. In precedenza nel libro Nostrana Scardelletti aveva dedicato un capitolo ad una sintetica antologia di poeti eretini e tra questi aveva inserito Paolo Angelani, Ugo Angelini, Augusto Carletti, Mauro Felici (nato a Monterotondo nel 1938), Adolfo Ferrari (antifascista e perseguitato, Monterotondo 1873-Roma 1955), Alvaro Fiocchetta (nato a Monterotondo nel 1948), Angelo Mancini e naturalmente se stesso.
Seguendo un ordine alfabetico faremo una breve rassegna di tutti questi autori.
Roberto Abruzzese (In Eretini a p. 183-184 sono riportate due poesie in romanesco di Roberto Abruzzese: “Feragosto” e “Er Manifesto” dalla raccolta Stati d’animo.
Ugo Angelini. È antologizzato in Nostrana p. 104-105 in cui si precisa che è nato a Monterotondo nel dicembre 1929 con la poesia “La Bullicara” datata 1973, tratta dal volume Nostalgie, edito nel maggio 1980. La stessa poesia è ripresa anche in Eretini p. 55-80 dove sono proposte 7 poesie dalla raccolta Nostalgie e 5 da Riflessioni. “Il mondo della sua poesia – osserva Lagrasta – è chiuso nel cerchio di figure e luoghi come vigna-orto-chiesa-abbeveratoio-festa-giochi-ritratti. (…) I luoghi citati nella sua poesia rivelano riconoscimenti inattesi e personali che approdano all’infanzia, quando c’era l’innocente, appagante felicità del ‘tutto e niente’; la memoria storica dei luoghi s’intreccia con quella personale.” Per contro la modernizzazione selvaggia contrasta e devasta fortemente questi luoghi e ricordi nei quali il poeta cerca un impossibile rifugio.
In morte di Paolo Angelani, pittore e poeta, l’amico Osvaldo Scardelletti compone una poesia in romanesco riportata in Raccontare Monterotondo insieme ad un affettuoso ricordo: Nun ce stai più / de te, però rimane / er monno ch’hai dipinto cor pennello, / l’ulivi e le montagne de Sabina, / le mandrie pigre sott’ar solleone, / er Tevere de brace verso sera, / le case de paese, / quarche via, / le facce de chi soffre e se dispera / e affoga er pianto drento all’osteria. / Puro de Roma, grazie a te rimane, / quello che nun se vede in cartolina: / tetti d’urtiche, / stracci appesi ar sole / caretti fermi ch’arzeno le braccia / ommini co’ li pesi su la schina / e regazzini co’ la fame in faccia. / Quante cose ciài detto cor pennello! / Quante accuse a chi sfrutta l’operajo.
In Nostrana, lo stesso Scardelletti ci offre invece due poesie di Angelani, in lingua, “In confidenza col Tevere” e “Canto d’amore”. Da quest’ultima, datata Monterotondo 1956, citiamo: È sera, gli ultimi orti della periferia / umidi e tristi, guardano con occhi verdi / il nostro passare distratto. (…) Noi non sappiamo molte cose del mondo / e non cerchiamo intorno gli usati gladioli / che presiedono agli amori difficili. / La periferia è fatta di tufo.
Di Augusto Carletti (nato a Monterotondo nel 1914) in Nostrana è riportata la bella poesia “Li leuni” (dedicata al monumento del centro storico, con quattro leoni scolpiti da Romeo Liberati, da cui sgorgavano quattro zampilli), tratta dalla sua raccolta Il mio porto, e che si può apprezzare nella nostra antologia. In Eretini figurano, sempre tratti dalla raccolta di Carletti già citata, sei sonetti. Nelle sue poesie Carletti affronta – afferma A. Lagrasta – “temi politici e civili come “27 luglio 1921” sull’assassinio di un giovane da parte di alcuni squadristi, che si alternano ai temi della memoria e del rimpianto per il mondo contadino perduto e dell’infanzia”. Belli i suoi sonetti “La pratarina” (con cenni ai giochi di una volta) e “Lu carrettiere” (anch’esso in antologia).
A. Lagrasta nella sua antologia dei poeti eretini riporta un brano di Luigi Cataldi da La Mola de Adriano ovvero all’Osteria de Castello (con prefazione dell’autore, note al testo e appendice storica – in quarta di copertina, edita nel 2002) una ricostruzione in versi della quasi bimillenaria storia di Castel Sant’Angelo dal punto di vista degli avventori di un’immaginaria osteria di un paio di secoli fa. I loro racconti, anche se un po’ approssimativi illuminano a tratti il lunghissimo periodo della storia dell’imperatore, intrecciandosi con la storia di Roma e del Papato. Nelle 9 strofe antologizzate (5 quartine e 4 sestine variamente rimate di ottonari) si assiste a un divertente e dialogo tra un papa napoletano e un artista di Roma nei rispettivi dialetti: “Voje fatte ’nu lavore, / ma imbresse o passi i guai!” // Dite pure, Santità. / Lo sapete che da me / n’ ve potete lamenta’.” / “Sì, ’o saccie ’rchitette belle… / È perciò eh ’ie ve cummanne: / accunciateme ’o Castielle!” // “Ah!… Vabbèh, ma se vedrà. / Ce dovrebbe ’n po’ penza’…” / “Sole doje settimane! / E che i sfaccimme de Rumane / loche dinte chiù n’ trasisse: / chiste e chille ch’je vulisse! / Cà facìteme ’o fussate / cà a caserma d’i surdate, / loche voje li turriùne / e ’n copp’isse li cannune…”.
