L’ispirazione che muove la poetica di Sebastiano Aglieco, al fondo, è genuinamente religiosa, una religiosità allo stato sorgivo, scevra da ogni commistione confessionale e attenta, semmai, alla sacralità della vita e della storia. Altrettanto potente in lui, però, è l’afflato etico, una sete di giustizia che si traduce nella disposizione all’apertura all’altro e all’amore per il prossimo, soprattutto qualora si tratti degli ultimi o dei bambini, con una forte componente evangelica e profetica. Questo, però, comporta un costo, un prezzo altissimo che il poeta paga sovente in termini di marginalità, solitudine e fraintendimento, un pedaggio imposto soprattutto da parte dei «compagni di strada», i poeti.
Ma la poesia, in lui, assolve anche ad un’altra funzione che potremmo chiamare terapeutica, nel senso che solo la poesia può suturare (perché sanarli del tutto è molto più difficile) quelle ferite o quegli strappi che la vita ha inflitto, a cominciare dal distacco doloroso dalla terra d’origine (la Sicilia, nell’area del siracusano), per giungere sino all’icona di tutti i distacchi, quello dalla madre.
Su questi temi, ovvero sulle controverse relazioni familiari, sulla casa, sull’uomo e sul suo rapporto con la storia, si focalizza l’intera produzione di Aglieco che prende le mosse dal terreno della lingua per riattingere, in tempi più recenti, anche il dialetto dell’infanzia (Compitu re vivi, 2013), con un indubbio guadagno in termini di forza espressiva.
L’approdo al dialetto, tuttavia, non è da intendersi come una concessione alle mode, né come un diversivo o una digressione, bensì piuttosto come necessità di esprimere l’inesprimibile nell’unica lingua che possa tentare di farlo, quella che ci ha visto nascere e crescere, magari – con Ungaretti – frementi d’inconsapevolezza. Si tratta, anche, di una sfida con se stessi e di un cimento con la sperimentazione di inedite soluzioni, dal momento che il dialetto in oggetto viene riesumato dai ricordi e in parte reinventato.
Contano poco, nel suo caso, le suggestioni di altri poeti dialettali: non tanto perché Aglieco non ne abbia conoscenza o non li abbia frequentati, ma piuttosto perché la genesi di questa scelta affonda le radici e trova alimento nel serrato confronto con se stessi e con nodi mai del tutto sciolti, in una parola con l’immersione a tutto campo nelle sabbie mobili dell’io.
Lingua della madre o lingua del padre? E l’una e l’altra, ovvero lingua della mansuetudine e del dono gratuito, come pure lingua della sopraffazione e dello sfregio, ma soprattutto lingua del poeta che si riappropria dell’identità di figlio nell’atto di risillabare quei suoni dimenticati e quasi rimossi.
Maurizio Casagrande
A Cciurìddia
Virìva na forma ’ntica
dd’occhi giràti a nu nenti:
vattìnni, làssimi accussì
nun aju nenti.
Nenti era tutta l’aria ca gilàva
na bbestia raggiàta rispiràva
supra u cantùni a mmànca ra muàrra.
A Floridia – Vedeva una forma antica / quegli occhi rivolti a un niente: / vattene, lasciami così / non ho niente. / Niente era tutta l’aria che gelava / una bestia feroce respirava / sopra l’angolo a sinistra dell’armadio.
***
A matri fujùta nno scuru
Si scuppulàu u tettu
nu ventu arraggiàtu u fici vulàri
scuppàu, fici tùmmula nno curtìgghiu
i sciàncu, niscènu fora i fìmmini jttànnu uci
’n cutèddu ci tagghiàu i testi
c’èrunu rasti rutti e sporti
ri latti, a matri ruppi i potti
niscju ’n ciumi
vippi tutti i vucchi r’addèi
e a màchina s’asdurrubbàu
’mmenzu e buffi.
La madre fuggita nel buio – Si scoperchiò il tetto / un vento feroce se lo portò via / cadde sbattendo, nel cortile / vicino, uscirono le donne urlando / un coltello ci tagliò le teste / vasi rotti e borse / di latte, la madre ruppe le porte / un fiume straripò / bevve tutte le bocche dei neonati / e l’auto precipitò / in mezzo ai rospi.
***
A prima lìttira
Forsi, stu scantu
è na jastìma ’nfracirùta ri tantu tempu
n’ùmmira senza raggia, lassàta a
stutàrisi rarrèri a ’m muru
ri muffa e rina, e ora ti nnòmina
ti vuli canùsciri.
Jucàunu ’n terra
– c’era n’aria ri mari – u piccirìddu
sintju na uci ca unciàva a stanza
’n ciàuru ri rosi sicchi
na navi ’mbriaca.
Eff comu focu
comu patri e matri.
Nun c’era chiù tempu prima ri ogni
eff, prima ri ogni zita.
La prima consonante – Forse, questa paura / è una maledizione infracidita da tanto tempo / un’ombra quieta lasciata a / spegnersi dietro un muro / di muffa e sabbia, e ora ti chiama per nome / vuole conoscerti. / Giocavano a terra / – c’era un’aria di mare – il bambino / sentì una voce che gonfiava la stanza / un odore di rose secche / una nave ubriaca. / Eff come fuoco / come padre e madre. / Non c’era più tempo prima di ogni / eff, prima di ogni sposa.
Dalla raccolta di Sebastiano Aglieco Compitu re vivi, Il Ponte del Sale, Rovigo 2013.
SEBASTIANO AGLIECO è nato a Sortino, in provincia di Siracusa, il paese degli asini della Cavalleria Rusticana. Ha vissuto tra i monti e il mare, in Sicilia, fino a 24 anni, poi accasato, ma per sbaglio, a Monza, dove non ha messo mai radici. Da qualche anno è ritornato a insegnare a Milano, nella scuola elementare. Ha pubblicato diversi libri di poesia. I primi, praticamente clandestini, poi Giornata (La vita felice 2003, con una nota di Milo De Angelis, premio Montale Europa 2004), Dolore della casa (Il ponte del sale 2006), Nella Storia (Aìsara 2009), e la raccolta di saggi Radici dlle isole (La vita felice 2009), che raccoglie il lavoro critico svolto in questi anni. Collabora con riviste di poesia (La Clessidra, La Mosca di Milano, Ali, Gradiva, e l’annuario di poesia della casa editrice puntoacapo). Dirige per l’editore L’Arcolaio la collana “I nuovi gioielli”. Suoi testi e interventi sono presenti in plaquettes d’arte, realizzate in sintonia con artisti visivi e musicisti, volumi collettivi, riviste e in rete. Soprattutto, forse, si è occupato di educazione: scrittura e teatro. Di recente è stato pubblicato per l’associazione Il ponte del sale di Rovigo il libro in lingua siciliana Compitu re vivi.