Negli altri 6 brani in dialetto più due in lingua, tratti dalla raccolta Poesie mie, secondo A. Lagrasta, “la passione per l’archeologia riaffiora, insieme alla rievocazione nostalgica di vita monterotondese e la nominazione degli affetti più intimi o amicali. Comunque la poesia di Cataldi è pervasa da una forte ironia generatrice di scherzo, divertimento, dissacrazione di alcune mitologie”
Poesie romanesche all’osteria è l’unico in dialetto tra i numerosi libri di Lorenzo De Angelis. Tra le motivazioni quella di lasciar esprimere a modo loro ai personaggi plebei le grandi tematiche sul destino del genere umano. Ecco un brano da “Le tentazioni della barba”: … “Gesù ha cert’occhi tutti blu, brillanti / da mèttere paura come er celo / de bellezza e tremore che li guardi / a notte. / Appena un velo / de sospetto, d’invidia o de giustizia / (nun se capisce bene quer che sia, / forse un accenno de cojoneria) / je fa du’ rughe affianco de lo sguardo / e tutto er resto è amore annato a male, / così male da piagne quant’è bello e triste”. // “Cazzo!” / j’arispose er compare all’osteria: “ me pare / come si tu j’avessi fatto a Cristo / er ritratto da vivo quanno ancora in croce / aspettava er momento de morisse in pace. / Ma tu quanno l’hai visto Gesu Cristo?”
Le sue poesie sono in versi liberi e le sue tematiche spaziano, secondo A. Lagrasta, “dalle analisi intimistiche, ai bozzetti, ai dialoghi labirintici e surreali. Nelle sue composizioni si nota un impegno nella lotta contro tutte le ipocrisie che si manifesta in toni espressionistici e violenti, in una deformazione e compressione del reale, in una forte energia verbale alla ricerca di un impianto linguistico originale.”
Di Mauro Felici in Nostrana di O. Scardelletti sono riportati un testo in lingua “A mio padre” ed uno in dialetto “Miniera” da Chiaroscuri, mentre nell’antologia curata da A. Lagrasta sono presenti 3 testi tratti da
Chiaroscuri (1980), 2 da La Pasquetta dell’Eretino (1985), 6 da La striscia rossa (2005) 4 da L’albero delle gensole (2004), 1 da Una volta si mangiava così (2000), 5 da Molliche (1995) e due inedite, la prima dedicata a sua madre, “La scudella” (inserita nella nostra Antologia), e la seconda encomiastica (cosa eccezionale e sorprendente per un montretunnese!) dedicata alla “Nobile Mentana”.
La sua passione per la poesia inizia nel 1960, alimentata dalla frequentazione con un gruppo di amici, poeti e pittori. Tra questi Dante Maffia che sarà anche il prefatore della sua prima raccolta di poesie Eroe 2000 (1970). Felici è autore anche di Vetriche (1994), Matilde (2001) e Pepperlife (2004, coautore per le foto Pietro Leonardi) in cui è protagonista il peperone (forse per la prima volta in assoluto nella storia della poesia e della fotografia. Felici ha partecipato con successo a molti concorsi di poesia ricevendo sempre riconoscimenti ed apprezzamento per le sue capacità, soprattutto nel sonetto, di cui è profondo conoscitore, sia in lingua che in dialetto.
Di lui ha scritto Elio Pecora: “Felici è autore di raccolte di versi e di testi teatrali singolari per fluidità di tono e per vivezza di strumenti (…) Si serve con naturalezza dell’endecasillabo e compone sonetti che insieme divertono e ammaestrano (…) Riesce nella sua poesia dialettale a travalicare la maniera e l’atteggiamento, pure troppo frequenti, in tanta poesia dialettale; ma ancora più, scansa il patetico della nostalgia, riattraversando il passato e colmandolo di una allegria tutta presente e partecipe”. E Franco Campegiani osserva che egli è “non solo, conosciuto ed apprezzato sonettista, con le sue Pasquinate, pone al centro della sua satira le insofferenze per i problemi e le incertezze del tran-tran quotidiano (…) Dimostra di conoscere le distanze che corrono tra poesia e ideologia e lo testimonia con la sua ‘striscia rossa’. Distanze che non sono solo linguistiche, se è vero com’è vero, che il linguaggio è pensiero”.
Felici ha ricevuto numerosi riconoscimenti in premi di poesia tra i quali il Mezzaluna sia nel 1988 che nel 1989. Nel 1988 con “Lu funerale de nonna Lucia” che, nonostante il titolo, rivela uno scherzo da prete, fatto ai danni di un Monsignore da suo nonno, il quale, ricevette, in punto di morte, la consegna dalla consorte di far recitare una messa per andare dritta ’mparadisu. E Nonno j’ordinò tuttu ’n ze scompose: / campane, cera, la messa cantata, / quanno Cellittu je portò le spese // respose: Monsignore, mo s’attacca! / Io ’mparadisu cela so’mannata / è ’na cogliona essa s’arescappa! Nel 1989 con “Ma’”, un’ispirata poesia in versi brevi, quasi singhiozzanti:
Rentorcinata drento / a ’n scialle niru / come la notte fa’ / scurà la morte. // Sospiri Ma’! ’Spettanno / e mentre ’spetti / te trovi sòla co’ la / conca ’n capu, // ogni penzieru te / diventa ’n sognu / e tiri ’nnanzi / ’n passu doppu ’natru. // Mo te si accorta che / passa lu tempu / e nun te frega de’ / le cose belle; / te guardi ’n giru / senza vedè gnente / e t’accontenti de’ / guardà le stelle. // Ma quanno ridi drento / Ma! io me ne accorgio. / Te sento viva e me / s’opre lu còre. // Tuttu se ferma come / a mezzugiornu / e a mezzanotte / fa’ scappà lu sòle.
Di Adolfo Ferrari (Monterotondo 1873-Roma 1955), antifascista e perseguitato, due suoi sonetti (riscritti a memoria e tramandati da Mazzini Angelani) sono in Nostrana di Osvaldo Scardelletti e, tratti da una raccolta inedita di una trentina di Poesie politiche-satiriche antifasciste, curata e custodita dal nipote Enrico Angelani, in Poeti dialettali eretini sono presenti cinque sonetti.
“L’aspetto interessante – annota A. Lagrasta – di questa raccolta è che essa rappresenta una sorta di commento storico ‘cantato’ agli avvenimenti principali del Ventennio e alla stessa figura di Mussolini”. Ecco ad esempio “Documenti de Grannezza” (datato Roma 1936):
– Fermo! Chi sei? E dimme in dove vai. / Sta’ attento de nun famme er prepotente. / Fôra li documenti, si ce l’hai. / Recordete che parli co’ un agente! // – Sor brigadiere mio, io so’ un pezzente. / Sto annanno a casa p’evità li guai… / Ciò qui in saccoccia tanto de patente / de stracciarolo che… nu’ sgara mai! // Ecco: guardate quanti documenti… / Sfratti, sequestri, quarche citazione… / Ce n’ho un sacchetto de ’sti comprimenti! // – Basta accusì, se no te sparo a vista. / ’Ste carte so’ l’orgojo e la passione / che fanno granne er popolo fascista!
Alvaro Fiocchetta è autore delle raccolte poetiche in dialetto romanesco e monterotondese Venti scalini (1980), Paese meu (1987) e Anni passati (2010) e delle raccolte in lingua L’albero dei kaki (1984) e La papera che vola (1994).
Nell’antologia di A. Lagrasta figura un’ampia scelta di sue poesie nelle quali dominano, a contrasto, la nostalgia del tempo andato e perduto, recuperato solo nella memoria, e la frustrazione derivante dalla “modernizzazione forzata e distruttiva di paesaggi, tradizioni, valori che erode ancor prima della lingua locale le cose stesse”. La poesia eponima della prima raccolta “Venti scalini” sintetizza la sua visione del mondo legata ai venti scalini da scendere al mattino per andare al lavoro e da risalire la sera rientrando a casa: Venti scalini ciò da risalire, / a ognuno ho dato un nome a modo mio: / papà, marito, omo, amore, Dio, / casa, gioia, pace, parlare, udire, / donna, fiji, piacere, vita, sorte, / gnente, poco, tanto, tutto e… morte!
Un altro poeta monterotondese, Osvaldo Scardelletti che nella sua Nostrana riporta due poesie di Fiocchetta, nella sua presentazione a Paese meu, ci aiuta a comprendere meglio il nucleo centrale della poetica di Alvaro:
Ed ecco allora l’Alvaro dei Venti scalini e de L’Albero dei kaki tornare sui passi dei tempi perduti per ripercorrere, scazu come ’na vota, i vicoli ancora riconoscibili tra le case che stanno cambiando o in rovina; per ricalpestare gli ultimi sampietrini rimasti, per rivivere le stesse sensazioni dei giorni passati: La matina sentevo un raja raja / che allora ce faceva da svejetta: / s’annava da lu lettu co’ la paja / a lu bacile sopra la staggetta; / pe’ colazione se faceva a lotta / co’ un po’ de pane e un culu de pagnotta. (…) Certamente Montretunnu de’na vota non era perfetto. Chi vi abitava, sgobbava come un somaro e faceva a lotta pe’ un po’ de latte e un culu de pagnotta. Tuttavia Alvaro non può non raccontare, pensando a Via Felice: Quann’ero monellittu quella via /sembrava un formicaru scoperchiatu; / e fino a quanno ’n venne lu sbragatu / c’era remasta ancora l’allegria! // De quilli tempi ’n c’è remastu gnente, / mo nn’è Felice, è Via Malinconia! (…) È vero il paese non era perfetto e tuttavia Alvaro non può non raccontare: ’Na vota, quanno ’n c’era lu rumore / de le maghine e le televisioni, / sentevamo cantà pe’ li rioni / le più belle canzoni dell’amore. / Pe’ le vigne, le case e li tinelli / sentivi un cinguettìo de ritornelli e infine conclude: Oggi però che s’è tuttu cambiatu / ce semo perzu? Oppure guadagnatu? E qui mi fermo, lascio che il lettore cerchi da solo le risposte. Paese meu (…) può anche sembrare una reviviscenza di amori perduti, ma se lo si legge con attenzione ci si accorge che invece è un modo affettuoso d’indicare no’ lu vicolu ’n dove so’ morti li tempi passati, ma un modo per ritrovare l’Amore e la Speranza attraverso un antico esempio di vivere, che era una garanzia di rispetto per tutti.
Il poeta afferma di usare “un linguaggio semplice, un dialetto addolcito, come quello che credo, si parli oggi”. Era comunque il 1984. Fiocchetta ama Monterotondo “in maniera sviscerata” e le sue poesie rappresentano bene il suo “modo di amare il paese e la gente che lo costituisce” . In antologia proponiamo “Monterotunnu!!”
Di Aldo Fossati non abbiamo molte notizie biobibliografiche tranne quelle contenute in Poeti dialettali Eretini (pp. 175-182), dalle quali apprendiamo che ha pubblicato la raccolta di sonetti in romanesco Sparpagnaccole (è un termine belliano; sta per pernacchie), di cui vengono riproposti sette, insieme al sonetto inedito “La cavarcata” e al doppio sonetto “Er paese mio” che proponiamo nella nostra antologia. Secondo Lagrasta “è interessante il paragone tra la poesia di Fossati, i cui esordi risalgono, per sua stessa ammissione, alla vigilia di Natale 2002, e quella di altri come Fiocchetta, Felici, ecc. (la cui produzione risale in prevalenza agli anni Settanta-Ottanta/inizi Novanta) di cui è più o meno coetaneo. Mentre in questi ultimi è quasi sempre presente una connotazione nostalgica e “crepuscolare”, aspetto che denota una profonda partecipazione emotiva, in Fossati prevale invece un’atmosfera di disincanto; è come vedere la stessa materia del poetare, lo stesso paesaggio col distacco (dovuto a qualche decennio e dall’alto di antiche certezze valoriali) che genera soltanto gioco e divertimento.”
Angelo Mancini è autore di raccolte di poesie, saggi e testi teatrali. In Nostrana è riportata una sua poesia autobiografica in italiano “Piazza del Sole”, tratta dalla silloge Mi diverto da morire (1982), in cui, in controtendenza, dichiara: Tutti mi volevano bene, / eppure non ero felice / e ricordo ogni cosa con una strana tristezza. // Non ho, in fondo, nostalgia / per Piazza del Sole / dove giocavo spesso da bambino; / per quella parte vecchia del paese / che oggi mi è tornata alla mente / coi suoi profumi, / i suoi silenzi, / coi suoi fantasmi / …chissà perché…
Gino Pietrosanti (Eretini p. 187), solo dopo essere andato in pensione ha scoperto una sua vena poetica che lo ha portato a comporre poesie in rima che ha pubblicato insieme a foto d’epoca in due raccolte poetiche in dialetto: Poesie (2008) e Ieri, oggi, e… (2010) intessute di ricordi di vita paesana. Si esprime prevalentemente in quartine variamente rimate.
Osvaldo Scardelletti (Monterotondo 1928-Roma 1991) è stato disegnatore, fumettista, grafico pubblicitario, pittore, ha avuto un grande interesse per la narrativa, la regia teatrale, il giornalismo e la poesia. Nel 1970 ha pubblicato poesie in dialetto romanesco sul “Rugantino”. Nel 1985 pubblica il libro Nostrana e, tornato stabilmente a Monterotondo, diviene il fondatore della rivista locale “Ergo” che diverrà in seguito quindicinale e supplemento al giornale “Mondo Sabino”. Sono del 1986 la raccolta di poesie in italiano Canto d’amore e il poemetto Er monno da principio. In seguito organizza il Pincetto di Poesie, rassegna dedicata sia ai poeti dialettali monterotondesi che ad altri. Nel 1986 pubblica la raccolta di poesie Canto d’amore (in Poeti dialettali eretini sono riproposte le poesie in lingua “Maledetti padroni”, Alla luna”, “Lascia che anch’io mi riscaldi” e poi “Epilogo”, in lingua, e “Volevo ’cchiappalle le stelle”, in dialetto, due liriche sullo stesso soggetto quasi a gara tra di loro per bellezza ed efficacia. Le riproponiamo:
Epilogo – Bambino guardavo le stelle, / non per studiarle. / Volevo che fossero mie. / Ad esse tendevo le mani / e tra le dita scrutando / le possedevo felice. / Oggi soltanto ho capito: / le stelle sono lontane, / non ne possiedo nessuna. / Mi sento solo e perduto / su questa zolla dispersa / nell’universo infinito.
Volevo ’cchiappalle le stelle – Munéllu guardavo le stelle, / a ésse allungavo le mani / perché volevo ’cchiappalle. / Ma oggi, però so’ capìtu: / nun se ne ’cchiappa niciuna. / Me sa che è pe’ quistu mutivu / che oggi me sentu sperdutu / sopra a ’sta toppa de terra, / che gira e che reggira / nell’univerzu infinitu.
Nella Prefazione al poemetto Er monno da principio Achille Serrao così traccia il profilo critico dell’opera:
È la documentazione ‘visiva’ dei primi giorni della creazione, sulla linea sottile ironica che il poeta vi insinua e che nel dialetto trova strumenti, modi, raffinatezze lessicali, avvantaggiandosi di tutta una tradizione del romanesco: da Belli a Pascarella, da Zanazzo a Trilussa, da Jandolo a Mario Dell’Arco, fino ad assumerne toni e movenze, cadenze e ‘atmosfere’, dalla piena fedeltà metrica alla misura endecasillabica.
Ironia, dunque, che svela il ‘mito’ e fa di Adamo, di Eva e di Dio (con profonda coscienza laica) antieroi e, se si vuole, eroi della volgarità discreta popolare: come a dire che si è finalmente pagato il debito bimillenario al ‘sacro’ e che è tempo di ‘sgranare’ pervicacemente la storia progeniturale profanandola di umano (debolezze e miserie, dubbi inclusi) per sottrarla a tutti gli infingimenti catechistici che una educazione ecclesiale ammannisce dall’infanzia anche ai poeti.
Poi la lettura potrebbe attestarsi sul carattere della anti-epicità (anti-storica) che il poemetto rivela, magari come diretta conseguenza dell’appena rintracciata antieroicità dei personaggi, magari puntando sul discorso alla rovescia che Scardelletti svolge in poesia rispetto ai temi della prosa. (In prosa è una saga con l’ambizione sostenuta di epicità dal suggestivo titolo L’universo del nostro silenzio, inedita, (…) un’opera di profondo impegno anche letterario.
(…) Credo sia il caso di affidare la residua responsabilità di questa presentazione a un inizio generico: la immediata godibilità della poesia di Scardelletti, che se appare al lettore almeno un merito, può far riflettere su certe ‘oscurità’ contrabbandate oggi per finesse e finezze profondamente innovanti.
Riportiamo qui solo la parte finale della cacciata dal Paradiso: Adamo ch’era stato sempre in piedi, / se chinò sull’amica che piagneva. / Je diede un bacio e, mentre la stigneva, / je fece, dice: “Cara ma nun vedi? // Sto Padreterno è un vecchio senza core: / pecca d’orgojo, come noi d’amore. // Nun piagne, arza la testa, drizza er busto. / Tra noi c’è differenza sostanziale: / a lui l’orgojo je fa tanto male, / a noi l’amore ce dà tanto gusto. // Nun piagne più, te prego, amore mio: / da questo istante te proteggo io”! // A Dio non je se mosse manco un pelo. / Chiamò ’ma guardia, un angiolo giurato. / Quello arivò piuttosto trafelato / scegnenno com’un bolide dar cielo. // “In de ’sto posto nu’ li vojo véde: /Cacceli via”! je disse e se ne agnede.
In Raccontare Monterotondo segnaliamo “Padre nostru” in cui Scardelletti ritrae con incisività dolorosa la cara immagine paterna: E mo, ch’è revenuta primavera, / te so’ revistu a séde a lu poggittu, / poveru vecchiu, / solu come un cane, / e subbitu re so’ reconosciutu, / Padre Nostru, / nostru passatu piattu quotidianu / che te neghémo un po’ de compagnia / e un muzzicu de pane. Dalla stessa opera abbiamo tratto ed inserito in Antologia “Cantico degli Eretini scritto da San Francesco”, bella rivisitazione del Cantico delle creature, e “A Fausto” una commossa poesia dedicata a Fausto Cecconi. Questa poesia può essere ascoltata dalla viva voce di O. Scardelletti (è su https:////www.youtube.com/watch?v=R8oAVavdI0A).
Di Benedetto Silvestrini non abbiamo notizie biobibliografiche tranne quelle rinvenute in Poeti dialettali Eretini che pubblica il suo poemetto in endecasillabi rimati “La vennegna, la svinatura e lo filtrà” tratta da Ottobre monteretunnese. Silvestrini mostra una buona disposizione alla versificazione, con buone capacità narrativo-didascaliche.
ANTOLOGIA
AUGUSTO CARLETTI
Li leuni
Io so’ de sassu e nun me pozzo move
tengo ’ncannillu ’mmocca e so’ sdentatu
e sia se c’è lu sole che se piove
guardo la gente mezzu cutulatu.
Da quanno che Romeo lu scarpellinu
me fece, so’ remastu sempre zittu
a respirà l’odore de lo vinu
e le verdure de lu Leperittu.
’Na vota stavo mejo, da la vocca
de tutt’e quattro c’era ’na cascata
d’acqua fresca e la gente locca locca
veneva a beve s’era concallata.
Mo so’ remastu solu e li fratelli
stau ’nturnu a la colonna ’ncojoniti,
portanu su la groppa li munelli
ma li piscitti d’acqua so’ spariti.
La lapide ’nc’è più, c’è tanta gente
ch’è ita a campusantu o pe lu munnu
e stu core de pietra se resente
e te vo reccontà de Montretunnu.
Lu carrettiere
La sera, doppu l’urtimu bichiere,
pjava guttaperga e mmottaturu
e tretticanno ’n po’ lu carrettiere
parteva propiu quanno ch’era scuru
e s’addormeva sopra lu carrittu;
lu cavallu scoteva li barili,
de sopra solu, sviju lu canittu
se sgolava a le stelle e a li fienili.
Vecinu a Roma c’era ’n fontanile
’ndo se fermava ’n pò lu vetturinu
pe ddà na ’nnacquatella a lu barile.
Pò co la coppuletta da painu,
reparteva cantanno versu Roma,
lu gurzumellu fracicu de vinu.
MAURO FELICI
La scudella
(a mia madre)
Io m’areguardo drento zitta zitta
e penzo avanti arreto stracca morta.
Mo’ so’ novanta, nu’ me ne s’occorta,
però me sento femmona e stò ritta.
Pe’ me sta vit’è come ’na scudella
prima che me ce portanu la pasta,
’mmezzu a’lu tavolinu pare bella,
ma pe’ campà da sola nu’ m’abbasta.
M’amanca quill’odore de’ campagna,
de prati verdi seminati a granu.
L’odore de settembre pe’ la vigna
quanno munella diventai compagna.
Mo co’ lu sòle calo pianu, pianu
e m’è remastu de campa’ pe’ tigna.
ALVARO FIOCCHETTA,
Monterotunnu!!
Se aprissi l’ôcchi un giornu e nun potrìa
guardamme lu palazzu communale,
io so’ securu che ce starìa male
tantu da famme pià ’na malattia.
Ma come se potrìa statte lontanu?
Me mancherìa de certu lu respiru!
Dicu che nun sì bèllu, forse è viru,
ma è viru sòlu pe’ chi nn’è paesanu.
Ancora se ne vau co’ quillu dittu
che ce diceva: “Montretunnu anticu
ce stai cent’anni e nun te fai ’n amicu!”
me lu sento redì da munellittu.
Forse l’amicu nun te lu farai
se ’spetti che te vè a cercà l’amicu!
Ma sta’ securu che qua lu nemicu
se nu’ lu vo’ nun ce lu tenghi mai.
Qua nun ce so’ vendette o cortellate;
ladri ce ne so’ pòchi e so’ contati.
Purtroppu stau ’n crescenza li drogati!
Ma so’ percentuali controllate.
Ce stau posti più belli pe’ lu munnu
ma io so’ natu ’n cima a lu Pincetto!
Sarò campanilista, si l’ammetto
e apposta strillo “Viva Montretunnu!
28 giugno 1984
ALDO FOSSATI
Er paese mio
I
Sessant’anni fa (e me pare jeri)
er mio era ’n paese de campagna,
de bbona gente, co’ tanta micragna
e pochi e marvisti forastieri.
Le chiese ereno più de l’osterie;
’na scola sola, er forno communale,
la posta, er teatro, lo spedale,
tre norcini e du macellerie.
Er gallinaro, ’n po’ de vigna e l’orto
era tutt’er patrimonio de famija;
er somaro er mezzo de trasporto.
Fatica tanta; feste commannate;
co’ Pasqua, Natale e Capodanno,
er primo maggio e Santantoniabbate.
II
Mo’ semo ’na città, multirazziale,
piena de forastieri e d’immigrati,
co’ ’na trentina de supermercati
a antrettanti centri commerciali.
Botteghe d’ogni tipo, ristoranti,
bar, pizzerie e posti de ritrovo;
ce vorrebbe uno spedale novo,
ma nun ce so’ mai sordi abbastanti.
Le strade so’ strette, ma asfartate,
semo invasi da machin’e cemento:
le vigne? Vennute o abbandonate.
Sur perché de’sto scempio semo chiari:
se spaccia pe’ progresso l’interesse
de ’na diecina de palazzinari.
OSVALDO SCARDELLETTI
Cantico degli Eretini scritto da san Francesco
Altissimo, onnipotente, bon Signore
protéggi ’stu paese de Sabbina
da Fiume a su da capo a la Torraccia,
da Tormancina a giù a lo Ponticèllo,
et ogni valle et ogni sua collina.
Proteggi e benedici specialmente
Piazza dell’Orologgio e de lu Sóle,
Via de la ’Mmattonata e de la Rocca,
Piazza Padella, l’arcu de Sarròcco,
Rossini, lo Pratone, lo Pincetto
e pure lo Palazzo che se sscòcca.
Benedici pe’ sempre lo Spidale
che ’vvecina la Morte corporale.
Benedici la Valle de bellezza,
dall’eretini detta Vallericca,
perché non sia rifugio a la monnezza.
Benedici, Signore, li cellitti
che fao lo nido drento pe’ le fratte;
benedici financo le galline,
le papere, li pórchi e li somari,
le pecore belanti, l’agnellitti
e sora vacca che ce dà lo latte.
Benedici li fóssi e le funtane
perché senz’acqua tutto quanto more,
erba non cresce e non matura pane.
Benedici, Signore, questa terra
che fra le zolle generose serba
delizia d’uva e grano in abbonnantia,
frutti d’ogni qualunque sia sapore,
arberi secolari e fiuri et herba.
Benedici, Signore, frate vènto,
e nubilo e sereno et ogni tempo,
pe’ lo quale tu dai sostentamento
a ’sto paese sopra a ’sta collina
che lauda Te de ogni sua abbondantia
concessa per Tua Santa Volontate.
E vui genti eretine rengratiate
nostro Signore cum grande humiltate.
A Fausto
Nun te ’bbastave de campà
co’ li piedi pe’ terra
e de giocà co’ l’antri munellitti.
Più su de li pali,
più su de li titti
volivi sta’
e te mettissi l’ali.
Quanno che la domenica metina
scegnivi da le nuvole
pe’ sprilluccà le foje all’arberitti,
papà Bernardo e pure mamma Nina
sbracciavanu davanti a lu casale
facènno sventolà li fazzolitti.
Gruppitti de munélli
smettevanu li giochi pe’ guardatte,
currènno pe’ le strade e pe’ le piazze.
L’ommini e le regazze
lasciavano le case e li tinélli
pe’ sfarfallà le mani
e salutatte.
Ma nu giornu,
pe’ conquistà lu munnu,
volassi pe’ li spazzi sconfinati
e da leggènna ch’éri a Montretunnu
entrassi ne’ la storia
e deventassi un’aquila de gloria.
Però fu lu prencipiu de la fine
ché la sorte benigna,
un mese dópu a Pisa,
te se fece maligna.
Lu passu téu,
ch’era fattu de véntu,
te deventò de piummu.
Te se chiuseru l’ali
e lu mare
te ’gnottì com ’n sassu
trascinànnote a funnu.
…E Montretunnu qua se feci zittu.
Mute le case e muti li tinélli.
Muti come le pietre li munélli.
Muta la gente ’n mezzu a le campagne.
Póveri sor Bernardo e sora Nina!
Póveru ’stu paese e tutti nui!
’N ce ’bbastavanu più l’ócchi pe’ piagne.
(da Ergo, settembre-ottobre 1988)
Cenni biobibliografici
Roberto Abruzzese. In Poeti dialettali Eretini a p. 183-184 sono riportate due sue poesie in romanesco: “Feragosto” e “Er Manifesto” dalla raccolta Stati d’animo.
Ugo Angelini. È antologizzato in Nostrana p. 104-105 (in cui si precisa che è nato a Monterotondo nel dicembre 1929) con la poesia “La Bullicara” datata 1973, tratta dal volume Nostalgie, edito nel maggio 1980. La stessa poesia è ripresa anche in Eretini p. 55-80 dove sono proposte 7 poesie dalla raccolta Nostalgie e 5 da Riflessioni.
Paolo Angelani, pittore e poeta monterotondese. L’amico Osvaldo Scardelletti pubblica un profilo e una poesia in romanesco a lui dedicata in Raccontare Monterotondo. In Nostrana, lo stesso Scardelletti ci offre invece due poesie , in lingua, di Angelani: “In confidenza col Tevere” e “Canto d’amore”. Quest’ultima è datata Monterotondo 1956.
Augusto Carletti, nato a Monterotondo nell’agosto del 1914, di professione avvocato e poeta per diletto, è autore della raccolta di poesie in monterotondese Il mio porto.
Luigi Cataldi è autore del volume di poesie La Mola de Adriano ovvero all’Osteria de Castello (con prefazione dell’autore, note al testo e appendice storica – in quarta di copertina –, edita nel 2002).
Lorenzo De Angelis, nato nel 1926 a Monterotondo, si è laureato in filosofia, ha insegnato e ricoperto incarichi al ministero della Pubblica Istruzione. Ha collaborato alla Voce Repubblicana. Ha pubblicato i libri di poesia La rosa e la ferita (1987), Il cuore di polvere (1991); la raccolta di racconti I calzini rossi (1989), il romanzo Gli azzardi dell’essere (1993); le raccolte di poesie Per gli archi e stelle e fogne e Calci di letizie (1994); la raccolta L’arcangelo mancato e altri racconti (1994); il romanzo In cocchio sulle alture (1995); i racconti E che hai concluso? (1997); Il giusto affanno (1995); I viandanti del grande appuntamento, romanzo (2000). In dialetto ha pubblicato nel 2002 Poesie romanesche all’osteria.
Mauro Felici, nato nel 1938 a Monterotondo dove vive. Presidente regionale della Confesercenti e dell’Istituto per la Formazione CESCOT Lazio, è impegnato socialmente; è socio fondatore della fondazione Carlo Ferri per la lotta contro i tumori. Ha pubblicato: Eroe 2000 (1970), Chiaroscuri (1980), La Pasquetta dell’Eretino (1985), Vetriche (1994), Molliche (1995), Una volta si mangiava così (2000), Matilde (2001), Pepperlife (2004), L’albero delle gensole (2004), La striscia rossa (2005), Il mio Pinocchio (2005), Il festival del tulipano (2006) Totus Tuu (2006), Libertà (2009), Commy. Dal baratto all’Euro, passando per la lira (2010), Dodici mesi per raccontare una città – in giro per le mura… della mia (2010).
Adolfo Ferrari (Monterotondo 1873-Roma 1955), antifascista e perseguitato. Due suoi sonetti (riscritti a memoria e tramandati da Mazzini Angelani) sono in Nostrana di Osvaldo Scardelletti. Una trentina di sonetti sono presenti nella raccolta inedita Poesie politiche-satiriche antifasciste, curata e custodita dal nipote Enrico Angelani. In Poeti dialettali eretini di A. Lagrasta sono riportati cinque di essi.
Alvaro Fiocchetta, nato a Monterotondo nel 1943, dove gestisce un piccolo negozio di alimentari. Il suo incontro con la poesia è avvenuto a 10 anni circa, mentre lavorava al Bar Centrale dove “tirava de mente”, cioè gareggiava con i vecchi stornellatori del paese per guadagnare più mance. È autore delle raccolte poetiche in dialetto romanesco e monterotondese Venti scalini (1980), Paese meu (1987) e Anni passati (2010) e delle raccolte in lingua L’albero dei kaki (1984) e La papera che vola (1994).
Aldo Fossati. Le uniche notizie biobibliografiche su di lui sono in Poeti dialettali Eretini in cui sono presenti sonetti in romanesco tratti dalla raccolta Sparpagnaccole, e tre sonetti inediti. I suoi esordi poetici risalgono, per sua stessa ammissione, alla vigilia di Natale 2002.
Angelo Mancini, nato in Belgio nel 1952 da genitori di Monterotondo, dove vive e si occupa della biblioteca del liceo. Laureato in Letteratura italiana e specializzato in Biblioteconomia è stato ricercatore presso l’Istituto di Scienze dello Spettacolo del Magistero di Roma. Filologo, musicologo, è autore di raccolte di poesie, saggi e testi teatrali. Ha pubblicato la silloge Mi diverto da morire (Roma, C.I.A.S., 1982) e per Manni ed. Graffio di cuore nel 2006 e Montecirco nel 2010.
Gino Pietrosanti, nato a Monterotondo nel 1925, ha frequentato solo le elementari prima dell’avviamento al lavoro come manovale divenendo poi muratore. In seguito con i figli ha creato una piccola impresa edile. Solo dopo essere andato in pensione ha scoperto una sua vena poetica che lo ha portato a comporre poesie in rima che ha pubblicato insieme a foto d’epoca in due raccolte: Poesie (2008) e Ieri, oggi, e… (2010); due sue poesie sono anche in Antologia dei poeti dialettali eretini.
Osvaldo Scardelletti (Monterotondo 1928-Roma 1991). Disegnatore, fumettista, grafico pubblicitario, pittore, ha avuto un grande interesse per la poesia, la narrativa, la regia teatrale, il giornalismo. Nel 1956 si sposa e si trasferisce a Roma. Svolge il suo lavoro nel mondo del cinema. È nominato direttore nel reparto truke cinematografiche. Pubblica nel 1965, con l’editrice Carrier, il libro Il giardino dell’erba voglio, una favola poetica sia per bambini che per adulti. Nel 1970 pubblica con la casa editrice ODEPÉ La pelle degli altri, romanzo ambientato a Monterotondo intorno all’8 settembre 1943. Sempre nel 1970 pubblica poesie in dialetto romanesco sul “Rugantino”. Nel 1985 pubblica il libro Nostrana e, tornato stabilmente a Monterotondo, diviene il fondatore della rivista locale “Ergo” che diverrà in seguito quindicinale e supplemento al giornale “Mondo Sabino”. Nel 1986 pubblica la raccolta di poesie Canto d’amore, edita da L’autore Libri, di Firenze. Sempre nell’86 pubblica il poemetto Er monno da principio e L’almanacco di Ergo. In seguito organizza il Pincetto di Poesie, rassegna dedicata sia ai poeti dialettali monterotondesi che ad altri. Fonda la Compagnia teatrale “9 settembre”. Questo nuovo interesse lo porta alla stesura del dramma Noi Padri noi Figli del 1989 e nel 1991 della commedia Lu processu a lu Magu di cui cura anche la scenografia. Nel 1992 pubblica Raccontare Monterotondo. Lascia un inedito: L’universo del nostro silenzio.
Un suo profilo con foto è nel sito https:////www.monterotondesi.info/SCARDELLETTI.html A lui sono stati dedicati la scuola di Tor Mancina e l’Auditorium di Monterotondo Scalo.
Benedetto Silvestrini. Di lui non abbiamo notizie biobibliografiche tranne quelle rinvenute in Poeti dialettali Eretini che pubblica di lui il poemetto in endecasillabi rimati “La vennegna, la svinatura e lo filtrà” tratta da Ottobre monteretunnese.
Bibliografia
AA.VV., Lu teatru ddé la Sabina, Edizioni della BIG, Rieti, 1991.
Battistoni, Lorena, Giorni di festa (Un secolo di storia monterotondese attraverso ricordi e documenti delle tradizioni folkloriche), Edizioni dell’Anthurium, Todi, 2003.
Carletti, Augusto, Il mio porto. Poesie in dialetto monterotondese, Ed. Monterotondo Oggi, Monterotondo, 1987.
Cataldi, Luigi, La Mola de Adriano ovvero all’Osteria de Castello, Ed. in proprio, Tip. Balzanelli Monterotondo, 2002.
De Angelis, Lorenzo, Poesie romanesche all’osteria, Todariana editrice, Milano, 2002.
Felici, Mauro, Eroe 2000, prefazione di D. Maffìa, Edizioni Monterotondo Oggi, Monterotondo, 1974, poesie.
Felici, Mauro, Chiaroscuri, Edizioni Radio Onda Sabina, Monterotondo, 1980.
Felici, Mauro, La Pasquetta dell’Eretino (raccontando una storia), Pro Loco Monterotondo, 1985.
Felici, Mauro, Vetriche, 1994.
Felici, Mauro, Pasquetta dell’Eretino (commedia musicale), 1994.
Felici, Mauro, Molliche (versetti eretici dell’Eretino), Edizioni Balzanelli, Monterotondo, 1995.
Felici, Mauro, Ornitologica, 1999 (opera teatrale).
Felici, Mauro, Il Sorbo è diventato rosso, 2000 (opera teatrale).
Felici, Mauro, Matilde, 2001.
Felici, Mauro, Una volta si mangiava così, la Storia è servita…, Pagine ed., Ariccia 2003.
Felici, Mauro, L’albero delle gensole, 2004.
Felici, Mauro, L’albero delle gensole, 2004 (anche opera teatrale).
Felici, Mauro, Ornitologica, 1999 (opera teatrale).
Felici, Mauro, Il Sorbo è diventato rosso, 2001.
Felici, Mauro, Il mio Pinocchio, 2005.
Felici, Mauro, Il mio Pinocchio, 2007 (opera teatrale).
Felici, Mauro, La striscia rossa, Vivaci Pensieri Editrice, 2005.
Felici, Mauro, Il festival del tulipano, 2006.
Felici, Mauro, Totus Tuu, 2006.
Felici, Mauro, Totus Tuu, 2006 (anche opera teatrale).
Felici, Mauro, Libertà (Le filastrocche del nonno raccolte lungo i viali della vita), Vivaci Pensieri Editrice, s.l., 2009.
Felici, Mauro, Un burattino dall’infanzia negata, 2010.
Felici, Mauro, Dodici mesi per raccontare una città (in giro per le mura della mia), Edizioni Balzanelli, Monterotondo, 2010.
Felici, Mauro – Leonardi, Piero, Pepperlife, Vivaci Pensieri Editrice, s.l., 2004.
Fiocchetta, Alvaro, Venti scalini, Edizioni Radio Onda Sabina, Monterotondo, 1980 (raccolta di poesie in dialetto).
Fiocchetta, Alvaro, L’albero dei kaki, Edizioni Radio Onda Sabina, Monterotondo, 1984 (libro di 49 poesie in italiano).
Fiocchetta, Alvaro, Paese meu, Edizioni Pro Loco Monterotondo, Monterotondo, 1987.
Fiocchetta, Alvaro, La papera che vola, 1994, ed. Balzanelli, 1994 (raccolta di poesie).
Fiocchetta, Alvaro, Anni passati, Studio Idea Edizioni, Città di Castello, 2010.
Fioravanti, Roberto, La terra di nessuno (poesie), Edizioni Il Filo, Roma, 2005.
Lagrasta, Antonio, a c. di, Antologia dei poeti dialettali eretini, Università Popolare Eretina, Monterotondo, 2010.
Mancini, Angelo, Mi diverto da morire, C.I.A.S., Roma, 1982.
Mancini, Angelo, Graffio di cuore, Manni, San Cesario di Lecce, 2006.
Mancini, Angelo, Montecirco, Manni, San Cesario di Lecce, 2010.
Pietrosanti, Gino, Poesie, Tip. Balzanelli, Monterotondo, s.d.
Pietrosanti, Gino, Ieri, oggi, e…, Tip. Balzanelli, Monterotondo, 2010.
Scardelletti, Osvaldo, Il giardino dell’erba voglio, Editrice Carrier, s.l., 1956.
Scardelletti, Osvaldo, La pelle degli altri, editrice ODEPÉ, 1970.
Scardelletti, Osvaldo, Nostrana, Pro Loco Monterotondo, s.e., 1985.
Scardelletti, Osvaldo, Er monno da principio, prefazione di A. Serrao, Edizioni Mezzaluna, Tipografia Balzanelli, Monterotondo, 1986.
Scardelletti, Osvaldo, L’almanacco di Ergo, 1986.
Scardelletti, Osvaldo, Canto d’amore, L’autore Libri, Firenze, 1986.
Scardelletti, Osvaldo, Mezzaluna di poesia dialettale, (Centro sportivo Mezzaluna. Raccolta di poesie di poeti laziali del Premio di poesia dialettale sabino), Tipografia Balzanelli, Monterotondo, 1988.
Scardelletti, Osvaldo, Noi figli noi padri. Commedia in dialetto monterotondese, Tipolitografia Balzanelli, Monterotondo, 1989.
Scardelletti, Osvaldo, Raccontare Monterotondo, Tip. Ugo Balzanelli, Monterotondo, 1992.
Scardelletti, Osvaldo, L’universo del nostro silenzio, inedito.
Silvestrini, Benedetto, Ottobre monteretunnese, s.e., s.l., s.d.
Valeriano, Leo, Novelleion, ovvero I racconti della Fraschetta. Miti e leggende della provincia romana, Carlo Marconi editore, Roma, 2003.
Vicario, Salvatore, Monterotondo in Sabina, Ed. Mezzaluna, Mentana, 1987.
Vico, Giuseppe, S. Antonio Abate nella storia e nel folklore (con particolare riferimento alle tradizioni popolari in Monterotondo), Tip. Balzanelli, Monterotondo, 1988.
webgrafia
https:////www.comuni-italiani.it/058/065/index.html
https:////www.youtube.com/watch?v=R8oAVavdI0A
https:////www.comune.monterotondo.rm.it
https:////www.santantonioabatemonterotondo.it/curiosita.php
https:////it.wikipedia.org/wiki/Monterotondo
www.lavocedelnordestromano.it
https:////www.upemonterotondo.it
https:////filtrodamore.blogspot.com/2011/01/festa-di-santantonio-abate.html
www.monterotondesi.info
Felici, Mauro – Leonardi, Piero, Pepperlife, Vivaci Pensieri Editrice, s.l., 2004
(poesie in dialetto di Felici e foto di Leonardi – siti consigliati: www.maurofelici.com – per le foto www.altrafoto.it)